Dalla sostenibilità nelle catene del valore secondo Kraft.

1 05 2010

Da dove partire per ridurre gli impatti ambientali sul pianeta delle attività industriali?

Per anni il mondo ha guardato ai politicanti per trovare una soluzione al problema dell’uso spropositato di risorse non rinnovabili e dell’inquinamento di aria, terra, acqua generate dalla produzione e dal consumo di prodotti e servizi, ma i risultati non si sono dimostrati esaltati. Si sta invece facendo invece sempre più strada l’idea di un approccio bottom up, guardando alla spinta innovativa di imprese che possano canalizzare le proprie entrate verso prodotti a basso impatto ambientale. Un ruolo rilevante in questo senso possono giocare le grandi imprese, che forti di grandi volumi di acquisto e di vendita e di potere di mercato, possono generare maggiori impatti, evitando lentezze e compromessi che sono inevitabili componenti dell’attività politica. Ma come possono le aziende diventare “green”?

Qualche risposta da un intervento alla Nicholas School of the Environment a Duke University del vice responsabile della sostenibilità di Kraft Food, multinazionale seconda solo a Nestlè come produttore di prodotti alimentari&C.

Profitable green. La sostenibilità ambientale è una lente attraverso cui leggere l’attività innovativa ma che non può prescindere da obbiettivi di ritorno sugli investimenti e profittabilità. Prodotto per prodotto, problema ambientale per problema ambientale quindi, l’azienda sceglie di investire in progetti che permettono una contemporanea riduzione dei costi produttivi (magari utilizzando propri scarti produttivi) o la realizzazione di maggiori volumi (grazie all’azione congiunta del marketing che valorizza le caratteristiche di sostenibilità del prodotto agli occhi del consumatore).

Be creative: I problemi ambientali non sono semplici nè hanno soluzioni univoche. Piuttosto, implicano spesso dei trade-off, vista anche la mancanza di tecnologie alternative a quelle impattanti che permettano simili costi. è questo quindi il dominio ideale dell’attività innovativa dell’impresa. Qualche esempio per quanto riguarda il packaging. Molti dei materiali utilizzati per confezionare prodotti alimentari non sono riciclabili e non vi sono al momento alternative a minor impatto ambientale che permettano gli stessi bassi costi. Cambiare il materiale impiegato è però solo una delle possibili soluzioni. Per il brand di caffè inglese Kenko, l’azienda ha agito sulle diverse modalità d’uso del prodotto, riducendo del 97% il packaging vendendo, invece che il solito barattolone usa e getta, pacchi di caffè refill, da svuotare a casa in un barattolone multiuso. Un altro approccio utilizzato per evitare il collo di bottiglia tecnologico, è quello dell’ “up-cycling”: insieme all’azienda TerraCycle, Kraft ha realizzato un sistema che incoraggia i consumatori a riciclare le confezioni dei propri prodotti, che saranno poi trasformati da TerraCycle in borsette o giochi per bambini.

Ridurre gli impatti oltre le proprie attività produttive. Il luogo da cui le aziende partono per ridurre il proprio impatto ambientale sono le attività produttive che hanno luogo all’interno delle proprie mura. Riduzione del fabbisogno energetico, dell’inquinamento atmosferico, degli sprechi produttivi, energie rinnovabili sui tetti. Se è vero che questo approccio è più semplice, permettendo un controllo diretto, non permette tuttavia di ridurre i maggiori impatti ambientali, che spesso sono generati dalle attività di fornitori e altri attori a monte della catena del valore, esterni al controllo diretto dell’azienda. Come risolvere questo problema? Anche in questo caso, l’esempio di Kraft punta verso soluzioni case-to-case. Nel caso ci siano delle certificazioni ambientali valide e i prodotti in questione permettano maggiori ritorni, come nel caso del caffè Kenko, l’azienda sceglie di rifornirsi solo da fornitori certificati. In altri casi, invece, l’azienda sceglie di collaborare con i propri fornitori esistenti, esponendo i propri obbiettivi di sostenbilità e lavorando insieme sulle possibili soluzioni. In ogni caso, il modello “d’imposizione” non sembra funzionare: neanche multinazionali della stazza di Kraft riescono ad esercitare sufficiente potere su fornitori indipendenti. Inoltre il richiedere regole precise a volte diventa controproducente, non permettendo la flessibilità necessaria per affrontare al meglio i trade-off legati ai problemi di sostenibilità. L’esempio di Kraft racconta che incentivare l’attività del fornitore, piuttosto che pretendere, si dimostra la soluzione migliore per rendere verde la propria catena del valore.

