Il mercato non è sempre una strategia fallimentare quando si parla di ambiente: Europa insegna ad America 1 a 0

1 04 2010

è quello che ho imparato  alla conferenza a Duke University per la presentazione del nuovo libro di Ellerman (MIT), Convery (University College Dublin) e De Perthuis (University Paris-Dauphine) sul mercato delle emissioni in Europa.

Può sembrare strano aver fatto tanta strada per venire in America, per sentire parlare della situazione di casa. Ma il contributo più interessante del libro non è una mera analisi della funzionalità dello strumento messo a punto dalla comunità Europea per ridurre le emissioni e stimolare le produzioni più green, ma piuttosto l’averlo reso un mezzo di paragone per gli altri stati, USA in primis, che faticano a riconoscere i benefici di un’economia verde.

Il libro e la presentazione, partono giustamente da un’analisi storica, individuando tra le ceneri delle iniziative riguardanti la carbon tax o il raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto il punto di partenza di quello che diventerà il più efficiente sistema di riduzione delle emissioni al mondo. La maggiorata attenzione ai cambiamenti climatici, un clima favorevole a livello politico e di industria, forti pressioni da parte di NGO e associazioni di consumatori hanno sostenuto l’approvazione della direttiva che, a partire dal 2005, ha previsto limiti alle emissioni degli stabilimenti europei nei settori dell’energia, industria siderurgica, dei prodotti minerali, ceramica e della carta. Il meccanismo sottostante il sistema ibrida forme di regolazione pura -attraverso l’individuazione dei settori che per legge devono rispettare queste norme – con quelle di mercato – permettendo un mercato dei diritti di emissione con prezzi determinati dal libero mercato, in pieno stile Chicago School.

Gli autori del libro sottolineano l’efficacia del sistema: in 3 anni si è assistito ad una riduzione delle emissioni compresa tra il 2 e il 6% del totale. Cifra molto al di sotto degli obbiettivi del 20% fissati per il 2020, ma che rappresentano il miglior risultato di sempre in termini di politiche atte a ridurre le emissioni. Vantaggi interessanti sono stati rilevati anche dal lato economico, con lo sbocciare di nuovi intermediari e con il coinvolgimento di molti più siti di quelli strettamente previsti dalla legge. Il libro non prende in analisi gli impatti della crisi, ma gli autori sono convincenti nello spiegare che il mercato delle emissioni pur non essendone immune, resiste alla congiuntura negativa, soprattutto grazie alla presenza di reali vantaggi economici di cui hanno beneficiato molti soggetti avvallando le richieste di questo mercato “artificiale”.

Un sistema con difetti e risultati non sempre strabilianti, ma che, a detta degli autori, finora è il migliore esempio di accordo sovra-nazionale in termini di risultati ambientali e impatti a livello economico. Interessante notare il fervore con cui professori americani superavano il tradizionale orgoglio nazionale per documentare un successo d’oltreoceano. L’obbiettivo del libro, e della relativa conferenza, erano proprio quelli di capire per imparare e replicare. In un congresso che ha appena faticato ad approvare la riforma sanitaria non è pensare chiedere in tempi brevi di legiferare su un altrettanto discusso argomento. Tuttavia gli autori sono convinti che applicare in America o in altre zone del mondo un modello simile sia non solo auspicabile ma anche fattibile, seppure con grandi difficoltà. Un modello che come quello europeo possa funzionare nonostante l’eterogeneità degli stati membri e nonostante gli ineludibili svantaggi cui alcune aziende incorreranno nel breve-medio termine, grazie all’azione di un attore centrale che gestisca il sistema e che garantisca anche vantaggi “compensatori” agli stati partecipanti.



E se fosse proprio il territorio il laboratorio di una rivoluzione energetica incentrata sulle rinnovabili?

23 03 2010

Per evitare di essere accusata di plagio, lo dico già nelle prime righe. La frase del titolo non è mia ma è ripresa dall’ interessante introduzione di Edoardo Zanchini an un altrettanto interessante rapporto di Legambiente sul rapporto dei comuni italiani con le fonti di energia alternativa.

