Dalla sostenibilità nelle catene del valore secondo Kraft.

1 05 2010

Da dove partire per ridurre gli impatti ambientali sul pianeta delle attività industriali?

Per anni il mondo ha guardato ai politicanti per trovare una soluzione al problema dell’uso spropositato di risorse non rinnovabili e dell’inquinamento di aria, terra, acqua generate dalla produzione e dal consumo di prodotti e servizi, ma i risultati non si sono dimostrati esaltati. Si sta invece facendo invece sempre più strada l’idea di un approccio bottom up, guardando alla spinta innovativa di imprese che possano canalizzare le proprie entrate verso prodotti a basso impatto ambientale. Un ruolo rilevante in questo senso possono giocare le grandi imprese, che forti di grandi volumi di acquisto e di vendita e di potere di mercato, possono generare maggiori impatti, evitando lentezze e compromessi che sono inevitabili componenti dell’attività politica. Ma come possono le aziende diventare “green”?

Qualche risposta da un intervento alla Nicholas School of the Environment a Duke University del vice responsabile della sostenibilità di Kraft Food, multinazionale seconda solo a Nestlè come produttore di prodotti alimentari&C.

Profitable green. La sostenibilità ambientale è una lente attraverso cui leggere l’attività innovativa ma che non può prescindere da obbiettivi di ritorno sugli investimenti e profittabilità. Prodotto per prodotto, problema ambientale per problema ambientale quindi, l’azienda sceglie di investire in progetti che permettono una contemporanea riduzione dei costi produttivi (magari utilizzando propri scarti produttivi) o la realizzazione di maggiori volumi (grazie all’azione congiunta del marketing che valorizza le caratteristiche di sostenibilità del prodotto agli occhi del consumatore).

Be creative: I problemi ambientali non sono semplici nè hanno soluzioni univoche. Piuttosto, implicano spesso dei trade-off, vista anche la mancanza di tecnologie alternative a quelle impattanti che permettano simili costi. è questo quindi il dominio ideale dell’attività innovativa dell’impresa. Qualche esempio per quanto riguarda il packaging. Molti dei materiali utilizzati per confezionare prodotti alimentari non sono riciclabili e non vi sono al momento alternative a minor impatto ambientale che permettano gli stessi bassi costi. Cambiare il materiale impiegato è però solo una delle possibili soluzioni. Per il brand di caffè inglese Kenko, l’azienda ha agito sulle diverse modalità d’uso del prodotto, riducendo del 97% il packaging vendendo, invece che il solito barattolone usa e getta, pacchi di caffè refill, da svuotare a casa in un barattolone multiuso. Un altro approccio utilizzato per evitare il collo di bottiglia tecnologico, è quello dell’ “up-cycling”: insieme all’azienda TerraCycle, Kraft ha realizzato un sistema che incoraggia i consumatori a riciclare le confezioni dei propri prodotti, che saranno poi trasformati da TerraCycle in borsette o giochi per bambini.

Ridurre gli impatti oltre le proprie attività produttive. Il luogo da cui le aziende partono per ridurre il proprio impatto ambientale sono le attività produttive che hanno luogo all’interno delle proprie mura. Riduzione del fabbisogno energetico, dell’inquinamento atmosferico, degli sprechi produttivi, energie rinnovabili sui tetti. Se è vero che questo approccio è più semplice, permettendo un controllo diretto, non permette tuttavia di ridurre i maggiori impatti ambientali, che spesso sono generati dalle attività di fornitori e altri attori a monte della catena del valore, esterni al controllo diretto dell’azienda. Come risolvere questo problema? Anche in questo caso, l’esempio di Kraft punta verso soluzioni case-to-case. Nel caso ci siano delle certificazioni ambientali valide e i prodotti in questione permettano maggiori ritorni, come nel caso del caffè Kenko, l’azienda sceglie di rifornirsi solo da fornitori certificati. In altri casi, invece, l’azienda sceglie di collaborare con i propri fornitori esistenti, esponendo i propri obbiettivi di sostenbilità e lavorando insieme sulle possibili soluzioni. In ogni caso, il modello “d’imposizione” non sembra funzionare: neanche multinazionali della stazza di Kraft riescono ad esercitare sufficiente potere su fornitori indipendenti. Inoltre il richiedere regole precise a volte diventa controproducente, non permettendo la flessibilità necessaria per affrontare al meglio i trade-off legati ai problemi di sostenibilità. L’esempio di Kraft racconta che incentivare l’attività del fornitore, piuttosto che pretendere, si dimostra la soluzione migliore per rendere verde la propria catena del valore.

