Come sopravvivere a Serge Latouche

5 11 2009

La scorsa settimana a Padova ho avuto l’onore di partecipare ad un seminario di uno dei più conosciuti e influenti pensatori fautori dello sviluppo sostenibile. Serge Latouche, professore, filosofo, autore di bestseller sul tema tra cui L’occidentalizzazione del Mondo, Farewell to Growth e Come Sopravvivere allo Sviluppo, è stato tra i primi a portare alla ribalta a livello internazionale la necessità di perseguire modelli di sviluppo più sostenibili e in particolare di un modello di decrescita felice.

Il punto di partenza delle sua riflessione parte dalla considerazione che il periodo di crisi attuale, che motiva la riflessione sulla sostenibilità di questo modello di sviluppo, affonda le radici ben più lontano delle attuali e pur importanti crisi dei sub prime e dei mercati economico-finanziari.  La crisi che famiglie e imprese stanno affrontando in questo periodo, secondo un interpretazione che mi ha ricordato un po’ un intervento di Enzo Rullani di qualche tempo fa, rappresentano infatti solo la punta di un iceberg di una crisi più ampia, che riguarda l’intero sistema produttivo. Una crisi economica, una crisi culturale, una crisi antropologica. Insomma, una crisi della civiltà della crescita e del consumo, che aveva nel Fordismo il suo cavallo di battaglia.

In relazione a queste diverse anime della crisi nella crisi, Latouche ha guidato il pubblico curioso di studenti e professori nell’analisi di tre diverse prospettive di sviluppo.

La prima prospettiva è quella della società della crescita, protagonista delle economie occidentali a partire dalla rivoluzione industriale, e ben rappresentata dalle demonizzate multinazionali e dall’esasperazione del consumo, che si basa su uno sfruttamento sconsiderato di risorse, considerate illimitate. A questo modello, criticato dai suoi indicatori di benessere (PIL) alla sua considerazione delle risorse fisiche (illimitate) o ai suoi metodi (marketing aggressivo), Latouche, in relazione alla crisi, associa il termine catastrofismo.

La seconda via allo sviluppo è invece quella della crescita negativa, cui Latouche affibbia il termine disperazione , visto che non risolverebbe la crisi e porterebbe a un evidente peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei più.

La terza via, il modello di sviluppo promosso da Latouche, è invece quello della decrescita (felice), un modello di sviluppo tutto da inventare, in rottura con il passato, che si faccia carico di affrontare i problemi della scarsità delle risorse, dell’inquinamento, dell’aumento della popolazione e delle disuguaglianze sociali. Con un linguaggio straordinariamente forbito per uno straniero e con una serie di affascinanti accenti improbabili, Latouche ha infiammato la sala inanellando una serie propositi per raggiungere questo modello di sviluppo. Linee guida che dovrebbero dirottare la società moderna, quella del consumismo sfrenato e della produzione in-consapevole, verso un modello di sviluppo sostenibile in termini ambientali, riducendone l’impronta ecologica, e sociali, sanando le disuguaglianze tra il nord e il sud del mondo. Latouche ha propugnato l’importanza della ri-localizzazione, della ri-distribuzione, di un consumo e una produzione più consapevoli, di orientare la ricerca verso nuovi obbiettivi socio-economici. Salvo poi non specificare come si possano raggiungere questi punti, trasformando completamente una sistema produttivo che è ormai radicato nella società. Il programma di Latouche mi è sembrato un po’ la lista dei buoni propositi: un insieme di punti su cui nessuno può dissentire ma senza alcuna indicazione su come raggiungerli. Lo stesso Latouche, messo alle strette su domande che chiedevano concretezza, ha detto che il suo è più uno slogan che un vero programma.

Apprezzo molto l’opera di Latouche che, coniugando filosofia e spirito rivoluzionario ha portato alla ribalta l’importanza e l’urgenza del cambiare il modello di sviluppo attuale, per evitare che la riduzione di combustibili fossili o gli effetti dell’inquinamento portino presto a una società del catastrofismo o della disperazione.  Tuttavia, credo che lo sforzo vero da fare in questo momento, a livello intellettuale e politico, sia quello di fare un passo in più e, prendendo in considerazione la società e l’economia esistente, pensare a obbiettivi concreti e realizzabili per traghettarle verso un modello di sviluppo.