Valentina



Electrolux e la sostenibilità attivata: atto primo

17 02 2010

Non servono molte introduzioni per presentare Electrolux. Il gruppo svedese si è guadagnato negli anni una posizione di leadership assoluta nella produzione di elettrodomestici da consumo e professionali, distribuendo ogni anno più di 40 mila aspirapolvere, asciugatrici e forni in più di 150 paesi.

Ma forse meno si sa sulla sua, recente ma non troppo, conversione verde. Conversione forse non è il termine adatto per descrivere un percorso la cui prima tappa risale al 1986, un era geologica fa in termini di consapevolezza del consumatore e di legislazione sul tema, e che si è sviluppato in modo incrementale. All’inizio, fu la normativa. Una serie di provvedimenti restrittivi in termini di materiali cui non era concesso l’utilizzo furono l’occasione per l’azienda per cogliere la necessità di capire il proprio impatto ambientale per prevenire i cambiamenti legislativi, piuttosto che subirli passivamente. Ma ben presto l’approccio ambientale del gruppo è entrato nel vivo della strategia di Electrolux, ben oltre le scrivanie degli uffici qualità o conformità , fino nel vivo dei tavoli decisionali. Si è partito dal rivedere i processi produttivi, in uno sforzo di riduzione degli sprechi di energie e materie prime che ha coniugato i principi dell’eco-efficienza con dei ritorni economici di breve.

Ma le innovazioni più interessanti sono quelle che hanno riguardato da un lato i prodotti. Ogni prodotto è progettato per minimizzare energia, acqua e detersivi impiegati per farlo funzionare, ma anche garantire lo smaltimento e il riciclo alla fine del ciclo di vita. I materiali impiegati sono i più ecologici possibile e non tossici, rispettando standard più rigidi di quelli imposti dalle normative vigenti. Anche il trasporto dei prodotti è stato rivisto secondo principi di sostenibilità: si è cercato di minimizzare l’utilizzo di trasporto su gomma, a favore di rotaia o dell’intermodalità, o almeno di limitarlo ai soli camion a basse emissioni.

Ma quello che è più interessante è che l’azienda ha rivolto i propri sforzi non solo a ridurre gli impatti nel proprio processo produttivo, ma ha coinvolto altri attori, all’esterno dei cancelli aziendali.

I primi sono i consumatori: le più importanti riduzioni degli impatti avvengono infatti in fase di consumo del prodotto, che è progettato perchè il consumatore, nell’uso dello stesso, possa minimizzare i consumi. Il consumatore è quindi coinvolto attivamente:,non è solo soggetto passivo di un comunicazione sulle buone pratiche ambientali del produttore. L’elettrodomestico acquistato lo abilita nel realizzare comportamenti virtuosi ma allo stesso tempo gli dà dei ritorni immediati, non solo in termini etico-valoriali ma soprattutto in termini economici, permettendo risparmi che, specialmente in periodi di crisi, sembrano un argomento più convincente nella scelta d’acquisto del solo contributo alla salvaguardia dell’ambiente.

Gli altri soggetti attivati dall’azienda grazie alla propria politica di sostenibilità sono i fornitori. Il gruppo, infatti, non si è accontentato di garantire la sostenibilità dei processi produttivi che avvengono all’interno dei confini dell’impresa, ma fa un proprio punto di forza l’evidenziare il controllo delle performance ambientali dell’intera catena di produzione che porta alla realizzazione del suo prodotto . Il gruppo ha definito uno stringente codice di condotta, che detta standard in termini di rispetto dell’ambiente, caratteristiche dei prodotti ma anche di salubrità e sicurezza dell’ambiente di lavoro e condizioni salariali che fa rispettare non solo in ognuno dei 54 stabilimenti di proprietà, ma anche in ognuno dei propri fornitori. Come di consueto, enti verificatori terzi sono incaricati di certificare l’efficacia di questo sistema.

Una serie così consistente di innovazioni di prodotto, processo e organizzative, implica investimenti significativi, rivisitazioni del sistema organizzativo, uno sforzo consistente in ricerca e sviluppo. Come sono state realizzate queste innovazioni, e come questo percorso ambientale sia diventato la strategia vincente per Electrolux, tanto da ripagare e oltre gli investimenti realizzati, sarà il contenuto della prossima puntata.

Valentina



Sostenibilità: un trend nel settore del legno-arredo

19 10 2009

Venerdì sono stata a FUTSU, convention dedicata agli ultimi aggiornamenti sull’industria del legno-arredo. L’evento, organizzato dal Consorzio Universitario di Pordenone, è stato strategicamente realizzato in concomitanza con il salone internazionale dei componenti e accessori per il mobile, il SICAM, a Pordenone.

