Il mercato non è sempre una strategia fallimentare quando si parla di ambiente: Europa insegna ad America 1 a 0

1 04 2010

è quello che ho imparato  alla conferenza a Duke University per la presentazione del nuovo libro di Ellerman (MIT), Convery (University College Dublin) e De Perthuis (University Paris-Dauphine) sul mercato delle emissioni in Europa.

Può sembrare strano aver fatto tanta strada per venire in America, per sentire parlare della situazione di casa. Ma il contributo più interessante del libro non è una mera analisi della funzionalità dello strumento messo a punto dalla comunità Europea per ridurre le emissioni e stimolare le produzioni più green, ma piuttosto l’averlo reso un mezzo di paragone per gli altri stati, USA in primis, che faticano a riconoscere i benefici di un’economia verde.

Il libro e la presentazione, partono giustamente da un’analisi storica, individuando tra le ceneri delle iniziative riguardanti la carbon tax o il raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto il punto di partenza di quello che diventerà il più efficiente sistema di riduzione delle emissioni al mondo. La maggiorata attenzione ai cambiamenti climatici, un clima favorevole a livello politico e di industria, forti pressioni da parte di NGO e associazioni di consumatori hanno sostenuto l’approvazione della direttiva che, a partire dal 2005, ha previsto limiti alle emissioni degli stabilimenti europei nei settori dell’energia, industria siderurgica, dei prodotti minerali, ceramica e della carta. Il meccanismo sottostante il sistema ibrida forme di regolazione pura -attraverso l’individuazione dei settori che per legge devono rispettare queste norme – con quelle di mercato – permettendo un mercato dei diritti di emissione con prezzi determinati dal libero mercato, in pieno stile Chicago School.

Gli autori del libro sottolineano l’efficacia del sistema: in 3 anni si è assistito ad una riduzione delle emissioni compresa tra il 2 e il 6% del totale. Cifra molto al di sotto degli obbiettivi del 20% fissati per il 2020, ma che rappresentano il miglior risultato di sempre in termini di politiche atte a ridurre le emissioni. Vantaggi interessanti sono stati rilevati anche dal lato economico, con lo sbocciare di nuovi intermediari e con il coinvolgimento di molti più siti di quelli strettamente previsti dalla legge. Il libro non prende in analisi gli impatti della crisi, ma gli autori sono convincenti nello spiegare che il mercato delle emissioni pur non essendone immune, resiste alla congiuntura negativa, soprattutto grazie alla presenza di reali vantaggi economici di cui hanno beneficiato molti soggetti avvallando le richieste di questo mercato “artificiale”.

Un sistema con difetti e risultati non sempre strabilianti, ma che, a detta degli autori, finora è il migliore esempio di accordo sovra-nazionale in termini di risultati ambientali e impatti a livello economico. Interessante notare il fervore con cui professori americani superavano il tradizionale orgoglio nazionale per documentare un successo d’oltreoceano. L’obbiettivo del libro, e della relativa conferenza, erano proprio quelli di capire per imparare e replicare. In un congresso che ha appena faticato ad approvare la riforma sanitaria non è pensare chiedere in tempi brevi di legiferare su un altrettanto discusso argomento. Tuttavia gli autori sono convinti che applicare in America o in altre zone del mondo un modello simile sia non solo auspicabile ma anche fattibile, seppure con grandi difficoltà. Un modello che come quello europeo possa funzionare nonostante l’eterogeneità degli stati membri e nonostante gli ineludibili svantaggi cui alcune aziende incorreranno nel breve-medio termine, grazie all’azione di un attore centrale che gestisca il sistema e che garantisca anche vantaggi “compensatori” agli stati partecipanti.



I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina



Il verde che c’è ma non si vede

24 11 2009

Qualche settimana fa abbiamo parlato del fatto che l’attenzione all’ambiente stia diventando un trend in alcuni settori tanto che tutte le aziende si stanno volgendo in un modo nell’altro in questa direzione. In particolare vi avevo raccontato delle testimonianze di professori, imprenditori, rappresentanti istituzionali che avevo ascoltato ad una convention sul futuro del settore legno arredo, concludendo che, almeno in quel settore, il raggiungimento di obbiettivi di riduzione degli impatti sull’ambiente sembrava ormai cosa fatta.