Valentina



Electrolux e la sostenibilità attivata: atto primo

17 02 2010

Non servono molte introduzioni per presentare Electrolux. Il gruppo svedese si è guadagnato negli anni una posizione di leadership assoluta nella produzione di elettrodomestici da consumo e professionali, distribuendo ogni anno più di 40 mila aspirapolvere, asciugatrici e forni in più di 150 paesi.

Ma forse meno si sa sulla sua, recente ma non troppo, conversione verde. Conversione forse non è il termine adatto per descrivere un percorso la cui prima tappa risale al 1986, un era geologica fa in termini di consapevolezza del consumatore e di legislazione sul tema, e che si è sviluppato in modo incrementale. All’inizio, fu la normativa. Una serie di provvedimenti restrittivi in termini di materiali cui non era concesso l’utilizzo furono l’occasione per l’azienda per cogliere la necessità di capire il proprio impatto ambientale per prevenire i cambiamenti legislativi, piuttosto che subirli passivamente. Ma ben presto l’approccio ambientale del gruppo è entrato nel vivo della strategia di Electrolux, ben oltre le scrivanie degli uffici qualità o conformità , fino nel vivo dei tavoli decisionali. Si è partito dal rivedere i processi produttivi, in uno sforzo di riduzione degli sprechi di energie e materie prime che ha coniugato i principi dell’eco-efficienza con dei ritorni economici di breve.

Ma le innovazioni più interessanti sono quelle che hanno riguardato da un lato i prodotti. Ogni prodotto è progettato per minimizzare energia, acqua e detersivi impiegati per farlo funzionare, ma anche garantire lo smaltimento e il riciclo alla fine del ciclo di vita. I materiali impiegati sono i più ecologici possibile e non tossici, rispettando standard più rigidi di quelli imposti dalle normative vigenti. Anche il trasporto dei prodotti è stato rivisto secondo principi di sostenibilità: si è cercato di minimizzare l’utilizzo di trasporto su gomma, a favore di rotaia o dell’intermodalità, o almeno di limitarlo ai soli camion a basse emissioni.

Ma quello che è più interessante è che l’azienda ha rivolto i propri sforzi non solo a ridurre gli impatti nel proprio processo produttivo, ma ha coinvolto altri attori, all’esterno dei cancelli aziendali.

I primi sono i consumatori: le più importanti riduzioni degli impatti avvengono infatti in fase di consumo del prodotto, che è progettato perchè il consumatore, nell’uso dello stesso, possa minimizzare i consumi. Il consumatore è quindi coinvolto attivamente:,non è solo soggetto passivo di un comunicazione sulle buone pratiche ambientali del produttore. L’elettrodomestico acquistato lo abilita nel realizzare comportamenti virtuosi ma allo stesso tempo gli dà dei ritorni immediati, non solo in termini etico-valoriali ma soprattutto in termini economici, permettendo risparmi che, specialmente in periodi di crisi, sembrano un argomento più convincente nella scelta d’acquisto del solo contributo alla salvaguardia dell’ambiente.

Gli altri soggetti attivati dall’azienda grazie alla propria politica di sostenibilità sono i fornitori. Il gruppo, infatti, non si è accontentato di garantire la sostenibilità dei processi produttivi che avvengono all’interno dei confini dell’impresa, ma fa un proprio punto di forza l’evidenziare il controllo delle performance ambientali dell’intera catena di produzione che porta alla realizzazione del suo prodotto . Il gruppo ha definito uno stringente codice di condotta, che detta standard in termini di rispetto dell’ambiente, caratteristiche dei prodotti ma anche di salubrità e sicurezza dell’ambiente di lavoro e condizioni salariali che fa rispettare non solo in ognuno dei 54 stabilimenti di proprietà, ma anche in ognuno dei propri fornitori. Come di consueto, enti verificatori terzi sono incaricati di certificare l’efficacia di questo sistema.