A.A.A. intellettuali con proposte concretizzabili per una riconversione cercasi.

Valentina



Sostenibilità: un trend nel settore del legno-arredo

19 10 2009

Venerdì sono stata a FUTSU, convention dedicata agli ultimi aggiornamenti sull’industria del legno-arredo. L’evento, organizzato dal Consorzio Universitario di Pordenone, è stato strategicamente realizzato in concomitanza con il salone internazionale dei componenti e accessori per il mobile, il SICAM, a Pordenone.

Molti i diversi relatori che si sono susseguiti sul palco, provenienti sia dal mondo aziendale che della ricerca o dell’università. L’intenso e pretenzioso programma era stato suddiviso in quattro macro sezioni (ambiente, IT, nuovi materiali, trend globali) che declinassero in modo diverso ma complementare quali siano le nuove sfide e prospettive per gli attori del comparto.

aziendale con il tema del rispetto dell’ambiente.Una rassegna nel nome della sostenibilità ambientale, come è stato chiaro già dalla scelta dello speaker che ha introdotto FUTSU, Gabriele Centazzo, l’imprenditore di Valcucine noto per aver legato il suo successo. Nonostante fosse teoricamente l’argomento solo della prima sessione, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono stati in qualche modo il lait motiv dell’intera giornata. Non solo discutendo di strategie di comunicazione e innovazione (con le testimonianze di COPAT e IKEA e i rapporti di Federlegno Arredo) ma anche affrontando i temi dei nuovi materiali, vuoi perchè realizzati a partire da materiali riciclati, vuoi perchè realizzati riducendo l’impiego di energia e materie prime fossili, vuoi perchè implichino processi di produzione meno impattanti sull’ambiente.

La ricorrenza delle tematiche della sostenibilità sembra essere un indice del fatto che essa rappresenta uno dei trend principali che sta motivando l’innovazione nel settore. Un elemento che è emerso da quasi tutte le relazioni che hanno toccato questi temi è che essenziale per lo sviluppo e il successo di innovazioni sostenibili è in primo luogo la conoscenza e poi la consapevolezza, sia da parte dei consumatori che delle aziende stesse. In questo senso le certificazioni ambientali si sono dimostrate un utile strumento, nelle parole delle aziende e dei rappresentanti del distretto o delle associazioni industriali, per monitorare le proprie performance ambientali e per comunicarle ai consumatori. Conoscenza, indispensabile per realizzare le innovazioni sostenibili, che spesso viene costruita insieme a soggetti esterni all’impresa: fornitori o KIBS, come il CATAS, centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove specializzato nel settore legno-arredo.

Altro aspetto importante e complementare sottolineato da molti speakers è quello dell’importanza del considerare tutti gli attori della catena del valore per poter realizzare innovazioni che riducano concretamente l’impatto sull’ambiente, rispettando la legislazione e facendo leva su queste tematiche sul mercato finale. Mi ha stupito molto che soggetti diversi si siano indirizzate nel sottolineare l’importanza del Life Cycle Thinking: per essere sostenibili è importante selezionare, gestire e controllare anche le fasi a monte e a valle del proprio processo produttivo. Indispensabile in questo senso è la funzione del design, che ad esempio può concepire una cucina in cui tutti i componenti siano facilmente separati gli uni dagli altri, per favorire il riciclo alla fine del ciclo di vita, come l’ultima cucine Valcucine.

Anche il ruolo dei nuovi materiali sembra essere una frontiera promettente per l’innovazione sostenibile nel settore del mobile. I bio-polimeri sembrano essere una tecnologia già in grado di sostituire gli equivalenti a base fossile, senza troppi investimenti nei processi produttivi esistenti, per realizzare prodotti quali le schiume o le vernici.

Insomma, non è sempre vero che le tecnologie alternative non sono già disponibili. Piuttosto forse, esiste un problema di comunicazione e di mancanza di informazioni. Quello che è sicuro, invece, è che in un settore importante per l’economia italiana come quello del legno-arredo innovazione fa sempre più spesso rima con sostenibilità ambientale.