Da brava ricercatrice, non mi accontento però delle cose che mi vengono raccontate e mi piace andare a verificare l’arrosto dietro al fumo. La convention, FUTSU, era ospitata all’interno di SICAM, fiera internazionale di componenti, semilavorati e accessori per l’industria del legno-arredo. Quale miglior occasione per verificare se effettivamente portafogli prodotti e processi produttivi delle aziende siano stati modificati per considerare anche gli impatti ambientali?

Munita di taccuino e curiosità mi sono addentrata tra gli stand degli oltre 400 espositori, un viaggio tra i protagonisti del legno arredo italiano che merita raccontare. Oggetto della mia missione in codice era quello di verificare quanti espositori parlassero di sostenibilità ambientale nei loro stand o nelle loro brochure e, nel caso, di cosa effettivamente si trattasse.

Il mio primo avvistamento è un incontro del terzo tipo. Tra le righe della brochure di una piccola azienda di pannelli trovo la menzione “ecologico” tra le caratteristiche di prodotto. Mi avvicino con un gran sorriso al venditore che mi spiega che il loro prodotto è ecologico perchè usa legno e non plastica. Insomma, non è veramente ecologico, ma … cosa non si mette nelle brochure per fare una buona impressione! Comunque, aggiunge il venditore, forse leggendo il mio disappunto, per il futuro stanno cercando di sviluppare nuovi prodotti, questi sì ecologici, utilizzando pellami di riciclo.

Passata oltre, ho cominciato a segnare sul mio taccuino i nomi delle aziende nei cui stand vedevo apparire anche solo un apparenza di verde ed ecologico. Il resoconto è, a prima vista, avvilente. Dei 400 espositori la mia lista non contiene più di dieci aziende. Come interpretare questo dato?

Una prima ipotesi è che quanto ho ascoltato alla convention fosse solo fumo e non ci sia nessun arrosto serio sotto. Che quella della sostenibilità ambientale insomma, sia solo una trovata d’immagine, che tutti dicono di prendere in considerazione se specificatamente interpellati, ma che non gioca poi nessun ruolo concreto nelle scelte di sviluppo di nuovi prodotti o come fattore importante d’acquisto. Ma troppe fonti, dal mercato alla politica alla ricerca indicano nella direzione opposta per poter credere appieno a questa tesi.

La vera chiave interpretativa per capire questa differenza sta secondo me invece nella poca capacità delle nostre PMI di settori tradizionali di comunicare il loro approccio ambientale. Poche delle aziende che hanno intrapreso un percorso di sostenibilità lo comunicano ai propri clienti e consumatori. Se in generale le aziende italiane hanno ancora poche competenze nella comunicazione, questo problema è ancora più sentito quando si tratta di far leva sulle caratteristiche green dei propri prodotti. Alcune aziende usano le certificazioni (come la ISO14001 o l’Ecolabel) come segnale del proprio atteggiamento sostenibile, ma per poter usufruire appieno delle potenzialità di mercato legate alla sostenibilità ambientale un logo stampato sul prodotto non sembra sufficiente e una comunicazione più mirata è sicuramente indispensabile. Come ha fatto la friulana Copat, che da quando ha deciso di controllare la propria impronta sull’ambiente ha deciso di fare di questi aspetti parte integrante del proprio sforzo comunicativo.

Insomma, per poter parlare di strategia vincente, che coniughi ambiente ed economia, non serve parlare solo di azioni di sostenibilità, ma anche di come queste vengano poi comunicate ai propri consumatori in modo che le aziende possano trarne il relativo premium price o comunque ritorno d’immagine.

Valentina



A New York sfila la moda sostenibile

26 10 2009

Dal 10 al 19 settembre si è tenuta a New York la consueta settimana della moda. In quanto appassionata ed impiegata del settore cerco sempre di tenermi aggiornata sulle novità ed i cambiamenti in atto nel sistema ed è così che sono venuta a conoscenza di alcuni eventi sulla moda sostenibile ospitati proprio in occasione della kermesse.  Ho fatto ciò che era nelle mie possibilità per potervi partecipare, ed ora sono qui a trasmettervi le sensazioni che ne ho ricavato.