Una serie così consistente di innovazioni di prodotto, processo e organizzative, implica investimenti significativi, rivisitazioni del sistema organizzativo, uno sforzo consistente in ricerca e sviluppo. Come sono state realizzate queste innovazioni, e come questo percorso ambientale sia diventato la strategia vincente per Electrolux, tanto da ripagare e oltre gli investimenti realizzati, sarà il contenuto della prossima puntata.

Valentina



Il verde che c’è ma non si vede

24 11 2009

Qualche settimana fa abbiamo parlato del fatto che l’attenzione all’ambiente stia diventando un trend in alcuni settori tanto che tutte le aziende si stanno volgendo in un modo nell’altro in questa direzione. In particolare vi avevo raccontato delle testimonianze di professori, imprenditori, rappresentanti istituzionali che avevo ascoltato ad una convention sul futuro del settore legno arredo, concludendo che, almeno in quel settore, il raggiungimento di obbiettivi di riduzione degli impatti sull’ambiente sembrava ormai cosa fatta.

Da brava ricercatrice, non mi accontento però delle cose che mi vengono raccontate e mi piace andare a verificare l’arrosto dietro al fumo. La convention, FUTSU, era ospitata all’interno di SICAM, fiera internazionale di componenti, semilavorati e accessori per l’industria del legno-arredo. Quale miglior occasione per verificare se effettivamente portafogli prodotti e processi produttivi delle aziende siano stati modificati per considerare anche gli impatti ambientali?

Munita di taccuino e curiosità mi sono addentrata tra gli stand degli oltre 400 espositori, un viaggio tra i protagonisti del legno arredo italiano che merita raccontare. Oggetto della mia missione in codice era quello di verificare quanti espositori parlassero di sostenibilità ambientale nei loro stand o nelle loro brochure e, nel caso, di cosa effettivamente si trattasse.

Il mio primo avvistamento è un incontro del terzo tipo. Tra le righe della brochure di una piccola azienda di pannelli trovo la menzione “ecologico” tra le caratteristiche di prodotto. Mi avvicino con un gran sorriso al venditore che mi spiega che il loro prodotto è ecologico perchè usa legno e non plastica. Insomma, non è veramente ecologico, ma … cosa non si mette nelle brochure per fare una buona impressione! Comunque, aggiunge il venditore, forse leggendo il mio disappunto, per il futuro stanno cercando di sviluppare nuovi prodotti, questi sì ecologici, utilizzando pellami di riciclo.

Passata oltre, ho cominciato a segnare sul mio taccuino i nomi delle aziende nei cui stand vedevo apparire anche solo un apparenza di verde ed ecologico. Il resoconto è, a prima vista, avvilente. Dei 400 espositori la mia lista non contiene più di dieci aziende. Come interpretare questo dato?

Una prima ipotesi è che quanto ho ascoltato alla convention fosse solo fumo e non ci sia nessun arrosto serio sotto. Che quella della sostenibilità ambientale insomma, sia solo una trovata d’immagine, che tutti dicono di prendere in considerazione se specificatamente interpellati, ma che non gioca poi nessun ruolo concreto nelle scelte di sviluppo di nuovi prodotti o come fattore importante d’acquisto. Ma troppe fonti, dal mercato alla politica alla ricerca indicano nella direzione opposta per poter credere appieno a questa tesi.

La vera chiave interpretativa per capire questa differenza sta secondo me invece nella poca capacità delle nostre PMI di settori tradizionali di comunicare il loro approccio ambientale. Poche delle aziende che hanno intrapreso un percorso di sostenibilità lo comunicano ai propri clienti e consumatori. Se in generale le aziende italiane hanno ancora poche competenze nella comunicazione, questo problema è ancora più sentito quando si tratta di far leva sulle caratteristiche green dei propri prodotti. Alcune aziende usano le certificazioni (come la ISO14001 o l’Ecolabel) come segnale del proprio atteggiamento sostenibile, ma per poter usufruire appieno delle potenzialità di mercato legate alla sostenibilità ambientale un logo stampato sul prodotto non sembra sufficiente e una comunicazione più mirata è sicuramente indispensabile. Come ha fatto la friulana Copat, che da quando ha deciso di controllare la propria impronta sull’ambiente ha deciso di fare di questi aspetti parte integrante del proprio sforzo comunicativo.