Fonti amientaliste e politiche stanno da anni cercando di spingere un modello di produzione di energia distribuita puntando sui singoli individui, nella speranza che un condizionamento culturale e qualche incentivo in ordine sparso possa convincere grandi masse di cittadini a sostenere investimenti a medio lungo termine per installare impianti di energia alternative. Un approccio bottom up che coinvolga il maggior numero di cittadini è sicuramente auspicabile, intendiamoci. Forse però non sempre efficace, visto il ridotto numero di impianti installati dalle famiglie italiane, soprattutto rispetto ai risultati ottenuti in altre nazioni (e.g., Germania) che pure non godono come noi delle fonti di energia rinnovabile, sole in primis. Il problema, è che da un lato lo Stato non può o non riesce a farsi carico di una ristrutturazione completa del sistema di approviggionamento energetico, dall’altro la singola famiglia fatica a superare le logiche di breve termine per installare un impianto che garantirà da subito vantaggi ambientali e sociali in genere, ma economici solo nel medio-lungo termine. Il quadro legislativo ed economico incerto non contribuisce certo a favorire la situazione.

Il recente rapporto “Comuni Rinnovabili 2010” curato da Legambiente ci ricorda che c’è un attore, tra la politica politicante e le scelte del singolo cittadino, che può facilitare il passaggio alle energie pulite: l’ente locale. Un ruolo che non è solo potenziale ma è già realtà in molte zone d’Italia. I dati parlano chiaro; sempre più comuni, un po’ per far cassa in periodi di ridotti finanziamenti nazionali, un po’ per contribuire a rivitalizzare l’economia locale e migliorare le condizioni ambientali, hanno investito in pannelli solari o impianti di energia geotermica, che in alcuni casi riescono a soddisfare interamente il fabbisogno dei loro cittadini. 6.993 hanno già installato almeno un impianto e il trend rispetto agli anni scorsi sembra molti incoraggiante: solo un paio di anni fa erano meno della metà. Il fotovoltaico è quello che va per la maggiore, ma alcuni comuni si sono cimentati anche nell’istallazione di impianti eolici (297), geotermia (181) o idroelettrici (799). Già 15 comuni sono riusciti a coprire l’intero fabbisogno energetico, in termini sia di elettricità che di riscaldamento dei propri cittadini.

Non stupisce che il caso più emblematico sia in provincia di Bolzano, che dispone di più di 960 metri quadri di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli fotovoltaici (per 1800 abitanti, ndr) diffusi sui tetti di case e aziende, ma farà piacere sapere che, almeno in questo caso, non sono solo le regioni del Nord ad aver colto la sfida economica ancora prima che ambientale, delle rinnovabili. La mappa della diffusione degli impianti rinnovabili mostra un interessante coinvolgimento di comuni e provincia in tutto il territorio nazionale, pur scontando comprensibili differenze riguardo le singole tecnologie:Biomasse, Idroelettrico e Solare Termico sono più diffuse nel centro-nord, mentre solare ma soprattutto eolico sembrano punti di forza soprattutto del centro-sud.

Al di là dei dati sulle singole tecnologie mi sembra interessante rilevare il ruolo emergente del territorio come attore principale del cambiamento verso un modello ad energia pulita. Gli enti locali possono rappresentare l’anello mancante per implementare questo modello virtuoso, superando i limiti cui incorre il singolo – permettendo vantaggi di scala e una migliore gestione della burocrazia legata ai nuovi impianti – e il regolatore – grazie alle più gestibili dimensioni e alla maggiore conoscenza del territorio, del suo potenziale e delle sue necessità.

Valentina



Ma quanto valgono le tecnologie rinnovabili?

9 10 2009

Si parla molto del valore di impianti per la produzione di energia rinnovabile: ma come valutarlo?