Attraverso Twitter sono venuta in contatto con il progetto di Tara St. James, una giovane newyorkese che attualmente dirige Study NY, un’agenzia che si occupa di supportare e lanciare stilisti emergenti nel campo della moda sostenibile. Il suo progetto consisteva nel dar vita ad una piccola collezione di capi versatili e modellati a partire dalla forma più semplice di tutte: il quadrato. Pezze di stoffa quadrate cucite, drappeggiate, riprese e attorcigliate, ma mai tagliate. Questo per dimostrare come si possano creare abiti splendidi senza sprecare tessuto in ritagli. Tessuto, peraltro, non convenzionale: cotoni organici, tinti senza utilizzare sostanze inquinanti, e materiali di recupero, a creare splendide gonne e stole intrecciate a mano. La determinazione e la simpatia di Tara hanno fatto sì che lei riuscisse a raccogliere su Internet tramite donazioni spontanee quasi 7.000 dollari, che le hanno permesso di mettere in piedi una piccola sfilata durante la settimana della moda, proprio a New York, dimostrando quanto sia efficace e vincente il connubio eco-chic.

Sono stata, poi, ad una preview di moda etica: uno spazio espositivo, una sorta di fiera in cui numerosi stilisti ed artisti presentano ai visitatori le loro creazioni ad impatto zero: freschi ed eleganti abiti in tessuti naturali (Emesha); gioielli in oro, argento ed acciaio di recupero e pietre dure di scarto o estratte nel rispetto dell’ambiente e della salute dei lavoratori (Moonlight Jewelry by Alluryn, ma anche Castaway Design by Nick Vaverco, Alberto Parada ed Ana Gutierrez); deliziose clutch ricavate da gomma di pneumatici usurati (Passchal) o eleganti borse in pelle rivitalizzata e trattata (Redhanded Bags); caldi pullover ottenuti dalla filatura di …Bottiglie di plastica colorata . Opere d’arte di una moda che è consapevole del suo costo per il pianeta e che, proprio per questo, dall’alto delle passerelle abbassa lo sguardo sulla Terra e si serve di quello che è già stato prodotto, piuttosto che produrre dell’altro costoso Nuovo.

Negli States fioriscono sempre più spesso organizzazioni come quella di Tara St. James: non posso dimenticare di citare Bel Esprit (Debora Pokallus ne è la brillante presidentessa) che insieme a Nolcha ha organizzato gli eventi sulla moda sostenibile e che funge da vera e propria incubatrice per stilisti che vogliano intraprendere una carriera in questo ambito.

La moda che ho visto a New York mi è sembrata divertente, fresca. Sa di nuovo, di adesso, dei problemi dell’oggi e del domani. Soddisfa la necessità di reinvenzione originale propria di questi artisti contemporanei, che dispongono di materiali non convenzionali e di un nuovo stimolo a creare: la sfida dell’era moderna, salvare il pianeta dal riscaldamento globale. Il mercato della moda sostenibile è in costante crescita (stando ad un rilevamento di ICEA, Istituto di Certificazione Etica e Ambientale, esso attualmente genera un fatturato complessivo di 370 milioni di euro) e si auspica che possa prendere  sempre più piede, soprattutto tra le giovani generazioni. Non viene chiesto, tuttavia, a questa moda, di ridurre drasticamente l’impatto ecologico dell’uomo sulla Terra, né di risolvere in toto il problema dei rifiuti o di avere un ruolo chiave nella riduzione delle emissioni inquinanti. Certo, anche il settore tessile fa la sua parte nel quadro generale, ma la moda è moda, fa quello che sa fare: è un veicolo di espressione, di informazione e di cambiamento. Ecco, ci aspettiamo questo, che cambi i comportamenti e introduca una nuova sensibilità. Uno nuovo stile di vita ecocompatibile… Che vada di moda.

Silvia



Sostenibilità: un trend nel settore del legno-arredo

19 10 2009

Venerdì sono stata a FUTSU, convention dedicata agli ultimi aggiornamenti sull’industria del legno-arredo. L’evento, organizzato dal Consorzio Universitario di Pordenone, è stato strategicamente realizzato in concomitanza con il salone internazionale dei componenti e accessori per il mobile, il SICAM, a Pordenone.

