E se fosse proprio il territorio il laboratorio di una rivoluzione energetica incentrata sulle rinnovabili?

23 03 2010

Per evitare di essere accusata di plagio, lo dico già nelle prime righe. La frase del titolo non è mia ma è ripresa dall’ interessante introduzione di Edoardo Zanchini an un altrettanto interessante rapporto di Legambiente sul rapporto dei comuni italiani con le fonti di energia alternativa.

Fonti amientaliste e politiche stanno da anni cercando di spingere un modello di produzione di energia distribuita puntando sui singoli individui, nella speranza che un condizionamento culturale e qualche incentivo in ordine sparso possa convincere grandi masse di cittadini a sostenere investimenti a medio lungo termine per installare impianti di energia alternative. Un approccio bottom up che coinvolga il maggior numero di cittadini è sicuramente auspicabile, intendiamoci. Forse però non sempre efficace, visto il ridotto numero di impianti installati dalle famiglie italiane, soprattutto rispetto ai risultati ottenuti in altre nazioni (e.g., Germania) che pure non godono come noi delle fonti di energia rinnovabile, sole in primis. Il problema, è che da un lato lo Stato non può o non riesce a farsi carico di una ristrutturazione completa del sistema di approviggionamento energetico, dall’altro la singola famiglia fatica a superare le logiche di breve termine per installare un impianto che garantirà da subito vantaggi ambientali e sociali in genere, ma economici solo nel medio-lungo termine. Il quadro legislativo ed economico incerto non contribuisce certo a favorire la situazione.

Il recente rapporto “Comuni Rinnovabili 2010” curato da Legambiente ci ricorda che c’è un attore, tra la politica politicante e le scelte del singolo cittadino, che può facilitare il passaggio alle energie pulite: l’ente locale. Un ruolo che non è solo potenziale ma è già realtà in molte zone d’Italia. I dati parlano chiaro; sempre più comuni, un po’ per far cassa in periodi di ridotti finanziamenti nazionali, un po’ per contribuire a rivitalizzare l’economia locale e migliorare le condizioni ambientali, hanno investito in pannelli solari o impianti di energia geotermica, che in alcuni casi riescono a soddisfare interamente il fabbisogno dei loro cittadini. 6.993 hanno già installato almeno un impianto e il trend rispetto agli anni scorsi sembra molti incoraggiante: solo un paio di anni fa erano meno della metà. Il fotovoltaico è quello che va per la maggiore, ma alcuni comuni si sono cimentati anche nell’istallazione di impianti eolici (297), geotermia (181) o idroelettrici (799). Già 15 comuni sono riusciti a coprire l’intero fabbisogno energetico, in termini sia di elettricità che di riscaldamento dei propri cittadini.

Non stupisce che il caso più emblematico sia in provincia di Bolzano, che dispone di più di 960 metri quadri di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli fotovoltaici (per 1800 abitanti, ndr) diffusi sui tetti di case e aziende, ma farà piacere sapere che, almeno in questo caso, non sono solo le regioni del Nord ad aver colto la sfida economica ancora prima che ambientale, delle rinnovabili. La mappa della diffusione degli impianti rinnovabili mostra un interessante coinvolgimento di comuni e provincia in tutto il territorio nazionale, pur scontando comprensibili differenze riguardo le singole tecnologie:Biomasse, Idroelettrico e Solare Termico sono più diffuse nel centro-nord, mentre solare ma soprattutto eolico sembrano punti di forza soprattutto del centro-sud.

Al di là dei dati sulle singole tecnologie mi sembra interessante rilevare il ruolo emergente del territorio come attore principale del cambiamento verso un modello ad energia pulita. Gli enti locali possono rappresentare l’anello mancante per implementare questo modello virtuoso, superando i limiti cui incorre il singolo – permettendo vantaggi di scala e una migliore gestione della burocrazia legata ai nuovi impianti – e il regolatore – grazie alle più gestibili dimensioni e alla maggiore conoscenza del territorio, del suo potenziale e delle sue necessità.