Insomma, per poter parlare di strategia vincente, che coniughi ambiente ed economia, non serve parlare solo di azioni di sostenibilità, ma anche di come queste vengano poi comunicate ai propri consumatori in modo che le aziende possano trarne il relativo premium price o comunque ritorno d’immagine.

Valentina



Consumo biologico

18 09 2008

In tempi di crisi economico-finanziarie e rincari di benzina e beni alimentari c’è comunque un settore che non soffre e non perde quote di mercato: quello del biologico. Nome altisonante e un po’ fumoso che racchiude tutti quei coltivatori e produttori che rispettano un sistema di coltivazione che rispetta l’ambiente e gli animali, bandendo l’utilizzo di pesticidi e metodi di allevamento intensivi. Prodotti spesso certificati e controllati da vari enti di controllo, sempre di prezzo maggiore rispetto ai diretti concorrenti “non-bio”.

In Italia sembriamo essere particolarmente attenti e attivi in questo settore: secono dati IFOAM del 2005 le aziende biologiche italiane rappresentano il 37,7% sul totale europeo, mentre la superficie coltivata sul totale EU è del 27,7%. Non male se ci pensa alla differenza di dimensioni dell’Italia rispetto ad altri colossi dell’agricoltura in Europa quali Francia e Polonia. E i consumatori? Secondo dati elaborati dall’osservatorio su benesssere e salute che GPF conduce per Sana, tre italiani su cinque possono considerarsi consumatori sia pure occasionali di singoli prodotti biologici, mentre gli afecionados sono uno su sei. Non sorprenderà sapere che la maggiorparte dei prodotti biologici consumati sono frutta e verdura (61% e 64% sul totale) seguiti da altre commodity quali uova (34%), olio (27%) ma anche yoghurt, latte e miele. Più interessante può risultare invece scoprire il perchè un numero così elevato di consumatori sia disposto a sfidare la grande differenza di prezzo (contando anche la non sempre sicura provenienza e qualità del prodotto, secondo i detrattori) pur di acquistare un prodotto bio. Ebbene, sempre secondo la ricerca condotta dall’osservatorio di Giampaolo Fabris, la motivazione principale è la ricerca di una maggiore sicurezza o garanzia (79%) (alla faccia di mozzarelle alla diossina e passate di pomodoro avvelenate), seguita dalla ricerca di un prodotto più sano (per il 50% degli intervistati) e infine più buono (19%).

Visti i numeri, sembra che il fenomeno biologico non coinvolga più solo una piccola nicchia di mercato di ecologisti e vegani convinti, almeno per alcune classi di prodotto. Che le motivazioni non siano più solo o non più tanto ideologiche ma anche che l’Italia gioca un ruolo importante in questa partita, sia come paese produttore che come paese consumatore.

Valentina



Se i pannelli solari si comprano all’Ikea

2 09 2008

Uno degli ostacoli più grandi alla diffusione delle tecnologie per la produzione di energia alternative su base solare su larga scala sono gli alti costi delle stesse. Studiosi e policy maker, così come installatori e casalinghe concordano sul fatto che i prezzi di pannelli solari e fotovoltaici sono ancora troppo alti per raggiungere una diffusione capillare tale da garantire una minore dipendenza dalle fonti tradizionali. E i ritorni sugli investimenti non sono ancora così alti da giustificare per molte famiglie italiane l’alta spesa.