Molti i diversi relatori che si sono susseguiti sul palco, provenienti sia dal mondo aziendale che della ricerca o dell’università. L’intenso e pretenzioso programma era stato suddiviso in quattro macro sezioni (ambiente, IT, nuovi materiali, trend globali) che declinassero in modo diverso ma complementare quali siano le nuove sfide e prospettive per gli attori del comparto.

aziendale con il tema del rispetto dell’ambiente.Una rassegna nel nome della sostenibilità ambientale, come è stato chiaro già dalla scelta dello speaker che ha introdotto FUTSU, Gabriele Centazzo, l’imprenditore di Valcucine noto per aver legato il suo successo. Nonostante fosse teoricamente l’argomento solo della prima sessione, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono stati in qualche modo il lait motiv dell’intera giornata. Non solo discutendo di strategie di comunicazione e innovazione (con le testimonianze di COPAT e IKEA e i rapporti di Federlegno Arredo) ma anche affrontando i temi dei nuovi materiali, vuoi perchè realizzati a partire da materiali riciclati, vuoi perchè realizzati riducendo l’impiego di energia e materie prime fossili, vuoi perchè implichino processi di produzione meno impattanti sull’ambiente.

La ricorrenza delle tematiche della sostenibilità sembra essere un indice del fatto che essa rappresenta uno dei trend principali che sta motivando l’innovazione nel settore. Un elemento che è emerso da quasi tutte le relazioni che hanno toccato questi temi è che essenziale per lo sviluppo e il successo di innovazioni sostenibili è in primo luogo la conoscenza e poi la consapevolezza, sia da parte dei consumatori che delle aziende stesse. In questo senso le certificazioni ambientali si sono dimostrate un utile strumento, nelle parole delle aziende e dei rappresentanti del distretto o delle associazioni industriali, per monitorare le proprie performance ambientali e per comunicarle ai consumatori. Conoscenza, indispensabile per realizzare le innovazioni sostenibili, che spesso viene costruita insieme a soggetti esterni all’impresa: fornitori o KIBS, come il CATAS, centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove specializzato nel settore legno-arredo.

Altro aspetto importante e complementare sottolineato da molti speakers è quello dell’importanza del considerare tutti gli attori della catena del valore per poter realizzare innovazioni che riducano concretamente l’impatto sull’ambiente, rispettando la legislazione e facendo leva su queste tematiche sul mercato finale. Mi ha stupito molto che soggetti diversi si siano indirizzate nel sottolineare l’importanza del Life Cycle Thinking: per essere sostenibili è importante selezionare, gestire e controllare anche le fasi a monte e a valle del proprio processo produttivo. Indispensabile in questo senso è la funzione del design, che ad esempio può concepire una cucina in cui tutti i componenti siano facilmente separati gli uni dagli altri, per favorire il riciclo alla fine del ciclo di vita, come l’ultima cucine Valcucine.

Anche il ruolo dei nuovi materiali sembra essere una frontiera promettente per l’innovazione sostenibile nel settore del mobile. I bio-polimeri sembrano essere una tecnologia già in grado di sostituire gli equivalenti a base fossile, senza troppi investimenti nei processi produttivi esistenti, per realizzare prodotti quali le schiume o le vernici.

Insomma, non è sempre vero che le tecnologie alternative non sono già disponibili. Piuttosto forse, esiste un problema di comunicazione e di mancanza di informazioni. Quello che è sicuro, invece, è che in un settore importante per l’economia italiana come quello del legno-arredo innovazione fa sempre più spesso rima con sostenibilità ambientale.

Valentina



Attenti al lupo

23 09 2009

Al summit delle nazioni unite a New York sul clima vanno di scena le sorprese.

Ad apertura di lavori, il presidente dell’Onu Ban Ki Moon ha attirato l’attenzione sull’importanza del raggiungimento di un nuovo accordo globale sui livelli di emissioni da raggiungere: dopo il mezzo fallimento del trattato di Kyoto, si vuole evitare che il summit di Dicembre a Copenhagen si traduca in grandi slogan ma con un nulla di fatto; “un falllimento sarebbe moralmente senza scuse, economicamente miope e politicamente folle”. Non usa mezzi termini Ban Ki Moon: il rischio del fallimento del summit è molto molto vicino e, dati alla mano, potrebbe causare una catastrofe ambientale non reversibile.