Valentina



Ma quanto valgono le tecnologie rinnovabili?

9 10 2009

Si parla molto del valore di impianti per la produzione di energia rinnovabile: ma come valutarlo?

I favorevoli alle installazioni di pannelli solari e impianti eolici suggeriscono di considerarli come investimenti di lungo termine, sottolineando i risparmi in bolletta e gli eventuali guadagni per la rivendita dell’energia al sistema centrale. I puristi dell’ecologia ne sottolineano soprattutto il valore in termini di tonnellate di emissioni risparmiate, in centimetri di buco dell’ozono evitati, in milligradi centigradi di surriscaldamento terrestre in meno. Imprenditori e privati attenti al portafoglio ne considerano soprattutto il prezzo di listino, scoraggiandosi di fronte agli elevati costi di acquisto di impianti fotovoltaici e al lontano break-even-point dei pannelli solari.

Tutti sono interessati a capirne il vero valore, per avere un mezzo per promuovere queste forme di produzione di energia più sostenibile ma anche per comprenderne il potenziale economico, d’investimento, lo sviluppo futuro. Ma quanto valgono veramente queste tecnologie?

A quanto pare, un nuovo interessante indicatore può aggiungersi alla lista di cui sopra. Sembra infatti esserci una nuova categoria di appassionati del pannello: i ladri. E a guardare l’ammontare della refurtiva, cento milioni di euro nel solo 2008 e il trend in crescita per il 2009 si direbbe che il prodotto il valore del prodotto non sia da poco. A leggere le cronache locali, il furto di strutture destinate alla produzione di energia rinnovabile è diventato un tormentone in tutta italia, un degno avversario di Rolex e dei gioielli della nonna per il premio miglior refurtiva dell’anno, soprattutto nelle zone più isolate dove gli eco-ladri possono agire indisturbati.

Sembra che le gang dei ladri di pannelli stiano diventando più temibili dei ladri delle ville. O che i pannelli siano diventati più redditizi delle cassaforti dei signorotti locali. Tanto che è stato messo a punto un dispositivo antifurto apposta per proteggere i panneli solari, con tanto di localizzatore Gps incorporato.

Al termine dell’operazione chiamata, con gran fantasia, Operazione Kyoto, la squadra mobile di Matera ha inchiodato una banda che operava con gran efficienza, riuscendo a smontare in una sola notte un centinaio di moduli. Niente male per un bottino che non si può certo trasportare nelle tradizionali sacche da ginnastica. La banda del pannello (che con un nome così potrebbe diventare un indimenticabile soggetto cinematografico…) che per mesi ha terrorizzato gli eco-investitori del Sud Italia aveva trovato anche gli acquirenti: i pannelli venivano infatti spediti via furgone nel Nord Africa, a un terzo del prezzo italiano. Dei Robin Hood moderni, insomma.

Chi l’ha detto che i paesi più poveri non sono eco-sensibili?

Valentina



Dalla crisi allo sviluppo (sostenibile): c’è posto per l’Italia?

8 06 2009

Sempre di più si sente parlare del potenziale economico dei green jobs. Per alcuni sembrano essere gli unici lavori che riusciranno a tenere anche in tempo di crisi. Per altri rappresentano un maquillaque definitorio per ottenere finanziamenti da enti pubblici, avidi di investire in progetti etico-buonisti per rabbonire la folla di elettori inbufaliti dalla disastrata situazione economica e dalle scarse prospettive future.

In un altro post abbiamo già cercato di capire cosa si nascondesse dietro a questo nome intuitivo quanto generico e ci siamo stupiti a commentare gli elevati posti di lavoro che il settore delle rinnovabili, della gestione dei rifiuti e legati al raggiungimento dell’efficienza energetica impiegano e impiegheranno a livello mondiale.

Ma quale ruolo gioca l’Italia in questo nuovo scenario?