E allora? Una soluzione ci sarebbe: parola di Ikea. Il colosso svedese, che ha circa 270 negozi in 35 Paesi e serve mezzo miliardo di clienti l’anno, sta infatti per entrare nel mondo dell’eco-friendly. Ikea ha, infatti, annunciato che investirà 50 milioni di dollari in cleantech startups nei prossimi cinque anni, con il fine ultimo di vendere i pannelli solari e le altre tecnologie prodotte nei megastore Ikea o farli utilizzare dai propri fornitori. L’idea di Ikea è di investire in varie aree, dai pannelli solari alle fonti alla ricerca in materiali eco-sostenibili, dal risparmio energetico alla purificazione dell’acqua.
Il tutto in pieno stile Ikea. Il direttore della sezione Ikea dedicata a questo progetto, la Ikea GreenTech, spiega difatti che queste nuove tecnologie dovranno soddisfare il binomio Ikea prezzi bassi e buona qualità. Il sogno (o miraggio) di ogni consumatore insomma.

Ikea d’altronde è già da tempo impegnata sul versante sostenibilità ambientale. Al di là dell’attenzione ai materiali usati per produrre mobili e letti montabili, Ikea ha infatti lanciato anche, ma per il momento sono nel regno unito, delle case pre-fabbricate, progettate per essere eco-friendly, con l’uso di materiali rinnovabili e l’utilizzo di energia solare e geotermica per il riscaldamento. Queste nuove tecnologie solari low-cost potrebbero quindi trovare facile utilizzo anche in questo tipo di case.

Non ci resta quindi che aspettare i risultati delle start up supportate da Ikea GreenTech, fantasticando su come potrebbe essere il manuale d’istruzione per montarsi il proprio pannello solare in giardino.

Valentina



Aziende e ambiente secondo il rapporto ISTAT

13 06 2008

Per la prima volta nella storia del rapporto annuale ISTAT, il capitolo che analizza le imprese prende in considerazione alcuni aspetti ambientali delle attività produttive, dedicando un approfondimento focalizzato sull’evoluzione quantitativa e qualitativa della spesa delle imprese per i servizi ambientali. Il rapporto parte da una prima distinzione di base tra le aziende il cui business è proprio la produzione e la vendita di servizi ambientali e le aziende che, invece, auto-producono servizi ambientali nel senso che svolgono attività per ridurre emissioni e inquinamento generate dalle proprie attività produttive specifiche. Un punto di vista interessante che guarda sia allo sviluppo di un nuovo settore, che all’evoluzione verso atteggiamenti più sostenibili di aziende fino a qualche anno fa totalmente straniere a queste materie e che rappresentano il tessuto produttivo italiano, dal tipico Made in Italy a, e soprattutto, l’industria pesante.

Per quanto riguarda il primo gruppo, cresce soprattutto il comparto della gestione dei rifiuti (che rappresenta il 0,33% del PIL, con un aumento del 32,7% del valore aggiunto in termini di PIL dal 1997 al 2006). Ancora più interessante è notare come, a differenza di quanto accadeva 10 anni fa, più dell’80% di questi soggetti sono aziende private, non utilities legate alle pubbliche amministrazioni. Insomma, scommettere nell’ambientale paga, e sempre più aziende si stanno ricavando uno spazio in questo settore.

Ma non per tutti i servizi ambientali specializzati sono rose e fiori. Il comparto delle imprese fornitrici di servizi idrici ha subito, dal 1997, una flessione del 4,5% di valore aggiunto in termini di PIL. Perchè questa controtendenza?
Perchè sempre di più le aziende italiane, le concerie di Arzignano o i produttori di piastrelle di Sassuolo hanno cominciato ad internalizzare i servizi ambientali, spendendo sempre di più in attività per la protezione dell’aria e del clima.

Chi sono dunque le aziende che si occupano di eco-sostenibilità in Italia? Secondo il quadro che ci fornisce ISTAT, il panorama italiano è più variegato di quello che ci si potrebbe aspettare: i servizi per la protezione dell’ambiente non sono più puro appannaggio di specialisti, pubblici o privati. Sempre di più, chi investe nella tutela dell’ambiente sono le aziende che compongono il tessuto produttivo tipico italiano, che sviluppano competenze interne per ridurre l’impronta ecologica della loro produzione.