Molti i diversi relatori che si sono susseguiti sul palco, provenienti sia dal mondo aziendale che della ricerca o dell’università. L’intenso e pretenzioso programma era stato suddiviso in quattro macro sezioni (ambiente, IT, nuovi materiali, trend globali) che declinassero in modo diverso ma complementare quali siano le nuove sfide e prospettive per gli attori del comparto.

aziendale con il tema del rispetto dell’ambiente.Una rassegna nel nome della sostenibilità ambientale, come è stato chiaro già dalla scelta dello speaker che ha introdotto FUTSU, Gabriele Centazzo, l’imprenditore di Valcucine noto per aver legato il suo successo. Nonostante fosse teoricamente l’argomento solo della prima sessione, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono stati in qualche modo il lait motiv dell’intera giornata. Non solo discutendo di strategie di comunicazione e innovazione (con le testimonianze di COPAT e IKEA e i rapporti di Federlegno Arredo) ma anche affrontando i temi dei nuovi materiali, vuoi perchè realizzati a partire da materiali riciclati, vuoi perchè realizzati riducendo l’impiego di energia e materie prime fossili, vuoi perchè implichino processi di produzione meno impattanti sull’ambiente.

La ricorrenza delle tematiche della sostenibilità sembra essere un indice del fatto che essa rappresenta uno dei trend principali che sta motivando l’innovazione nel settore. Un elemento che è emerso da quasi tutte le relazioni che hanno toccato questi temi è che essenziale per lo sviluppo e il successo di innovazioni sostenibili è in primo luogo la conoscenza e poi la consapevolezza, sia da parte dei consumatori che delle aziende stesse. In questo senso le certificazioni ambientali si sono dimostrate un utile strumento, nelle parole delle aziende e dei rappresentanti del distretto o delle associazioni industriali, per monitorare le proprie performance ambientali e per comunicarle ai consumatori. Conoscenza, indispensabile per realizzare le innovazioni sostenibili, che spesso viene costruita insieme a soggetti esterni all’impresa: fornitori o KIBS, come il CATAS, centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove specializzato nel settore legno-arredo.

Altro aspetto importante e complementare sottolineato da molti speakers è quello dell’importanza del considerare tutti gli attori della catena del valore per poter realizzare innovazioni che riducano concretamente l’impatto sull’ambiente, rispettando la legislazione e facendo leva su queste tematiche sul mercato finale. Mi ha stupito molto che soggetti diversi si siano indirizzate nel sottolineare l’importanza del Life Cycle Thinking: per essere sostenibili è importante selezionare, gestire e controllare anche le fasi a monte e a valle del proprio processo produttivo. Indispensabile in questo senso è la funzione del design, che ad esempio può concepire una cucina in cui tutti i componenti siano facilmente separati gli uni dagli altri, per favorire il riciclo alla fine del ciclo di vita, come l’ultima cucine Valcucine.

Anche il ruolo dei nuovi materiali sembra essere una frontiera promettente per l’innovazione sostenibile nel settore del mobile. I bio-polimeri sembrano essere una tecnologia già in grado di sostituire gli equivalenti a base fossile, senza troppi investimenti nei processi produttivi esistenti, per realizzare prodotti quali le schiume o le vernici.

Insomma, non è sempre vero che le tecnologie alternative non sono già disponibili. Piuttosto forse, esiste un problema di comunicazione e di mancanza di informazioni. Quello che è sicuro, invece, è che in un settore importante per l’economia italiana come quello del legno-arredo innovazione fa sempre più spesso rima con sostenibilità ambientale.

Valentina



Si cambia luce

8 09 2009

Dopo tante discussioni e progetti il giorno è arrivato. Dal primo di settembre comincia il cambio generazionale delle lampadine, che vedrà sostituite tutte le lampadine ad incandescenza con le nuove ad alta efficienza energetica.

Il cambiamento, dovuto a un regolamento europeo, prevede una sostituzione graduale, da ultimarsi entro il 2012. La decisione non è un fulmine a ciel sereno: la discussione del progetto di legge è iniziate nel parlamento europeo molti anni fa, spinta dalle considerazioni sull’incidenza dei consumi elettrici sul totale delle emissioni e sullo spreco energetico. Che le lampadine a incandescenza fossero dei mostri ecologici, poco efficienti e pure inquinanti (trasformano solo il 5% dell’energia in entrata in luce) era risaputo da tempo. Eppure il minor costo rispetto alle rivali green come le lampadine fluorescenti, alogene o LED, e le diverse prestazioni le hanno finora date per favorite nel mercato finale. Anche se, assicurano in europa, il passaggio a queste lampade può permettere il risparmio di 50 euro in bolletta ad ogni famiglia. Colpa della poca lungimiranza e di una scarsa disponibilità dei nuovi prodotti, nelle vetrine mediatiche per le loro migliori performance ma più difficili da trovare nel ferramenta di quartiere o negli scaffali dei grandi magazzini.