I favorevoli alle installazioni di pannelli solari e impianti eolici suggeriscono di considerarli come investimenti di lungo termine, sottolineando i risparmi in bolletta e gli eventuali guadagni per la rivendita dell’energia al sistema centrale. I puristi dell’ecologia ne sottolineano soprattutto il valore in termini di tonnellate di emissioni risparmiate, in centimetri di buco dell’ozono evitati, in milligradi centigradi di surriscaldamento terrestre in meno. Imprenditori e privati attenti al portafoglio ne considerano soprattutto il prezzo di listino, scoraggiandosi di fronte agli elevati costi di acquisto di impianti fotovoltaici e al lontano break-even-point dei pannelli solari.

Tutti sono interessati a capirne il vero valore, per avere un mezzo per promuovere queste forme di produzione di energia più sostenibile ma anche per comprenderne il potenziale economico, d’investimento, lo sviluppo futuro. Ma quanto valgono veramente queste tecnologie?

A quanto pare, un nuovo interessante indicatore può aggiungersi alla lista di cui sopra. Sembra infatti esserci una nuova categoria di appassionati del pannello: i ladri. E a guardare l’ammontare della refurtiva, cento milioni di euro nel solo 2008 e il trend in crescita per il 2009 si direbbe che il prodotto il valore del prodotto non sia da poco. A leggere le cronache locali, il furto di strutture destinate alla produzione di energia rinnovabile è diventato un tormentone in tutta italia, un degno avversario di Rolex e dei gioielli della nonna per il premio miglior refurtiva dell’anno, soprattutto nelle zone più isolate dove gli eco-ladri possono agire indisturbati.

Sembra che le gang dei ladri di pannelli stiano diventando più temibili dei ladri delle ville. O che i pannelli siano diventati più redditizi delle cassaforti dei signorotti locali. Tanto che è stato messo a punto un dispositivo antifurto apposta per proteggere i panneli solari, con tanto di localizzatore Gps incorporato.

Al termine dell’operazione chiamata, con gran fantasia, Operazione Kyoto, la squadra mobile di Matera ha inchiodato una banda che operava con gran efficienza, riuscendo a smontare in una sola notte un centinaio di moduli. Niente male per un bottino che non si può certo trasportare nelle tradizionali sacche da ginnastica. La banda del pannello (che con un nome così potrebbe diventare un indimenticabile soggetto cinematografico…) che per mesi ha terrorizzato gli eco-investitori del Sud Italia aveva trovato anche gli acquirenti: i pannelli venivano infatti spediti via furgone nel Nord Africa, a un terzo del prezzo italiano. Dei Robin Hood moderni, insomma.

Chi l’ha detto che i paesi più poveri non sono eco-sensibili?

Valentina



Si cambia luce

8 09 2009

Dopo tante discussioni e progetti il giorno è arrivato. Dal primo di settembre comincia il cambio generazionale delle lampadine, che vedrà sostituite tutte le lampadine ad incandescenza con le nuove ad alta efficienza energetica.

Il cambiamento, dovuto a un regolamento europeo, prevede una sostituzione graduale, da ultimarsi entro il 2012. La decisione non è un fulmine a ciel sereno: la discussione del progetto di legge è iniziate nel parlamento europeo molti anni fa, spinta dalle considerazioni sull’incidenza dei consumi elettrici sul totale delle emissioni e sullo spreco energetico. Che le lampadine a incandescenza fossero dei mostri ecologici, poco efficienti e pure inquinanti (trasformano solo il 5% dell’energia in entrata in luce) era risaputo da tempo. Eppure il minor costo rispetto alle rivali green come le lampadine fluorescenti, alogene o LED, e le diverse prestazioni le hanno finora date per favorite nel mercato finale. Anche se, assicurano in europa, il passaggio a queste lampade può permettere il risparmio di 50 euro in bolletta ad ogni famiglia. Colpa della poca lungimiranza e di una scarsa disponibilità dei nuovi prodotti, nelle vetrine mediatiche per le loro migliori performance ma più difficili da trovare nel ferramenta di quartiere o negli scaffali dei grandi magazzini.