Come reagiscono le nazioni a questo appello? Al vertice, non mancano le sorprese. Le nazioni infatti che più si sono esposte in questo summit sono proprio gli Stati Uniti e la Cina, che come si ricorderà sono state finora le più restie ad impegnarsi su questi fronti, non aderendo al trattato di Kyoto e continuando a favorire politiche energetiche basate sui carburanti fossili. Rappresentando quindi a tutt’oggi due tra le nazioni più inquinanti in assoluto, il 24% del totale mondiale (del 2007) di emissioni di CO2 la Cina, il 21% l’America. Obama ha parlato di una svolta rispetto all’amministrazione Bush, sottolineando la gravità della situazione e prospettano un ruolo per l’America da paese leader nella green economy. Hu Jintao non è stato da meno, annunciando “tagli notevoli” alle emissioni entro il 2020. Posizioni impensabili anche solo due anni fa, con l’amministrazione Bush che negava l’evidenza dell’incombenza del disastro e la Cina che si nascondeva alle sue responsabilità di inquinatore dietro alla motivazione di essere un’ economia emergente.

Ma che fatti aspettarsi dietro a questi slogan altisonanti? A livello concreto sembra che le buone volontà dei due leader si trasformino in pochi progetti concreti e si scontrino con una effettiva resistenza nei loro paesi. A Washington le lobby del petrolio sono riuscite a fare arenare una legge sul risparmio energetico e anche nella Cina della crescita miracolosa molte aziende sono contrarie alla regolamentazione delle emissioni produttive, a favore di un liberismo selvaggio in materia di metodi di produzione e livelli di inquinamento permessi. Ma paradossalmente, queste problematiche sono le stesse che caratterizzano i cosiddetti “paesi virtuosi” in cui teoricamente dovrebbe rientrare anche l’Italia come parte dell’Unione Europea, first mover e aspirante leader nell’impegno di ridurre le emissioni e riconvertire l’apparato produttivo verso la green economy delle rinnovabili e dei prodotti e ridotto impatto ambientale. Nonostante i proclami e gli impegni fissati, sembra che non tutti gli stati europei saranno in grado di raggiungere gli obbiettivi fissati per il 2020. (Ogni riferimento all’Italia è, ovviamente, puramente casuale). Alle difficoltà effettive di riconvertire un apparato produttivo ancorato da decenni all’utilizzo di energie fossili e allo sfruttamento incontrollato delle risorse si aggiunge il problema dell’importanza di un cambiamento sinergico, in cui siano coinvolte tutte le nazioni. Che senso ha che noi investiamo tanto nella purificazione dei nostri impianti se poi in Cina, India e Russia vengono usati ancora impianti a carbone, utilizzati materiali tossici e sfruttate completamente le risorse naturali?

Il problema è che se uno stato inquina anche gli altri ne patiranno le conseguenze, e se non tutti partecipano alla lotta alla riduzione del buco sull’ozono e al fermare l’innalzamento della temperatura terrestre, i risultati saranno dimezzati: gli economisti parlerebbero di esternalità negative e di conseguenti comportamenti da free rider. Con le nazioni “virtuose” che si nascondono dietro i ritardi delle ultime della classe, e quest’ultimo dietro lo status di paesi emergenti.

Come uscire da quest’empasse? Affinchè tutti gli stati facciano la loro parte, è indispensabile il ruolo degli accordi internazionali. Grandi attese dunque, per il summit di Dicembre a Copenhagen. Soprattutto è necessario che quanto viene deciso sia poi effettivamente rispettato da tutti. Senza aspettative di condoni.

Valentina



Rinverdire le catene del valore globali

15 07 2009

Sono appena tornata da un intensa settimana in America dove ho partecipato ad un’intenso workshop in cui si è discusso di upgrading e catene del valore globali. A parte i chili di troppo, imprescindibili dopo una settimana negli States, mi sono portata a casa un bel po’ di interessanti riflessioni che voglio condividere su questo spazio.

Nel contesto di una crescente frammentazione dei processi produttivi su scala globale, gli occhiali adatti per interpretare la nuova divisione del lavoro sembrano non poter prescindere dall’analisi dell’intera catena del valore in cui le aziende sono coinvolte. Nel workshop si è cercato di comprendere le possibilità di upgrading, miglioramento, innovazione, delle aziende che partecipano a queste catene del valore, non più solo a livello economico ma anche sociale e ambientale. La letteratura finora si era concentrata solo sul primo, individuando nella tipologia di governance della catena e nelle capacità delle singole aziende i fattori fondamentali che determinano le possibilità di upgrading.