Per porre fine a questo circolo vizioso in cui le aziende producevano prodotti di conclamata inefficienza per soddisfare le esigenze di consumatori pigri al cambiamento e attenti ai costi di breve, ci è voluto l’intervento del terzo soggetto del mercato, lo Stato. La commissione europea si è presa infatti carico di risolvere questa inefficienza e ha scelto questo settore quasi a mascotte per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica e riduzione delle emissioni del pacchetto 20-20-20. Il policy maker si è quindi preso la briga di selezionare le tecnologie efficienti, o meglio, quelle più inefficienti, sostituendosi al libero mercato ingabbiato in un circolo vizioso che non avrebbe, da solo, raggiunto gli obiettivi di sostenibilità ambientale. Con il risultato che, a livello europeo il risparmio in elettricità che si dovrebbe raggiungere sarebbe pari a 10 miliardi di euro con una riduzione di CO di 38 milioni di tonnellate, pari alla produzione di 52 centrali elettriche o a 156 milioni di barili di petrolio in un anno.

E la sostenibilità economica? L’imposto cambiamento di tecnologia non è stato certo indolore per le aziende del settore. Inutile nascondersi che molte aziende hanno sofferto nel sostenere i costi di una riconversione della propria offerta produttiva (che comunque, vedranno bene di spartire con il mercato finale). Ma per alcune questo cambiamento è diventato fonte di un vantaggio competitivo. Come Philips, che grazie alla virata vero una produzione di eco-lampadine è ora leader indiscussa del mercato. Fiutando l’ineluttabilità del cambiamento, si è lanciata, prima dell’effettiva entrata in vigore della legge, nelle nuove tecnologie, riconfigurando il suo brand, ponendo attenzione a ogni aspetto di inquinamento e consumo dei suoi prodotti e processi produttivi, e comunicando in grande stile il tutto ai consumatori. Cominciando con largo anticipo il cambiamento, si è risollevata e guadagnata, ora, il ruolo di leader nel mercato, e non solo europeo. Vantaggio da first mover, direbbero gli economisti, strategia di medio-lungo termine, i più saggi.

L’esempio della lampadina, mascotte delle nuove produzioni sostenibili europee, ci insegna che a volte il mercato, da solo, non ce la fa a tenere insieme i tre assi della sostenibilità, ambientale, energetica e sociale e che in questi casi l’intervento dello stato può essere utile per aumentare il welfare totale, uscendo dai meccanismi inceppati delle inerzie e delle path dependencies tecnologiche. E tuttavia Philips ci conforta, confermando che c’è spazio nei nuovi scenari verdi per aziende che decidono di investire nel design, nei processi, nella comunicazione in sostenibilità. La necessità di migliorare le performance ambientali prodotti e processi produttivi sembra ormai ineludibile: la differenza tra chi vince e chi perde alla fine si giocherà anche sulla capacità di essere pro-attivi rispetto al cambiamento.

Valentina



Rinverdire le catene del valore globali

15 07 2009

Sono appena tornata da un intensa settimana in America dove ho partecipato ad un’intenso workshop in cui si è discusso di upgrading e catene del valore globali. A parte i chili di troppo, imprescindibili dopo una settimana negli States, mi sono portata a casa un bel po’ di interessanti riflessioni che voglio condividere su questo spazio.

Nel contesto di una crescente frammentazione dei processi produttivi su scala globale, gli occhiali adatti per interpretare la nuova divisione del lavoro sembrano non poter prescindere dall’analisi dell’intera catena del valore in cui le aziende sono coinvolte. Nel workshop si è cercato di comprendere le possibilità di upgrading, miglioramento, innovazione, delle aziende che partecipano a queste catene del valore, non più solo a livello economico ma anche sociale e ambientale. La letteratura finora si era concentrata solo sul primo, individuando nella tipologia di governance della catena e nelle capacità delle singole aziende i fattori fondamentali che determinano le possibilità di upgrading.