Valentina



Scenari energetici in Italia al 2020

2 12 2008

Qualche giorno fa a Padova si è svolto un convegno sugli scenari energetici al 2020 con uno sguardo particolare alla situazione italiana e al suo possibile ruolo all’interno dello ambito europeo. Il convegno, che ha visto una numerosa partecipazione oltre che di studiosi e accademici da tutto il Nord Italia anche di esponenti del mondo aziendale, ha indirizzato il delicato tema degli scenari energetici che si aprono per l’Italia all’indomani del molto discusso pacchetto 20-20-20 proposto dall’Unione Europea. Il convegno si poneva l’ambizioso obbiettivo di delineare una possibile proposta per una strategia nazionale per il raggiungimento degli obbiettivi – di riduzione delle emissioni, dell’incremento di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica- assegnati dall’UE all’Italia, che al momento non esiste ancora.

Il tema è decisamente scottante tanto che i moderatori a tratti hanno dovuto calmare le acque come Floris in un dibattito tra Di Pietro e Castelli. Il motivo di tanto contendere sono stati soprattutto i numeri, relativi sia ai costi dell’effettuazione del pacchetto, che per molti degli studiosi presenti viaggiano decisamente al di sotto delle cifre su cui si basa l’attuale posizione del governo italiano sia ai benefici che deriverebbero da tali provvedimenti. Al di là della battaglia sulle cifre, il messaggio forte che ho colto dal vivissimo dibattito è stato un altro. E cioè che l’oggetto del contendere non è solo il combattere il global warming ma si sta discutendo della competitività del sistema economico italiano (ed europeo) nel prossimo futuro. È vero che la riduzione di Co2 a fronte dei provvedimenti obbiettivo sarebbe relativamente piccola – un taglio alle emissioni del 0,0015% secondo Confindustria. Ma quello di cui si discute in sede europea va oltre questo obbiettivo, prospettando un ambizioso piano strategico sulle tecnologie, tecnologie per una transizione ad un economia che segua un modello di sviluppo compatibile con l’ambiente. L’Europa non è certo l’unica che ha fiutato questa opportunità: anche la Cina, che non è nota basare i suoi piani industriali su scrupoli moralistici e ambientalisti, si è posta l’obbiettivo 19% di energia da rinnovabili al 2020. Energia prodotta, presumibilmente, da pannelli solari o pale eoliche made in China con un relativo indotto economico, che già si sta sviluppando, non indifferente. Se la Cina si è già mossa in questa direzione, anche l’America di Obama non tarderà a muoversi in questa direzione (forte dei 150 miliardi di dollari che il neo eletto ha promesso investirà nei prossimi 10 anni) e anche l’India si sta guadagnando un posto di tutto rispetto nel panorama mondiale per la produzione di pale eoliche. Insomma, non c’è tempo da perdere per non restare fuori dal mercato delle green technologies. Attualmente, nella Germania di Audi e Bmw ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto. Solo un indicatore tra i tanti che dimostra come l’obbiettivo della riduzione di emissioni e aumento dell’efficienza energetica sottende anche un mercato che potrà avere importanti riflessi non solo sull’ambiente ma anche sull’economia, in termini di occupazione che di fatturato sia in high tech – come quello per la produzione di tecnologie per le rinnovabili – che low tech -dai mobili alle ceramiche.

Alle prese con una delle peggiori tempeste per l’economia di sempre, investire in questa scommessa di economia sostenibile può rappresentare per l’economia italiana una delle poche scialuppe di salvataggio disponibili.

Valentina



L’Italia in prima fila sul clima

20 10 2008

Siamo abituati a leggere le notizie che riguardano la tutela dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile nell’appedice dei giornali, affiancate alle pagine che recensiscono gli ultimi best-seller usciti in libreria o le prodezze di Ronaldinho. Da una settimana, invece, l’argomento ha guadagnato stabilmente le prime pagine dei giornali grazie alle vicende legate all’approvazione del pacchetto clima europeo. L’Italia in particolare sta tenendo banco ai vari vertici europei, mantenendo un clima di incertezza su quelli che saranno gli esiti del pacchetto che dovrebbe perpetuare gli impegni assunti già a Kyoto, prevedendo una riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020. Ma per capire il perchè di tanto fermento e dell’incertezza sugli esiti del consiglio dei ministri dell’ambiente di oggi e degli altri meeting europei dovuti alle politiche italiane, una breve cronistoria della vicenda può essere utile.