Una prima interessante novità ufficializzata nel workshop è stato proprio lo spostamento dell’attenzione verso un altro tipo di upgrading, sociale e, soprattutto, ambientale insieme a quello economico, comunque imprescindibile. Il che, inserito in un contesto centerario in cui le aziende sono state considerate come meri attori economici atti a massimizzare il profitto non è cosa da poco. Il workshop ha segnato l’inizio di una nuova agenda per gli studi sulle global value chain, in un crescente interesse per le dinamiche ambientali su cui sembra si vorrà scommettere per molti anni a venire.

Interessante in questa prospettiva è stato il riconoscere come l’innovazione ambientale possa comportare la riconfigurazione delle catene del valore. Da un lato, per poter creare nuovi prodotti sostenibili è necessario cambiare il proprio sistema di relazioni, come per quanto si è visto per il settore dell’auto in cui nuovi soggetti si stanno sostituendo e quelli tradizionali. Per creare l’auto elettrica infatti non bastano più fornitori specializzati nella creazione di ingranaggi ma entrano in scena tutta una nuova serie di attori come i fornitori di batterie elettriche. Dall’altro lato, si dimostra necessario anche una trasformazione del rapporto tra gli attori coinvolti. Le marche di caffè che vogliano vendere un prodotto ecologico devono instaurare un rapporto di partnership con i propri fornitori in Africa per poter garantire il rispetto di determinati standard sui processi produttivi.

Altro interessante aspetto, chiaro nella mente del practitioners ma finora meno in quella degli scholars, è che queste varie tipologie di upgrading non hanno sempre una convivenza facile, essendo caratterizzate da un trade-off. Trade-off tra upgrading economico e sociale, ma anche tra upgrading ambientale oggi rispetto a domani, tra upgrading economico qui e downgrading in qualunque altro punto della catena. Insomma, un po’ di buon realismo nella letteratura che finora si era concentrata ottimisticamente solo sullo studio delle possibilità di miglioramento, ignorando la rilevanza empirica e la potenza esplicativa dei casi di downgrading. E l’attuale periodo di crisi rende questa prospettiva ancora più rilevante.

Il dibattito, quindi, si fa più complesso di quello che aveva caratterizzato questa letteratura finora. Come tenere insieme tutti questi nuovi pezzi, dando senso alle dinamiche di riconfigurazione delle catena del valore a livello globale? La risposta, secondo me, sta nel ruolo di singole aziende leader; aziende che siano in grado di interpretare il cambiameto dei tempi implementando contemporaneamente un upgrading ambientale (e sociale) ed economico grazie alla creazione di un sistema di valori che possa essere riconosciuto dal consumatore finale. L’Italia ha sicuramente qualche carta da giocare in questo senso: vedremo se le aziende raccoglieranno questa sfida.

Valentina



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



che fare?

23 04 2009

Questa settimana sono stata ad un interessante convegno sui cambiamenti climatici e il loro effetto sulle strategie aziendali. Qui a Copenhagen queste cose le prendono davvero sul serio, anche grazie all’imminente COP15 , il meeting annuale tra i rappresentanti delle nazioni che hanno ratificato l’UN climate convention, che la città ospiterà a fine anno.

Lo scopo del meeting era molto ambizioso: preparare le basi per lanciare un programma in cui Copenhagen Business School, l’università che ha organizzato e ospitato l’evento, si pone in prima linea nella ricerca in tema di sfide ambientali per il mondo aziendale. Progetto ambizioso, ma molto promettente, soprattutto grazie alle collaborazioni importanti su cui può contare. Come ad esempio Dong energy, azienda leader nello stato per la gestione integrata dell’energia, che si occupa dell’intera catena del valore energetico, se così la possiamo chiamare, dalla produzione di energia fino alla distribuzione e al servizio al cliente. Anche se al momento l’azienda è legata principalmente alla produzione da fonti fossili, i progetti sono ambiziosi: creare un sistema integrato che utilizzi principalmente energia da fonti rinnovabili, mantenendo comunue costante l’affidabilità nella distribuzione energetica.

Altro partner interessante dell’iniziativa, che ha avuto modo di presentare la sua via per una produzione sostenibile è novozymes, leader mondiale in quella che loro definiscono bio-innovazione. Per dirla spiccia, l’azienda è specializzata nella creazione per i loro clienti, dei più svariati settori, di soluzioni innovative a base di enzimi, che migliorino le performance dei prodotti o processi dei clienti riducendo l’impiego di energia e di materie prime. Consiglio un passaggio nella parte del sito in cui pubblicizzano le soluzioni che hanno già creato: dal dentifrico non inquinante anti-batteri al cibo processato di migliorata qualità.

