Non ci sono più le stagioni

30 04 2008

Almeno per quanto riguarda il cibo fresco.
Negli Stati Uniti, FreshDirect ha proclamato che la stagione dei kiwi si è estesa a tutto l’anno, grazie all’ingresso prepotente dei produttori italiani nel settore, che si sostituiscono alla produzione neozelandese nella stagione invernale dell’emisfero australe.
Da sempre il cibo ha viaggiato da una parte all’altra del globo (basta ritornare indietro con la memoria alle importazioni di te attraverso la via della seta o di mais e cioccolato dalle Americhe Colombiane); la novità è semmai l’entità di questo traffico. E, stando a quanto riportato in un recente articolo del NYT, i principali destinatari di questo traffico siamo proprio noi Europei, con un aumento dell’import di cibarie varie del 20% negli ultimi 5 anni. Negli Stati Uniti la crescita è stata ancora più forte, raddoppiando dal 2000 al 2006.

Che c’è di strano in questo esempio di globalizzazione dei mercati? C’è che questo commercio ha dei costi ambientali spaventosi. Il principale problema di questo business è legato ai costi ambientali derivanti dal trasporto di frutta e verdura da una parte all’altra del globo. Si è gia discusso, in questo stesso blog, di quanto forte sia il ruolo dei trasporti nell’inquinamento globale, sia in Italia che all’estero.
La diversità nei costi del lavoro tra diverse nazioni genera dei flussi logistici bizzarri. Il merluzzo norvegese che arriva sulle nostre tavole è in realtà stato filettato in Cina, per essere poi riportato in Norvegia per la vendita. La Gran Bretagna importa ed esporta 15.000 tonnellate di waffles all’anno e scambia 20 tonnellate di bottiglie di acqua con l’Australia. Inoltre, importa oltre il 95% della frutta e più della metà della verdura che viene venduta nei banchi dei supermercati britannici.

Oltre a dei ridotti costi del lavoro, altro fattore che ha stimolato la globalizzazione del cibo è una contestuale drastica riduzione dei costi di trasporto. Il fatto è che, tra questi costi, non vengono considerati i costi ambientali di questo trasporto, che rimangono un’esternalità negativa, non contabilizzata dalle aziende trasportatrici ma subita dall’ambiente.
Ma il problema, legato al trasporto del cibo fresco non si esaurisce nella contabilizzazione dei costi ambientali legati alle emissioni del trasporto. Molte delle catena di supermercati incriminate, infatti, si difendono sottolineando, per certi versi a ragione, come in alcuni casi l’importazione implichi minori emissioni in atmosfera, evitando infatti in questo modo l’utilizzo energetico legato alla coltivazione in serre o alla refrigerazione.

La gravità della situazione ha spinto l’Unione Europea a proporre di incorporare i costi ambientali nel prezzo finale dei prodotti. La Svizzera ha già imposto delle tasse sui camion che attraversano i propri confini.
Il fatto è che il consumatore europeo, svizzero o americano è stato abituato a trovare qualsiasi tipo di frutta e verdura fresca ogni volta che lo voglia a prezzi relativamente convenienti. Alcune delle maggiori catene di supermercati, come il leader britannico Tesco propongono un sistema di etichettatura che permetta al consumatore di conoscere l’impronta ecologica di ogni prodotto.
Ma sarà davvero lo scaricare l’onere della scelta al consumatore finale la soluzione ad un problema ecologico di tale portata?

Valentina


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