Per porre fine a questo circolo vizioso in cui le aziende producevano prodotti di conclamata inefficienza per soddisfare le esigenze di consumatori pigri al cambiamento e attenti ai costi di breve, ci è voluto l’intervento del terzo soggetto del mercato, lo Stato. La commissione europea si è presa infatti carico di risolvere questa inefficienza e ha scelto questo settore quasi a mascotte per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica e riduzione delle emissioni del pacchetto 20-20-20. Il policy maker si è quindi preso la briga di selezionare le tecnologie efficienti, o meglio, quelle più inefficienti, sostituendosi al libero mercato ingabbiato in un circolo vizioso che non avrebbe, da solo, raggiunto gli obiettivi di sostenibilità ambientale. Con il risultato che, a livello europeo il risparmio in elettricità che si dovrebbe raggiungere sarebbe pari a 10 miliardi di euro con una riduzione di CO di 38 milioni di tonnellate, pari alla produzione di 52 centrali elettriche o a 156 milioni di barili di petrolio in un anno.

E la sostenibilità economica? L’imposto cambiamento di tecnologia non è stato certo indolore per le aziende del settore. Inutile nascondersi che molte aziende hanno sofferto nel sostenere i costi di una riconversione della propria offerta produttiva (che comunque, vedranno bene di spartire con il mercato finale). Ma per alcune questo cambiamento è diventato fonte di un vantaggio competitivo. Come Philips, che grazie alla virata vero una produzione di eco-lampadine è ora leader indiscussa del mercato. Fiutando l’ineluttabilità del cambiamento, si è lanciata, prima dell’effettiva entrata in vigore della legge, nelle nuove tecnologie, riconfigurando il suo brand, ponendo attenzione a ogni aspetto di inquinamento e consumo dei suoi prodotti e processi produttivi, e comunicando in grande stile il tutto ai consumatori. Cominciando con largo anticipo il cambiamento, si è risollevata e guadagnata, ora, il ruolo di leader nel mercato, e non solo europeo. Vantaggio da first mover, direbbero gli economisti, strategia di medio-lungo termine, i più saggi.

L’esempio della lampadina, mascotte delle nuove produzioni sostenibili europee, ci insegna che a volte il mercato, da solo, non ce la fa a tenere insieme i tre assi della sostenibilità, ambientale, energetica e sociale e che in questi casi l’intervento dello stato può essere utile per aumentare il welfare totale, uscendo dai meccanismi inceppati delle inerzie e delle path dependencies tecnologiche. E tuttavia Philips ci conforta, confermando che c’è spazio nei nuovi scenari verdi per aziende che decidono di investire nel design, nei processi, nella comunicazione in sostenibilità. La necessità di migliorare le performance ambientali prodotti e processi produttivi sembra ormai ineludibile: la differenza tra chi vince e chi perde alla fine si giocherà anche sulla capacità di essere pro-attivi rispetto al cambiamento.

Valentina



E luce fu!

18 05 2009

Tra le mille attrazioni che la fantastica Copenhagen offre, non mi sono lasciata sfuggire la possibilità di visitare la mostra “Future Lights” ospitata dal Danish Design Centre.

La Danimarca è famosa per il suo design e tra gli oggetti in cui eccelle lampade e lampadari sono sicuramente i più importanti. Negli anni, vari designer danesi si sono succeduti nel trasformare un oggetto di uso comune in un puro oggetto del desiderio. E d’altronde non c’è da stupirsi che in un paese dove durante la maggiorparte dell’anno la luce non c’è, ci sia una grande attenzione al sistema d’illuminazione. Recentemente, l’attenzione all’estetica si è incrociata sempre di più con l’attenzione all’ambiente, come dimostra l’esposizione allestita nel più importante centro del design danese.

L’oggetto della mostra era la luce e l’illuminazione, con il preciso scopo di raccontare attraverso la voce e le creazioni dei designer danesi come sia possibile unire l’utile al dilettevole, l’innovazione con la sostenibilità ambientale. La mostra vale sicuramente la visita: oltre a raccogliere i prodotti innovativi del settore è anche un bel modo per capire appieno il potenziale di utilizzare sistemi innovativi di illuminazione che riducano l’impatto ambientale.

Tecnologia. Un primo semplice passaggio ad un illuminazione più pulita parte da una semplice sostituzione delle lampadine utilizzate. Passare dalla lampadina ad incandescenza a lampade alogene o a led riduce di moltissimo l’energia impiegata (soprattutto, quella sprecata) e aumenta anche gli effetti positivi della luce sull’umore e la produttività dell’uomo.