Una prima interessante novità ufficializzata nel workshop è stato proprio lo spostamento dell’attenzione verso un altro tipo di upgrading, sociale e, soprattutto, ambientale insieme a quello economico, comunque imprescindibile. Il che, inserito in un contesto centerario in cui le aziende sono state considerate come meri attori economici atti a massimizzare il profitto non è cosa da poco. Il workshop ha segnato l’inizio di una nuova agenda per gli studi sulle global value chain, in un crescente interesse per le dinamiche ambientali su cui sembra si vorrà scommettere per molti anni a venire.

Interessante in questa prospettiva è stato il riconoscere come l’innovazione ambientale possa comportare la riconfigurazione delle catene del valore. Da un lato, per poter creare nuovi prodotti sostenibili è necessario cambiare il proprio sistema di relazioni, come per quanto si è visto per il settore dell’auto in cui nuovi soggetti si stanno sostituendo e quelli tradizionali. Per creare l’auto elettrica infatti non bastano più fornitori specializzati nella creazione di ingranaggi ma entrano in scena tutta una nuova serie di attori come i fornitori di batterie elettriche. Dall’altro lato, si dimostra necessario anche una trasformazione del rapporto tra gli attori coinvolti. Le marche di caffè che vogliano vendere un prodotto ecologico devono instaurare un rapporto di partnership con i propri fornitori in Africa per poter garantire il rispetto di determinati standard sui processi produttivi.

Altro interessante aspetto, chiaro nella mente del practitioners ma finora meno in quella degli scholars, è che queste varie tipologie di upgrading non hanno sempre una convivenza facile, essendo caratterizzate da un trade-off. Trade-off tra upgrading economico e sociale, ma anche tra upgrading ambientale oggi rispetto a domani, tra upgrading economico qui e downgrading in qualunque altro punto della catena. Insomma, un po’ di buon realismo nella letteratura che finora si era concentrata ottimisticamente solo sullo studio delle possibilità di miglioramento, ignorando la rilevanza empirica e la potenza esplicativa dei casi di downgrading. E l’attuale periodo di crisi rende questa prospettiva ancora più rilevante.

Il dibattito, quindi, si fa più complesso di quello che aveva caratterizzato questa letteratura finora. Come tenere insieme tutti questi nuovi pezzi, dando senso alle dinamiche di riconfigurazione delle catena del valore a livello globale? La risposta, secondo me, sta nel ruolo di singole aziende leader; aziende che siano in grado di interpretare il cambiameto dei tempi implementando contemporaneamente un upgrading ambientale (e sociale) ed economico grazie alla creazione di un sistema di valori che possa essere riconosciuto dal consumatore finale. L’Italia ha sicuramente qualche carta da giocare in questo senso: vedremo se le aziende raccoglieranno questa sfida.

Valentina



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



L’eco sostenibilità di Philips

9 02 2009

La responsabilità sociale d’impresa è associata da sempre all’idea di grande azienda, che stila un rapporto annuale sulle sue attività pseudo-sostenibili, a livello sociale o ambientale, per purificare la sua immagine agli occhi di consumatori sempre più sospettosi sulla attività produttive delle multinazionali.

Eppure qualche caso positivo di azienda che si muove oltre il “greenwashing” c’è. Prendiamo ad esempio Philips. Multinazionale, produttrice di prodotti ad alto consumo e ad alto consumo energetico, ha il profilo perfetto per il ruolo della “cattivo”. Ma negli ultimi anni ha lanciato una campagna con cui ha completamente ri-disegnato la propria immagine, e si è lanciata anche in una serie di iniziative a livello ambientale che la rendono uno dei casi più interessanti sul panorama internazionale. Ciò che rende interessante, secondo me, il caso Philips è il fatto che è riuscita nell’arduo compito di conciliare rispetto per l’ambiente e profittabilità, aumentando la propria capacità competitiva tanto da contribuire a risolevarla dalle cattive acque in cui ha navigato. E il tutto grazie anche a una campagna pubblicitaria intensiva e soprattutto coerente con la nuova strategia aziendale.

Ma cosa ha fatto di concreto Philips per meritarsi tanta attenzione (e anche successo di mercato)? La storia ambientale di Philips inizia nel 1994, con i primi miglioramenti ambientali che ora si sono evoluti nel quarto EcoVision program, lanciato nel 2007; una sorta di dichiarazione d’intenti che punta a generare il 30% dei profitti dell’azienda grazie proprio ai prodotti verdi, raddoppiare gli investimenti green e migliorare l’efficienza ambientale dei propri processi produttivi. E fin qui niente di nuovo. Ma la parte che mi ha interessato di più, da markettara, è stato la lettura del Green Flagship Project, che assegna un marchio, il Philips Green Logo, ai (propri) prodotti che hanno delle peformance ambientali superiori agli altri prodotti nel mercato. L’idea è che mentre ci possono essere molti prodotti green, solo i migliori possono ricevere il Green Flagship status. Grazie a questo logo, e alla campagna di comunicazione che lo supporta, ad ogni consumatore è assolutamente chiaro, quando entra in un ferramenta o in un Euronics, quale sia il prodotto che ha migliori performance ambientali, anche se magari era partito da casa senza nemmeno pensare a questa caratteristica come a una variabile del suo processo d’acquisto.
Un’idea originale, quella di apporre un proprio marchio ai prodotti per segnalarne la posizione relativa, più che un risultato assoluto, che dà comunque un fortissimo ritorno di immagine per i prodotti, senza aver necessariamente “sconvolto” il proprio processo produttivo.