Dopo una breve presentazione delle esperienze di queste ad altre aziende in termini di sostenibilità ambientale, la discussione si è spostata ad un livello più intimo, in cui imprenditori, professori e ricercatori hanno discusso vis a vis di quelli che sono sentiti come i maggiori ostacoli o le migliori possibilità per stimolare il passaggio a una produzione più sostenibile, con lo scopo di identificare e definire quali siano le priorità per il mondo della ricerca.

Nessuna decisione è stata presa, nessuna tonnellata di Co2 è stata ridotta come immediata conseguenza del meeting. Ma sicuramente sono state poste delle buone basi per lo sviluppo di azioni congiunte tra il mondo della ricerca e quello aziendale, per illuminare la strada che porti in quella direzione.

Valentina



Scenari energetici in Italia al 2020

2 12 2008

Qualche giorno fa a Padova si è svolto un convegno sugli scenari energetici al 2020 con uno sguardo particolare alla situazione italiana e al suo possibile ruolo all’interno dello ambito europeo. Il convegno, che ha visto una numerosa partecipazione oltre che di studiosi e accademici da tutto il Nord Italia anche di esponenti del mondo aziendale, ha indirizzato il delicato tema degli scenari energetici che si aprono per l’Italia all’indomani del molto discusso pacchetto 20-20-20 proposto dall’Unione Europea. Il convegno si poneva l’ambizioso obbiettivo di delineare una possibile proposta per una strategia nazionale per il raggiungimento degli obbiettivi – di riduzione delle emissioni, dell’incremento di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica- assegnati dall’UE all’Italia, che al momento non esiste ancora.

Il tema è decisamente scottante tanto che i moderatori a tratti hanno dovuto calmare le acque come Floris in un dibattito tra Di Pietro e Castelli. Il motivo di tanto contendere sono stati soprattutto i numeri, relativi sia ai costi dell’effettuazione del pacchetto, che per molti degli studiosi presenti viaggiano decisamente al di sotto delle cifre su cui si basa l’attuale posizione del governo italiano sia ai benefici che deriverebbero da tali provvedimenti. Al di là della battaglia sulle cifre, il messaggio forte che ho colto dal vivissimo dibattito è stato un altro. E cioè che l’oggetto del contendere non è solo il combattere il global warming ma si sta discutendo della competitività del sistema economico italiano (ed europeo) nel prossimo futuro. È vero che la riduzione di Co2 a fronte dei provvedimenti obbiettivo sarebbe relativamente piccola – un taglio alle emissioni del 0,0015% secondo Confindustria. Ma quello di cui si discute in sede europea va oltre questo obbiettivo, prospettando un ambizioso piano strategico sulle tecnologie, tecnologie per una transizione ad un economia che segua un modello di sviluppo compatibile con l’ambiente. L’Europa non è certo l’unica che ha fiutato questa opportunità: anche la Cina, che non è nota basare i suoi piani industriali su scrupoli moralistici e ambientalisti, si è posta l’obbiettivo 19% di energia da rinnovabili al 2020. Energia prodotta, presumibilmente, da pannelli solari o pale eoliche made in China con un relativo indotto economico, che già si sta sviluppando, non indifferente. Se la Cina si è già mossa in questa direzione, anche l’America di Obama non tarderà a muoversi in questa direzione (forte dei 150 miliardi di dollari che il neo eletto ha promesso investirà nei prossimi 10 anni) e anche l’India si sta guadagnando un posto di tutto rispetto nel panorama mondiale per la produzione di pale eoliche. Insomma, non c’è tempo da perdere per non restare fuori dal mercato delle green technologies. Attualmente, nella Germania di Audi e Bmw ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto. Solo un indicatore tra i tanti che dimostra come l’obbiettivo della riduzione di emissioni e aumento dell’efficienza energetica sottende anche un mercato che potrà avere importanti riflessi non solo sull’ambiente ma anche sull’economia, in termini di occupazione che di fatturato sia in high tech – come quello per la produzione di tecnologie per le rinnovabili – che low tech -dai mobili alle ceramiche.

Alle prese con una delle peggiori tempeste per l’economia di sempre, investire in questa scommessa di economia sostenibile può rappresentare per l’economia italiana una delle poche scialuppe di salvataggio disponibili.

Valentina