Gestione. Ma rendere l’illuminazione sostenibile non si completa semplicemente nello svitare tutte le lampadine esistenti per sostituirle. C’è un potenziale di energia risparmiata ancora maggiore nella gestione più efficiente della luce, una gestione intelligente che gestisca al meglio non solo il quando ma anche il quanto e il cosa illuminare, in base alle reali esigenze. Ogni lampada rivolta a illuminare uno spazio inutile è una grande bacino potenziale di energia che viene sprecato ogni giorno, soprattutto nell’arredo degli spazi urbani e nei locali pubblici, dove chi preme l’interruttore non è chi paga la bolletta.

Interazione. Ma la gestione sostenibile della luce non è solo questo. Può essere molto più che semplice reazione, riduzione degli sprechi e perfezionamento delle tecnologie. Quello che la rende materia interessante per designer e aziende è il fatto che il sistema d’illuminaizone può diventare un fantastico strumento di innovazione. E il modo più interessante, da quanto ho visto, è quello di renderlo interattivo. Le potenzialità in questo senso sono immense quanto la fantasia di designer ingegniosi e orientati alle vendite. Le cose più intriganti che ho visto alla mostra sono state la possibilità di cambiare colori, intensità e movimento delle luci con il passaggio delle persone o in base ai differenti suoni. Oppure il fatto che la luce si accende appena ti siedi sulla poltrona, cambia colore in base al colore delle cose che appoggi sulla sedia, si diffonde gradatamente a simulare l’aurora per un risveglio soft.

Insomma, nel connubio design – sostenibilità c’è molto più che un semplice risparmio, un adattamento alle nuove tecnologie. Il vero potenziale, soprattutto economico, sta invece nelle innovazioni che rende possibile, sinergie che possono trasformare e arredare spazi urbani rendendoli interattivi e divertenti risparmiando allo stesso tempo sui costi.



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



che fare?

23 04 2009

Questa settimana sono stata ad un interessante convegno sui cambiamenti climatici e il loro effetto sulle strategie aziendali. Qui a Copenhagen queste cose le prendono davvero sul serio, anche grazie all’imminente COP15 , il meeting annuale tra i rappresentanti delle nazioni che hanno ratificato l’UN climate convention, che la città ospiterà a fine anno.

Lo scopo del meeting era molto ambizioso: preparare le basi per lanciare un programma in cui Copenhagen Business School, l’università che ha organizzato e ospitato l’evento, si pone in prima linea nella ricerca in tema di sfide ambientali per il mondo aziendale. Progetto ambizioso, ma molto promettente, soprattutto grazie alle collaborazioni importanti su cui può contare. Come ad esempio Dong energy, azienda leader nello stato per la gestione integrata dell’energia, che si occupa dell’intera catena del valore energetico, se così la possiamo chiamare, dalla produzione di energia fino alla distribuzione e al servizio al cliente. Anche se al momento l’azienda è legata principalmente alla produzione da fonti fossili, i progetti sono ambiziosi: creare un sistema integrato che utilizzi principalmente energia da fonti rinnovabili, mantenendo comunue costante l’affidabilità nella distribuzione energetica.

Altro partner interessante dell’iniziativa, che ha avuto modo di presentare la sua via per una produzione sostenibile è novozymes, leader mondiale in quella che loro definiscono bio-innovazione. Per dirla spiccia, l’azienda è specializzata nella creazione per i loro clienti, dei più svariati settori, di soluzioni innovative a base di enzimi, che migliorino le performance dei prodotti o processi dei clienti riducendo l’impiego di energia e di materie prime. Consiglio un passaggio nella parte del sito in cui pubblicizzano le soluzioni che hanno già creato: dal dentifrico non inquinante anti-batteri al cibo processato di migliorata qualità.