Un po’ di furbizia, un po’ di marketing, un po’ di sana coscienza ambientale e il logo è fatto! C’è da dire che comunque questo marchio è (abbastanza) affidabile, visto che è certificato da parti terze, e soprattutto è uno stimolo verso un eco-design di prodotto per l’azienda. Le aree in cui viene misurata la performance ambientale del prodotto sono sei: l’efficienza energetica, la riciclabilità, la durata del prodotto, il packaging, i materiali (pericolosi) utilizzati/contenuti e il peso del prodotto. Il prodotto con il Green Logo deve avere performance superiori del 10% o più rispetto ai concorrenti in almeno una di queste sei categorie e nelle altre deve garantire almeno lo stesso livello. Questo progetto, in coerenza con gli obiettivi aziendali, ha portato a delle innovazioni di prodotto molto avanzate in Philips, specialmente nel settore illuminazione, dove possiede la leadership a livello mondiale, settore in cui ha realizzato interessanti prodotti che raggiungono un risparmio energetico della metà rispetto ai sistemi di illuminazione tradizionali (con prodotti per l’illuminazione pubblica) o addirittura dell’80% (con le lampade a LED).

La bella notizia che impariamo da Philips è che realizzare innovazioni eco-sostenibili non solo si può, ma anche può rappresentare un settore ad ampi profitti. Di più, che affinché questo sia possibile questo sforzo di eco-design deve essere sviluppato coerentemente e in concomitanza con attività di comunicazione e più in generale con la strategia aziendale a livello più ampio, in modo da poter beneficiare anche dei ritorni d’immagine relativi, oltre che dall’eco-efficienza in produzione.

Valentina



Soffia il vento della Danimarca

28 01 2009

In questi giorni mi trovo in Danimarca, nel bel mezzo del paradiso del cittadino modello. Unico fattore negativo in una città, Copenhagen, altrimenti perfetta, sono le fastidiose raffiche di vento che ti investono mentre passaggi tranquillo per lo Strøget o mentre bevi una birra in un dei tanti locali nella tipica atmosfera Hygge.

Ma quello che per un turista o per uno straniero trapiantato nel paese delle birre può rappresentare un inconveniente, rappresenta invece un grande vantaggio per l’economia del paese nonchè per le sue performance ambientali. Già camminando per le vie centrali della capitale si può notare una delle caratteristiche del paese: le pale eoliche. Non deturpando per niente lo Skyline cittadino, le pale eoliche rappresentano una presenza costante in quasi tutte le zone del paese, soprattutto nelle ventose lande del nord, dove nelle notti d’inverno, la produzione eolica arriva a coprire addirittura la metà del fabbisogno complessivo nazionale.

La Danimarca è infatti uno dei primi paesi al mondo per produzione eolica, nonchè uno dei maggiori paesi al mondo per la produzione di pale eoliche, con aziende che vendono in tutto il mondo, come la grande Vestas, che occupa più di 15 mila dipendenti e ha installato turbine eoliche in più di 60 paesi al mondo. In media, la produzione di energia attraverso l’eolico in Danimarca si aggira attorno al 23% del fabbisogno nazionale. Al di là delle evidenti condizioni atmosferiche favorevoli, l’eolico nella penisola danese è stato sostenuto da un favorevole contesto sociale, legislativo e anche, cosa di non poca rilevanza, finanziario. Contesto, che non solo ha sospinto la crescita in passato, ma anche quella futura. L’intenzione della Danimarca è di soddisfare entro il 2015 il 75% del fabbisogno di produzione elettrica con gli impianti eolici, anche grazie ad impianti come quello realizzato 12 miglia al largo del porto di Esbjerg, nel Mare del Nord, che, con le sue 80 pale, rappresenta il parco del vento offshore più grande del Paese.