La domanda è più che legittima. Lo sviluppo green sembra essere infatti maggiormente uno sviluppo hi-tech, legato alla produzione di nuove sofisticate tecnologie o, anche se legate a tecnologie ormai consolidate come quella del fotovoltaico, in cui non abbiamo competenze nelle lavorazioni principali (silicio in primis). L’Italia, si sa, non è mai stata famosa per le innovazioni hi-tech: le competenze che per anni hanno fatto brillare la nostra stella nel mondo sono competenze manifatturiere, al limite dell’artigianale, in settori low-tech. Ovviamente questa è una fotografia statica, che guardando all’aggregrato dimentica i vari casi di successo legati al settore del multimediale, le innovazioni in nano tecnologie e le aziende italiane che si sono affermate con innovazioni hi-tech radicali. Ma questi casi di successo sono ancora in minoranza, soprattutto se confrontati con realtà come quella tedesca e americana.

Dobbiamo quindi dedurre che l’Italia sia fuori da questo possibile miracolo economico verde?

Uno studio recentemente realizzato del centro IEFE dell’università Bocconi per il Gestore dei Servizi Elettrici ha analizzato il potenziale occupazionale ed economico legato allo sviluppo e alla produzione delle rinnovabili in Italia. Lo studio individua tre possibili scenari, in base alla capacità del tessuto industriale nazionale di accettare la sfida tecnologica e concorrenziale.
Nel peggiore degli scenari gli studiosi dello IEFE prevedono un livello occupazionale che non potrà superare le 100.000 unità in 12 anni, con un alta dipenenza dall’estero per la tecnologia, importata per il 70% del fabbisogno interno.

Nello scenario di mezzo invece i ricercatori IEFE prevedono una situazione in cui gli imprenditori italiani accolgano la sfida in modo parziale. L’idea è che il fabbisogno di tecnologie pulite sia coperto specialmente da aziende specializzate in tecnologie “convenzionali” che diversificano il portafoglio prodotti con nuove tecnologie rinnovabili, andando a coprire quindi il 50% del mercato con la produzione nazionale.

Nel migliore dei casi invece è fatta la previsione di uno spostamento del manifatturiero italiano verso la filiera produttiva delle tecnologie rinnovabili, coprendo fino al 70% del mercato nazionale. Il fatturato previsto nei 12 anni, tempo soglia per raggiungere gli obbiettivi fissati dalla direttiva europea 20-20-20, toccherebbero soglia 70 miliardi, attraverso l’impiego di 175.000 occupati.

Il passaggio ad un economia pulita non può avvenire di colpo, con una ristrutturazione istantanea ed indolore del tessuto manifatturiero esistente. Riconoscere i costi e i tempi di questo passaggio è un primo passo essenziale per intraprendere una strada concreta in questa direzione. E tuttavia, in un’ottica di medio-lungo termine, quello che anche lo stuio IEFE ci suggerisce è che è possibile contare su una sinergia tra le competenze e la base produttiva esistente e le nuove tecnologie che sempre di più il mercato richiederà, spinto dall’azione costante del legislatore. La scorsa settimana ho assistito ad un convegno in cui si è affrontato il tema della crisi che sta colpendo il sistema industriale italiano e alcuni comparti, come il meccanico, in particolare. Il rapporto IEFE suggerisce che una valorizzazione mirata delle competenze esistente, mescolata con una coraggiosa “distruzione creativa” possono portare anche l’Italia low tech a competere con successo in un mercato, quello delle green tecnology, che si presenta come altamente redditizio.

Valentina



E luce fu!

18 05 2009

Tra le mille attrazioni che la fantastica Copenhagen offre, non mi sono lasciata sfuggire la possibilità di visitare la mostra “Future Lights” ospitata dal Danish Design Centre.

La Danimarca è famosa per il suo design e tra gli oggetti in cui eccelle lampade e lampadari sono sicuramente i più importanti. Negli anni, vari designer danesi si sono succeduti nel trasformare un oggetto di uso comune in un puro oggetto del desiderio. E d’altronde non c’è da stupirsi che in un paese dove durante la maggiorparte dell’anno la luce non c’è, ci sia una grande attenzione al sistema d’illuminazione. Recentemente, l’attenzione all’estetica si è incrociata sempre di più con l’attenzione all’ambiente, come dimostra l’esposizione allestita nel più importante centro del design danese.