Dopo una breve presentazione delle esperienze di queste ad altre aziende in termini di sostenibilità ambientale, la discussione si è spostata ad un livello più intimo, in cui imprenditori, professori e ricercatori hanno discusso vis a vis di quelli che sono sentiti come i maggiori ostacoli o le migliori possibilità per stimolare il passaggio a una produzione più sostenibile, con lo scopo di identificare e definire quali siano le priorità per il mondo della ricerca.

Nessuna decisione è stata presa, nessuna tonnellata di Co2 è stata ridotta come immediata conseguenza del meeting. Ma sicuramente sono state poste delle buone basi per lo sviluppo di azioni congiunte tra il mondo della ricerca e quello aziendale, per illuminare la strada che porti in quella direzione.

Valentina



Come trasformare una landa desolata (in una gallina dalle uova d’oro)

3 03 2009

Durante una pausa caffè il mio occhio distratto è caduto sull’ultimo numero del magazine del Financial Times, che questa settimana offriva uno special issue dedicato completamente all’ambiente. La mia attenzione è stata attratta da una foto molto significativa: un bel primo piano di un ciuchino con sullo sfondo una pala eolica. Capite che non potevo che prendere in mano il magazine per interpretare questo insolito soggetto. Incuriosita, ho scoperto che quello non era un asino qualunque, ma un asino dell’Alto Mihno, una delle più desolate zone del portogallo, caratterizzata solo da lande sperdute battute dal vento, poche fattorie ma tante pecore. E asini, ovviamente.

Ma negli ultimi cinque anni il panorama è decisamente cambiato. Assolutamente coinvolta nella lettura, ho scoperto infatti che recentemente, a far compagnia a ciuchino, sono state installate anche 120 turbine eoliche che, con i loro 530GWh di elettricità prodotta all’anno, riescono coprire il 53% dei bisogni della popolazione locale. E per il futuro l’ambizione è ancora più grande: per il 2020 il ministro dell’economia Pihno, ideatore del nuovo green deal portoghese, promette (e i dati di crescita della produzione attuali sembrano confermare in pieno le sue parole) che il Portogallo produrra più del 60% della sua elettricità e il 31% dela sua energia da fonti rinnovabili.

Insomma, in pochi anni il Portogallo è passato da fanalino di coda dell’economia europea a paese leader per quanto riguarda le enrgie rinnovabili.

Perchè? Il ministro Pinho, prestato alla politica dal mondo della finanza, ha dichiarato di “essere stato convinto che un paese piccolo come il Portogallo non poteva essere grande in tutto, ma sapeva che -per non rimanere definitivamente tagliato fuori- doveva essere molto grande in qualcosa”. E dove investire quindi? Per un paese povero di risorse naturali, così come di tradizioni industriali, la via dell’energie rinnovabili ha rappresentato un lampo di genio. Risolvendo da un lato la dipendenza energetica, dall’altro stimolando un settore innovativo quanto lucrativo.

Come? Secondo Pinho, il trucco perchè le rinnovabili diventino un vero business sta nel “raggiungere i minimi di scala, rafforzare la competizione tra produttori e creare i giusti incentivi per attirare investimenti privati”. I portoghesi lo hanno fatto con un sistema di fee-in-tariffs, che consiste in una promessa di acquisto di energia da produttori di energia pulita a prezzi più alti del mercato per un periodo, il che asicura una stabilità negli incentivi nel medio-lungo termine. E sembra che questo meccanismo abbia davvero funzionato, accellerando il tasso di innovazione così come la capacità installata, tanto che ora i prezzi dell’energia eolica sono praticamente allo stesso livello di quelli dell’energia da fonti fossili.

Installare questa capacità produttiva non è stato certamente semplice, tra problemi logistici e finanziari. Ma l’ottica di investimento nelle rinnovabili di medio termine ha sicuramente pagato. Secondo i calcoli del ministero, per il 2020 gli investimenti in energie rinnovabili -il Portogallo ha investito pesantemente anche nel solare, costruendo il parco solare più grande al mondo, n.d.r.- porteranno a un risparmio di 440 milioni di euro in costi di carburante nonchè un aggiuntivo risparmio di 100 milioni in emissioni di Co2 risparmiate, agli attuali prezzi del mercato europeo delle emissioni di gas serra.