E l’Italia? Il confronto con la Danimarca risulta sicuramente svilente, anche se consola il fatto che in effetti essa rappresenta un benchmark irraggiungibile non solo per noi italiani; un’eccezione anche nel panorama europeo. La Spagna è uno dei pochi stati che si sta muovendo decisamente in questa direzione, comprendo nello scorso anno l’11% del proprio fabbisogno nazionale grazie solamente a questa fonte di energia rinnovabile.

In Italia, dove i 3.640 aerogeneratori installati hanno prodotto un mesto 2% del consumo elettrico nazionale, non ci resta che consolarci con le cifre sui trend. Nel 2008 infatti, il numero di kilowattora installati ha raggiunto un insperato aumento del 37% rispetto all’anno precedente.

Valentina

Più di mille megawatt aggiuntivi, pari a una crescita record del 37%. Nel corso del 2008, i 3.640 aerogeneratori installati nel nostro Paese, hanno prodotto oltre 6 miliardi di kilowattora, cioè il 2% dei consumi elettrici, e alimentato i bisogni di 6,5 milioni di italian



Ambiente fa rima con Economia

30 12 2008

Perché sostenere un tipo di produzione eco-sostenibile? Climatologi, scienziati e ambientalisti hanno cominciato da tempo ad esporre le loro ragioni, evocando la necessità di un cambiamento nei modi di vita e nei sistemi produttivi per evitare conseguenze climatiche catastrofiche. Queste previsioni hanno lo stesso tono e gli stessi agghiaccianti pronostici da molto, molto tempo, ma sembrano riscuotere poco successo, sul piano concreto. Forse perché l’uomo non è programmato per vivere immaginando la catastrofe imminente, forse perché le leve dei cambiamenti hanno altri nomi, che, magari, fanno rima con Economia.
E infatti anche qualche economista si è posto la domanda del perché produrre eco-sostenibile. E le risposte sono molto interessanti, perché dimostrano che sviluppo economico e sviluppo sostenibile possono crescere contemporaneamente nella stessa direzione. Soprattutto per quanto riguarda i posti di lavoro e il rilancio di alcuni settori dell’economia che più stanno patendo le recenti vicissitudini economico-finanziarie.
Un recente studio condotto da un gruppo di ricerca della Duke University, per l’Environmental Defense Fund, l’Industrial Union Council e altri partner istituzionali di tutto rispetto, ha riportato come molti comparti manifatturieri americani potrebbero beneficiare grandemente da una produzione di tipo sostenibile. Utilizzando la metodologia delle Global Value Chain, i ricercatori hanno analizzato approfonditamente alcune tra le tecnologie che possono ridurre le emissioni aumentando considerevolmente i posti di lavoro, lo stesso obiettivo che si è posto Obama in campagna elettorale. I ricercatori di Duke si sono focalizzati su tecnologie come l’illuminazione a LED, la creazione di energia solare, tecnologie per il trattamento di rifiuti e finestre ad alto valore isolante.
Tutti i dati riguardanti questi settori sono più che incoraggianti. Prendiamo ad esempio l’azienda Cree, produttrice di tecnologie LED, che ha base in quella North Carolina specializzata in tessile e mobile che sta pagando la concorrenza cinese con un aumento della disoccupazione e la chiusura di molti stabilimenti specializzati in quei settori. In quella stessa zona, Cree ha cavalcato invece con successo l’onda verde, quadruplicando il numero di occupati dal 2002 e passando dai 228 milioni di dollari di fatturato del 2003 ai 493 del 2008, guadagnando una posizione di leadership a livello mondiale.
Ma i settori interessati da questa nuova filosofia del produrre e dai relativi vantaggi sono molto più numerosi. Basti pensare che in ognuna di queste speciali finestre ad alte performance ambientali, ad esempio, ci sono almeno 10 componenti, che provengono da fornitori che non possono che beneficiare della crescita di questo settore, che secondo il rapporto, rappresenta già il 60% del mercato totale americano.

Ma oltre ai ricercatori di Duke, molti altri studiosi e non solo si sono posti la stessa domanda, e trovando le stesse risposte, hanno cominciato ad investire in questa direzione. Come ad esempio è avvenuto in Gran Bretagna, dove nel piano governativo di rilancio economico è compreso un programma di miglioramento dell’efficienza energetica dell’edilizia pubblica e privata, settore da tempo in difficoltà, che porterebbe, oltre alla riduzione della bolletta energetica di migliaia di cittadini, anche alla creazione di oltre 10.000 nuovi posti di lavoro. O nella Germania di Audi e Bmw, dove ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto.

Insomma, produrre in modo ecologicamente sostenibile può significare anche produrre economicamente sostenibile.