Carta d’identità delle aziende ecologiche, segni particolari

7 06 2008

La comunicazione è stata riconosciuta da Kotler in poi, come una delle principali leve del marketing a disposizione delle aziende. Che rilevanza assume nel comparto trasversale de prodotti ecologici?
Questo comparto è, infatti, relativamente nuovo (l’interesse verso queste tematiche è maggiorenne o poco più), e i principali attributi che lo caratterizzano riguardano tematiche e conoscenze spesso molto sofisticate. Molte delle migliorie che i prodotti eco-friendly apportano ai propri settori riguardano , difatti, componenti chimici dai nomi spesso impronunciabili oltre che difficilmente comprensibili e conseguenze che riguardano l’aspetto salutistico che spesso il consumatore medio non maneggia con facilità. In questo quadro, la comunicazione al consumatore diventa uno strumento chiave, per implementare con successo una strategia aziendale fondata sull’ecologico.
Come raggiungere il consumatore con queste informazioni? Secondo il sondaggio condotto da acquisti verdi.it, la maggior parte delle aziende utilizza il canale web, sia attraverso il proprio sito o siti generici, che attraverso portali specializzati, per promuovere i propri prodotti. Si sottolinea quindi una grande importanza del web: non solo è un’importante strumento di comunicazione ma anche, come si era visto nei precedenti post, un’importante canale di vendita dei prodotti ecologici.

Nella comunicazione, le aziende censite mettono in risalto il rispetto per l’ambiente (24%), seguito dalla qualità del prodotto (22%) mentre solo in terza posizione si trovano le certificazioni (11%). Nonostante questa bassa percentuale che punta sulla certificazione come mezzo di comunicazione, il 52% di esse ritiene che esse siano utili nell’orientare le scelte del consumatore. Interessante notare anche che solo un anno prima questa percentuale era molto più bassa, il 32%.
Un ulteriore 36% ritiene che questo strumento efficace, ma solo se il costo del prodotto certificato non è eccessivamente più alto del corrispettivo non certificato.
La fiducia nei confronti delle certificazioni è dunque alta e presenta un forte trend di crescita, riflettendo forse anche una crescente conoscenza del consumatore che comincia a riconoscere loghi e significati delle diverse certificazioni presenti sul mercato.

Ancora una volta emerge quindi l’importanza delle consapevolezza dei consumatori come traino del mercato ecologico. Una conferma viene dalle aziende stesse: il 51% ha dichiarato che il fattore più importante per lo sviluppo del prodotto ecologico è proprio l’aumento della sensibilizzazione dei consumatori, molto più che l’evoluzione della legislazione (24%) o la maggiore presenza nei circuiti della grande distribuzione (22%).

Valentina



Identikit del consumatore ecologico tipo

27 05 2008

Chi è il consumatore ecologico tipo? Se anche le aziende producono, lo Stato incoraggia e la tecnologia rende possibile, ma nessuno acquista i prodotti amici dell’ambiente, a poco valgono gli investimenti di quei soggetti per stimolare un mercato competitivo di questo genere di prodotti.

Secondo il sondaggio effettuato quest’anno dal portale acquistiverdi.it, di cui abbiamo già discusso nel precedente post, la maggior parte (il 67% per essere precisi) dei clienti di queste aziende risiede nel Nord Italia: maglia nera al Sud Italia (riferimenti all’attualità sono puramente causali….), con l’8% e all’estero (5%), dove i prodotti vengono venduti quasi esclusivamente presso paesi europei. Vuoi per una diversa disponibilità economica, vuoi per un diverso sviluppo industriale, i dati sembrano essere chiari e robusti ad ogni sospetto di errore di rilevazione: esiste una forte disparità nella penetrazione del prodotto eco-friendly sul territorio italiano.

Inoltre, la tipologia di distribuzione scelta dalle aziende sembra confermare il fatto che questi prodotti ricoprono ancora un ruolo di nicchia: la maggioranza vende infatti in negozi specializzati (17%), mentre meno importante è il ruolo ricoperto dalla grande distribuzione organizzata (9%). Interessante è il ruolo ricoperto da internet: sembra infatti che molte aziende di questi comparti scelgano l’e-commerce: il 15% vende direttamente dal sito dell’azienda e il 9% presso portali specializzati. Questa scelta ha due tipi di spiegazioni, non alternative: da un lato il cliente eco-sostenibile è probabilmente un consumatore attento e curioso, che utilizza spesso anche il world wide web per ricercare notizie e prodotti che esulino dal circuito mediatico e commerciale di massa; dall’altro che il prodotto eco è ancora una piccola nicchia, che stenta a trovare posto negli scaffali più frequentati (come confermano i dati sulla GDO) e ripiega quindi in altri canali.