Quali sono le lezioni per l’Italia? Primo, che attraverso le rinnovabili  è possibile guadagnare e valorizzare aree altrimenti spopolate e industrialmente povere. Secondo, che per supportare tali industrie è necessario un adeguato business model, che acconti anche di incentivi di medio-lungo termine per il settore privato. Terzo, che non possiamo più guardare al Portogallo come fanalino di coda, per consolarci delle nostre magre performance. Guardando meglio la foto, mi sembra che il ciuchino portoghese mi strizzi l’occhio.

Valentina



L’eco sostenibilità di Philips

9 02 2009

La responsabilità sociale d’impresa è associata da sempre all’idea di grande azienda, che stila un rapporto annuale sulle sue attività pseudo-sostenibili, a livello sociale o ambientale, per purificare la sua immagine agli occhi di consumatori sempre più sospettosi sulla attività produttive delle multinazionali.

Eppure qualche caso positivo di azienda che si muove oltre il “greenwashing” c’è. Prendiamo ad esempio Philips. Multinazionale, produttrice di prodotti ad alto consumo e ad alto consumo energetico, ha il profilo perfetto per il ruolo della “cattivo”. Ma negli ultimi anni ha lanciato una campagna con cui ha completamente ri-disegnato la propria immagine, e si è lanciata anche in una serie di iniziative a livello ambientale che la rendono uno dei casi più interessanti sul panorama internazionale. Ciò che rende interessante, secondo me, il caso Philips è il fatto che è riuscita nell’arduo compito di conciliare rispetto per l’ambiente e profittabilità, aumentando la propria capacità competitiva tanto da contribuire a risolevarla dalle cattive acque in cui ha navigato. E il tutto grazie anche a una campagna pubblicitaria intensiva e soprattutto coerente con la nuova strategia aziendale.

Ma cosa ha fatto di concreto Philips per meritarsi tanta attenzione (e anche successo di mercato)? La storia ambientale di Philips inizia nel 1994, con i primi miglioramenti ambientali che ora si sono evoluti nel quarto EcoVision program, lanciato nel 2007; una sorta di dichiarazione d’intenti che punta a generare il 30% dei profitti dell’azienda grazie proprio ai prodotti verdi, raddoppiare gli investimenti green e migliorare l’efficienza ambientale dei propri processi produttivi. E fin qui niente di nuovo. Ma la parte che mi ha interessato di più, da markettara, è stato la lettura del Green Flagship Project, che assegna un marchio, il Philips Green Logo, ai (propri) prodotti che hanno delle peformance ambientali superiori agli altri prodotti nel mercato. L’idea è che mentre ci possono essere molti prodotti green, solo i migliori possono ricevere il Green Flagship status. Grazie a questo logo, e alla campagna di comunicazione che lo supporta, ad ogni consumatore è assolutamente chiaro, quando entra in un ferramenta o in un Euronics, quale sia il prodotto che ha migliori performance ambientali, anche se magari era partito da casa senza nemmeno pensare a questa caratteristica come a una variabile del suo processo d’acquisto.
Un’idea originale, quella di apporre un proprio marchio ai prodotti per segnalarne la posizione relativa, più che un risultato assoluto, che dà comunque un fortissimo ritorno di immagine per i prodotti, senza aver necessariamente “sconvolto” il proprio processo produttivo.

Un po’ di furbizia, un po’ di marketing, un po’ di sana coscienza ambientale e il logo è fatto! C’è da dire che comunque questo marchio è (abbastanza) affidabile, visto che è certificato da parti terze, e soprattutto è uno stimolo verso un eco-design di prodotto per l’azienda. Le aree in cui viene misurata la performance ambientale del prodotto sono sei: l’efficienza energetica, la riciclabilità, la durata del prodotto, il packaging, i materiali (pericolosi) utilizzati/contenuti e il peso del prodotto. Il prodotto con il Green Logo deve avere performance superiori del 10% o più rispetto ai concorrenti in almeno una di queste sei categorie e nelle altre deve garantire almeno lo stesso livello. Questo progetto, in coerenza con gli obiettivi aziendali, ha portato a delle innovazioni di prodotto molto avanzate in Philips, specialmente nel settore illuminazione, dove possiede la leadership a livello mondiale, settore in cui ha realizzato interessanti prodotti che raggiungono un risparmio energetico della metà rispetto ai sistemi di illuminazione tradizionali (con prodotti per l’illuminazione pubblica) o addirittura dell’80% (con le lampade a LED).