Valentina



L’Italia della tecnologia verde: parliamo di cogenerazione

9 12 2008

In temi di tecnologie energetiche e del risparmio energetico uno dei settori più interessanti per il mercato italiano è quello della cogenerazione energetica, tecnologia che prevede la produzione combinata e simultanea, in un unico sistema integrato, di energia elettrica e termica in esercizio continuo, partendo da un’unica fonte (fossile o rinnovabile).
I vantaggi forniti da questo tipo di tecnologia sono molteplici, a partire dal significativo risparmio energetico (circa il 30%) rispetto alla produzione separata di energia elettrica e termica di sistemi centralizzati; dal ridotto inquinamento e dalla diminuzione delle  emissioni di CO²) nonché una riduzione degli sprechi delle risorse energetiche tradizionali attraverso un loro utilizzo più efficiente e un annullamento delle perdite di trasmissione lungo la rete di distribuzione.
Una visita presso l’azienda Spark Energy S.p.A. con sede a Possagno (TV), operante da vent’anni nel settore dell’energia e del risparmio energetico, ci ha permesso di approfondire ulteriormente le caratteristiche di questa tecnologia nonché lo stato del mercato italiano. La società è di piccole dimensioni –ha un organico di 23 persone- ma detiene una buona quota del mercato nazionale, quasi l’8%, che in un mercato altamente frammentato e artigianale come quello della cogenerazione è una cifra di tutto rispetto. L’azienda è sicuramente un’esempio di successo imprenditoriale, che ha avuto riscontro anche dal proprio mercato, se consideriamo che il fatturato dell’azienda nell’ultimo anno è più che triplicato, grazie soprattutto alla diffusione della cogenerazione energetica nel settore terziario. La società dal 2006 è parte del Gruppo Riello S.p.A. che ha deciso di entrare nel mercato dell’energia acquisendo Coge Engineering, l’area commerciale, R&D e industriale della cogenerazione e trigenerazione (tecnologia che prevede la produzione di elettricità, riscaldamento e condizionamento) di Spark Energy, istituendo così la Coge Engineering S.r.l., diventata nel 2008 RielloEway, centro di eccellenza di sistemi ad alta efficienza. L’appartenenza a questo grande gruppo industriale è stata sicuramente molto positiva per RielloEway, garantendo sinergie sia dal punto di vista della progettazione e del know how che dal punto di vista commerciale, grazie alla presenza capillare di installatori del gruppo nel territorio italiano. L’azienda è forte anche di know how e competenze tecniche ventennali che le hanno permesso di specializzarsi nella produzione di soluzioni tecnologiche personalizzate che, a differenza dei grandi concorrenti tedeschi e inglesi, permettono flessibilità e modularità degli impianti realizzati.
In Italia, paese ad elevato fabbisogno energetico e fortemente dipendente dall’importazione di energia, solo l’8% della produzione energetica è generato mediante cogenerazione, contro il 53% della Danimarca, il 38% dell’Olanda e il 35% della Finlandia, per citare solo alcuni tra i più virtuosi esempi europei. Naturalmente le lacune – non solo legislative- della politica energetica nazionale italiana, non aiutano di certo lo sviluppo e la diffusione di questa tecnologia nel nostro paese.
Ma il mercato potenziale di questo tipo di tecnologia è molto ampio, soprattutto in prospettiva delle nuove direttive europee in termini di risparmio energetico e riduzione delle emissioni. Infatti, a trarre vantaggio dall’applicazione della tecnologia cogenerativa possono essere attività appartenenti tanto al settore industriale (specialmente industrie alimentari, tessili, conciarie, farmaceutiche, della ceramica, della gomma e delle materie plastiche,…), quanto a quello terziario (ospedali, case di cura, strutture alberghiere e residenziali, uffici e centri sportivi, ecc). E’ proprio a questo secondo settore che RielloEway vuole maggiormente rivolgersi, per fare leva sul potenziale inespresso del mercato dei cogeneratori di più piccole dimensioni, a coprire le necessità di strutture residenziali e di servizi.

RielloEway è il classico esempio di azienda all’italiana, che ha maturato un esperienza ventennale nella realizzazione su commessa e si differenzia dai concorrenti, le grandi straniere Vaillant o Baxi, proprio per la sua capacità di customizzare il prodotto e realizzare impianti flessibili e modulari. Ma ha sviluppato queste caratteristiche tipiche del Made in Italy in un comparto a forte contenuto tecnologico e con un alto impatto a livello ambientale, a ricordarci che il nostro tessuto industriale può avere importanti carte da giocarsi anche in questi settori.

Scila