Il primo segnale risale già al 14 settembre, quando la presidentessa di confindustria ha dichiarato guerra aperta a questo pacchetto, che produce “danni enormi alle economie in cambio di benefici infinitesimali per l’ambiente”. La seconda tappa di questa breve cronistoria riguarda l’eco di questa polemica riportato in sede europea dal Presidente del Consiglio italiano, che ha invocato una riduzione degli oneri in capo alle imprese in vista della grave crisi economico-finanziaria che stanno attraversando i paesi, che è sfociato negli ultimi giorni nella scelta di guidare un quantomeno eterogeneo fronte del no, che mira ad un rinvio e/o a delle modifiche. Il fatto è che gli altri paesi, o almeno le economie europee più avanzate, nonostante vivano nella stessa epoca storica, non sono affatto dello stesso parere, anzi.

Molti leader europei si sono esposti chiaramente a riguardo: la tutela dell’ambiente non è necessariamente solo un costo. Parte della querelle innescata dalle posizioni italiane in sede europea riguarda proprio anche la questione numeri. Secondo alcuni i dati presentati da industriali e governo sui costi del pacchetto per le aziende non tengono conto dei vantaggi che questo pacchetto può apportare, che alleggerirebbero quindi il conto totale a carico delle aziende. Non solo. E non tanto perchè, come concorda tutta la comunità scientifica, la lotta ai cambiamenti climatici non è più rinviabile, tanto per un motivo prettamente economico. La carta della leadership nell’economia pulita potrebbe rappresentare infatti uno (dei pochi possibili) assi nella manica per le economie europee, posizionandole su un business in grado di proiettarle nel futuro prossimo con un vantaggio economico da giocarsi contro gli agguerriti competitor internazionali. L’economia pulita è considerata secondo molte autorevoli voci la bolla che può salvarci dalle bolle (finanziarie,…) subite finora, il mezzo per rialzare l’economia mondiale insieme alle sorti del pianeta. Per concludere con Zapatero: “la crisi internazionale non deve portarci a fare passi indietro: ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e ridurre l’inquinamento non è un problema ma una via d’uscita, una soluzione”.

Quello che questa vicenda ci segnala è che la tutela dell’ambiente non è un argomento né secondario né slegato dalle sorti economiche degli stati. Vedremo se l’Unione Europea sarà in grado di raccogliere questa opportunità, sfidando le inerzie per proiettarsi nel futuro.

Valentina



Come rendere sostenibile lo sviluppo?

11 07 2008

Lo scorso 9 luglio si è tenuta a San Servolo, sede di Venice International University, un incontro interno di discussione su un progetto centrato sull’analizzare come sia possibile coniugare lo sviluppo con la sostenibilità, tematiche di cui ci stiamo occupando da tempo in questo blog.

Un primo punto di partenza comune a tutte gli interventi della discussione, arricchita dalla presenza di vari esperti e interessati a queste tematiche da lunga data, è stato il riconoscere una multidimensionalità al concetto di insostenibilità. Il problema della sostenibilità non riguarda solo l’aumentata pressione ambientale e l’intaccamento del capitale naturale. L’attuale modello di produzione è messo in crisi anche da un più generale aumento della complessità, da un problema di equilibrio precario tra appropriazione e stimoli alla produzione sul campo dei commons cognitivi, da un più ampia riflessione critica sul senso del produrre e del consumare.
Il sistema produttivo che ci ha accompagnato fino a questo momento storico è dunque in crisi per un problema più ampio di sostenibilità, di cui quella ambientale, da analizzarsi a livello macro ma anche meso (sistemi di produzione locali e comunità) e micro (le singole aziende motori del cambiamento), è solo una delle sue varie dimensioni.