La bella notizia che impariamo da Philips è che realizzare innovazioni eco-sostenibili non solo si può, ma anche può rappresentare un settore ad ampi profitti. Di più, che affinché questo sia possibile questo sforzo di eco-design deve essere sviluppato coerentemente e in concomitanza con attività di comunicazione e più in generale con la strategia aziendale a livello più ampio, in modo da poter beneficiare anche dei ritorni d’immagine relativi, oltre che dall’eco-efficienza in produzione.

Valentina



Soffia il vento della Danimarca

28 01 2009

In questi giorni mi trovo in Danimarca, nel bel mezzo del paradiso del cittadino modello. Unico fattore negativo in una città, Copenhagen, altrimenti perfetta, sono le fastidiose raffiche di vento che ti investono mentre passaggi tranquillo per lo Strøget o mentre bevi una birra in un dei tanti locali nella tipica atmosfera Hygge.

Ma quello che per un turista o per uno straniero trapiantato nel paese delle birre può rappresentare un inconveniente, rappresenta invece un grande vantaggio per l’economia del paese nonchè per le sue performance ambientali. Già camminando per le vie centrali della capitale si può notare una delle caratteristiche del paese: le pale eoliche. Non deturpando per niente lo Skyline cittadino, le pale eoliche rappresentano una presenza costante in quasi tutte le zone del paese, soprattutto nelle ventose lande del nord, dove nelle notti d’inverno, la produzione eolica arriva a coprire addirittura la metà del fabbisogno complessivo nazionale.

La Danimarca è infatti uno dei primi paesi al mondo per produzione eolica, nonchè uno dei maggiori paesi al mondo per la produzione di pale eoliche, con aziende che vendono in tutto il mondo, come la grande Vestas, che occupa più di 15 mila dipendenti e ha installato turbine eoliche in più di 60 paesi al mondo. In media, la produzione di energia attraverso l’eolico in Danimarca si aggira attorno al 23% del fabbisogno nazionale. Al di là delle evidenti condizioni atmosferiche favorevoli, l’eolico nella penisola danese è stato sostenuto da un favorevole contesto sociale, legislativo e anche, cosa di non poca rilevanza, finanziario. Contesto, che non solo ha sospinto la crescita in passato, ma anche quella futura. L’intenzione della Danimarca è di soddisfare entro il 2015 il 75% del fabbisogno di produzione elettrica con gli impianti eolici, anche grazie ad impianti come quello realizzato 12 miglia al largo del porto di Esbjerg, nel Mare del Nord, che, con le sue 80 pale, rappresenta il parco del vento offshore più grande del Paese.

E l’Italia? Il confronto con la Danimarca risulta sicuramente svilente, anche se consola il fatto che in effetti essa rappresenta un benchmark irraggiungibile non solo per noi italiani; un’eccezione anche nel panorama europeo. La Spagna è uno dei pochi stati che si sta muovendo decisamente in questa direzione, comprendo nello scorso anno l’11% del proprio fabbisogno nazionale grazie solamente a questa fonte di energia rinnovabile.

In Italia, dove i 3.640 aerogeneratori installati hanno prodotto un mesto 2% del consumo elettrico nazionale, non ci resta che consolarci con le cifre sui trend. Nel 2008 infatti, il numero di kilowattora installati ha raggiunto un insperato aumento del 37% rispetto all’anno precedente.

Valentina

Più di mille megawatt aggiuntivi, pari a una crescita record del 37%. Nel corso del 2008, i 3.640 aerogeneratori installati nel nostro Paese, hanno prodotto oltre 6 miliardi di kilowattora, cioè il 2% dei consumi elettrici, e alimentato i bisogni di 6,5 milioni di italian