L’identikit del consumatore tipo che emerge dall’analisi dei dati di questo sondaggio si arricchisce anche di un altra interessante caratteristica: il 41% è un’azienda e il 31% è un consumatore finale. Stupisce la bassa percentuale degli enti pubblici tra i clienti, solo il 18% del totale. Anche perché piani di azione ministeriali ed europei, avevano fissato per il 2006 obiettivi molto sfidanti: 30% dei beni delle pubblica amministrazione (dovrebbe) corrispondere a specifici requisiti ecologici e percentuali maggiori essere a ridotto consumo energetico. Il Green Public Procurement (GPP) potrebbe rappresentare proprio un importante traino per questo comparto, l’anello mancante per ricondurre le varie iniziative imprenditoriali su una strada di successo, garantendo una domanda di mercato e generando economie (di scala, di learning, di network) e favorendo una diffusione della coscienza ambientale nel consumatore.
Riusciranno i nostri eroi nell’ardua impresa?

2/3… to be continued…

Valentina



Carta d’identità delle aziende ecologiche

21 05 2008

Ai bambini si insegna che è meglio non parlare con gli sconosciuti. Aggiungo, meglio non parlare degli sconosciuti. Così, dopo qualche caso studio che ci ha permesso di sbirciare attraverso il buco della serratura del nuovo mercato dei prodotti eco-sostenibili, è giunta l’ora di guardare in modo più approfondito la carta d’identità delle aziende che hanno puntato in una produzione amica dell’ambiente. La nostra fonte è una ricerca condotta quest’anno presso le aziende iscritte al portale acquistiverdi.it. Per poter far parte di questo portale, che si presuppone l’obiettivo di costituire un punto di incontro tra domanda e offerta di prodotti eco-sostenibili, le aziende devono essere certificate da enti terzi (EMAS, fsc,..) oppure realizzare prodotti per la tutela dell’ambiente, come i pannelli fotovoltaici o prodotti per la raccolta differenziata.

La carta d’identità di queste aziende ci ritorna un’immagine di soggetti giovani ma vigorosi, in crescita rispetto agli anni precedenti soprattutto in termini di fatturato. Delle 63 aziende che hanno partecipato al sondaggio il 45% è stato fondato dopo il 2000, mentre solo il 30% prima degli anni 90.
Per quanto riguarda le dimensioni, le aziende eco-friendly rientrano pienamente nel modello imprenditoriale italiano: il 46% ha fino a 5 dipendenti, anche se, rispetto all’anno precedente (il 2006) è duplicato il numero di aziende con più di 50 dipendenti (raggiungendo una dignitosa soglia del 12%).
La crescita dimensionale si rispecchia anche nei dati sul fatturato: sono diminuite del 7% le aziende con meno di 500.000€ di fatturato annuo, che rappresentano comunque ancora una fetta numerosa (il 38%), ma più interessante è la crescita di aziende con un giro d’affari superiore ai 5 milioni di euro, passata dal 9% al 23% in un solo anno.

Nella maggior parte dei casi, il 63%, il prodotto ecologico è una relativa novità nel portafoglio prodotti dell’azienda, essendo stato inserito meno di 5 anni fa. Questi dati non si spiegano solo con la giovane età media dell’impresa ecologica, visto che il 70% delle aziende fondate prima dell’80 fa parte di questa categoria. Questi dati sembrano invece raccontare di un mercato giovane, per il quale la domanda e la sensibilità degli imprenditori si sono sviluppate in tempi recenti, con un rapporto di causalità tutto da scoprire.

Le aziende ecologiche, o almeno quelle intervistate, sembrano molto focalizzate in questo ambito: per il 55% i prodotti ecologici rappresentano più del 90% del fatturato complessivo dell’azienda. L’incidenza dei prodotti ambientalmente sostenibili sembra crescere di pari passo con il numero di anni dai quali i prodotti ecologici fanno parte del parco prodotti dell’azienda; per più del 90% delle aziende che li ha introdotti da più di 10 anni, rappresentano più della metà del fatturato complessivo.