In questo quadro un ruolo centrale per attuare una trasformazione deve essere ricoperto dalla regolazione. Ma non una regolazione accentrata di stampo Fordista, che bacchetti con tasse e costi all’inquinare i produttori cattivi. La regolazione necessaria per uscire dal circolo vizioso dell’insostenibilità è invece tutta da ricostruire, basandosi su una collaborazione attiva tra molti più soggetti, dall’autorità pubblica agli imprenditori, dalle comunità (anche produttive) locali ai consumatori. Una regolazione che usi incentivi e sussidi tenendo conto dell’incoerenza temporale tra l’accorciato orizzonte temporale con cui si devono confrontare le aziende per competere nella global economy e più lunghi tempi e corrispettivi alti rischi impliciti in processi innovativi di tale portata.
L’obiettivo di questo sforzo comune e sincrono non deve essere più soltanto quello di focalizzarsi sulle esternalità negative ma quello di stimolare la migliore innovazione, che dia il via a meccanismi virtuosi che disinneschino la bomba ad orologeria dell’insostenibilità e promuovano un modello produttivo di successo.

In questo quadro, ilmodello produttivo italiano ha molto da dire e da giocarsi. Riconosciuto a livello internazionale da tempo come interprete di un modello di sviluppo industriale alternativo a quello tradizionale fordista grazie alla forza propulsiva delle sue comunità e filiere produttive, si prospetta come un naturale candidato per risolvere l’apparente dicotomia tra sostenibilità e produzione industriale. Le aziende distrettuali italiane hanno tutte le carte in regola per promuovere un rinnovamento strutturale, sviluppando un’innovazione capace di interpretare il futuro, coniugando le capacità produttive industriali con una produzione di senso, che sempre più ricerca il consumatore attento alle tematiche ambientali ma non solo.

In questo blog abbiamo già decantato esempi di aziende italiane che si sono mosse in questa direzione. Ora resta da gestire il passaggio di scala dalle singola aziende d’avanguardia, alla creazione di un sistema produttivo sostenibile che si basi sulla collaborazione sincrona tra il sistema della produzione, della regolazione e del consumo.

Valentina



Eco-sì, eco-no

4 01 2008

Nei giornali degli ultimi giorni dell’anno ho letto più di qualche articolo, buonista o meno, su ambiente e ambientalismo che pongono l’attenzione su che cosa sia eco e cosa no.
Dato il periodo di bagordi e lotterie, inizierei con una riflessione sul numero 32, valore che quantifica la differenza tra lo stile di vita del mondo sviluppato e quello in via di sviluppo. Il premio Pulitzer Jared Diamond focalizza l’attenzione sul fatto che il disastro ambientale in cui incorriamo non dipende tanto dall’aumento della popolazione in se, quanto dal consumo pro-capite. Contando che le popolazioni del terzo mondo mirano ad ottenere uno stile di vita occidentale, i tassi di consumo, e quindi di inquinamento, rischiano un aumento fuori controllo.
Posta l’importanza della riduzione o comunque del cambiamento dei consumi, per prevenire pericolosi cambiamenti climatici o problemi di salute legati all’inquinamento, è utile capire cosa sia veramente eco e cosa no. Un libro americano di recente pubblicazione dà alcuni consigli in materia. Rischiando derive pericolosamente ambientaliste, può rappresentare comunque un interessante vademecum per smascherare stili di vita e prodotti solo in apparenza bio o eco. L’idea di fondo è che, nel calcolo del costo ambientale di un prodotto, debba essere considerato tutto il “ciclo di vita” del prodotto stesso, analizzando anche quanta energia sia necessaria per produrlo o quanto inquinamento si sia prodotto per trasportarlo.
Uno stile di vita veramente ecologico è dunque possibile? Il diario di bordo di Paolo Rumiz per Repubblica ci dimostra come (almeno per una settimana) uno stile di vita che riduca all’osso la CO2 è possibile. A patto di ridurre sprechi e consumi, mantenendosi saldi nei propri principi contro un modello prevalente che poco favorisce un modus vitae a basso impatto ambientale (mezzi pubblici docent).

Valentina