Cosa inferire da questa carta d’identità? Come per tutti i sondaggi, questi dati vanno presi con le giuste pinze, sollevando domande sulla rappresentatività del campione e sulla sua composizione. Ma qualche risultato emerge già con chiarezza: i principali attori di questo nuovo comparto industriale non sono tanto aziende medio grandi, ma quell’insieme di micro aziende imprenditoriali e dinamiche che ha rappresentato da sempre l’humus adatto per il successo dello sviluppo economico all’italiana. Protagonisti dell’evoluzione di questo nuovo comparto, che raggruppa aziende trasversalmente a settori diversissimi sulla base dell’attributo sostenibilità, sono imprenditori che si sono focalizzati sulla produzione ecologica, decidendo di scommettere pesantemente sullo sviluppo di questo nuovo mercato.

…1/3: to be continued….

Valentina



E=soldi^2

13 05 2008

Il petrolio continua a crescere, le emissioni nocive in atmosfera pure, e la bolletta energetica del paese frena una produzione industriale che stenta a tenere i ritmi con la spietata concorrenza internazionale. Come risolvere il problema?
Scajola propone una ricetta energetica composta da un mix vecchio stile, con un ritorno al nucleare per fare in modo che compra fino al 50% dei fabbisogni energetici nazionali.
Altre voci autorevoli chiamano invece in campo le energie rinnovabili, che sfruttino la potenzialità geofisiche del Belpaese, riducendo le emissioni e cercando di avvicinarsi al traguardi fissati dal protocollo di Kyoto. Per ora, stando a fonti Istat, le rinnovabili coprono solo il 15% dei consumi di energia elettrica degli italiani, ponendo il nostro paese (anche in questo ambito!) sotto la media europea.
Come uscire da questa empasse? La costruzione di grandi impianti, sia nucleari che eolici o fotovoltaici, presuppone l’utilizzo di fondi pubblici, che (sempre che ce ne siano ancora…), al momento sembrano destinati ad altre priorità. Vero? Non del tutto.
Le novità più interessanti vengono infatti dal settore privato, non tanto o non solo da aziende specializzate nella produzione di energia, quanto da imprese che hanno fiutato l’affare, vedendo nella produzione di energia da fonti alternative un possibile business così come una riduzione considerevole dei costi.

Un caso interessante è quello della casa Olearia Italiana: nata come oleificio, dieci anni fa ha cominciato a sfruttare l’olio come combustibile per creare energia necessaria alla propria produzione, riducendo di moltissimo i costi. Poco a poco gli impianti (a biomasse solide e fotovoltaici e per la creazione di biodiesel) sono diventati un business separato per l’azienda che ora è gestito da due imprese fondate ad hoc, la Italbioil e la Italgreen, che rivendono il 97% dell’energia prodotta alla rete principale.

Un altro caso interessante di un’azienda che ha saputo modificare un problema (l’elevata bolletta energetica) in un’opportunità di risparmio e di business è Ciccolella, gruppo quotato a Milano, leader europeo nella produzione di rose e anthurium. Il sistema creato dall’azienda per ridurre costi ed emissioni è semplicemente geniale: è stato, infatti, costruito un impianto di cogenerazione che produce il calore necessario all’azienda sfruttando l’acqua calda proveniente dalla centrale elettrica del vicino stabilimento Fiat di Melfi. L’investimento non è stato da poco, chiosa l’imprenditore, ma i ritorni sono stati praticamente immediati, con un notevole vantaggio competitivo generato dalla riduzione del 30% sui costi di produzione.

Solo due esempi di una realtà in continuo aumento.
Buone notizie per l’Italia dunque. Se come investimenti pubblici nelle rinnovabili siamo ancora un fanalino di coda nell’economia europea, e superiamo del 19,5% i limiti di emissione di Kyoto, buone speranze risiedono nel settore privato. Il genio imprenditoriale italiano ha infatti tutti i numeri per presentarsi come risolutore dell’eterno trade-off ambiente-industria, dimostrando come sia possibile fare della sostenibilità ambientale un business.

Valentina