L’oggetto della mostra era la luce e l’illuminazione, con il preciso scopo di raccontare attraverso la voce e le creazioni dei designer danesi come sia possibile unire l’utile al dilettevole, l’innovazione con la sostenibilità ambientale. La mostra vale sicuramente la visita: oltre a raccogliere i prodotti innovativi del settore è anche un bel modo per capire appieno il potenziale di utilizzare sistemi innovativi di illuminazione che riducano l’impatto ambientale.

Tecnologia. Un primo semplice passaggio ad un illuminazione più pulita parte da una semplice sostituzione delle lampadine utilizzate. Passare dalla lampadina ad incandescenza a lampade alogene o a led riduce di moltissimo l’energia impiegata (soprattutto, quella sprecata) e aumenta anche gli effetti positivi della luce sull’umore e la produttività dell’uomo.

Gestione. Ma rendere l’illuminazione sostenibile non si completa semplicemente nello svitare tutte le lampadine esistenti per sostituirle. C’è un potenziale di energia risparmiata ancora maggiore nella gestione più efficiente della luce, una gestione intelligente che gestisca al meglio non solo il quando ma anche il quanto e il cosa illuminare, in base alle reali esigenze. Ogni lampada rivolta a illuminare uno spazio inutile è una grande bacino potenziale di energia che viene sprecato ogni giorno, soprattutto nell’arredo degli spazi urbani e nei locali pubblici, dove chi preme l’interruttore non è chi paga la bolletta.

Interazione. Ma la gestione sostenibile della luce non è solo questo. Può essere molto più che semplice reazione, riduzione degli sprechi e perfezionamento delle tecnologie. Quello che la rende materia interessante per designer e aziende è il fatto che il sistema d’illuminaizone può diventare un fantastico strumento di innovazione. E il modo più interessante, da quanto ho visto, è quello di renderlo interattivo. Le potenzialità in questo senso sono immense quanto la fantasia di designer ingegniosi e orientati alle vendite. Le cose più intriganti che ho visto alla mostra sono state la possibilità di cambiare colori, intensità e movimento delle luci con il passaggio delle persone o in base ai differenti suoni. Oppure il fatto che la luce si accende appena ti siedi sulla poltrona, cambia colore in base al colore delle cose che appoggi sulla sedia, si diffonde gradatamente a simulare l’aurora per un risveglio soft.

Insomma, nel connubio design – sostenibilità c’è molto più che un semplice risparmio, un adattamento alle nuove tecnologie. Il vero potenziale, soprattutto economico, sta invece nelle innovazioni che rende possibile, sinergie che possono trasformare e arredare spazi urbani rendendoli interattivi e divertenti risparmiando allo stesso tempo sui costi.



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



che fare?

23 04 2009

Questa settimana sono stata ad un interessante convegno sui cambiamenti climatici e il loro effetto sulle strategie aziendali. Qui a Copenhagen queste cose le prendono davvero sul serio, anche grazie all’imminente COP15 , il meeting annuale tra i rappresentanti delle nazioni che hanno ratificato l’UN climate convention, che la città ospiterà a fine anno.

Lo scopo del meeting era molto ambizioso: preparare le basi per lanciare un programma in cui Copenhagen Business School, l’università che ha organizzato e ospitato l’evento, si pone in prima linea nella ricerca in tema di sfide ambientali per il mondo aziendale. Progetto ambizioso, ma molto promettente, soprattutto grazie alle collaborazioni importanti su cui può contare. Come ad esempio Dong energy, azienda leader nello stato per la gestione integrata dell’energia, che si occupa dell’intera catena del valore energetico, se così la possiamo chiamare, dalla produzione di energia fino alla distribuzione e al servizio al cliente. Anche se al momento l’azienda è legata principalmente alla produzione da fonti fossili, i progetti sono ambiziosi: creare un sistema integrato che utilizzi principalmente energia da fonti rinnovabili, mantenendo comunue costante l’affidabilità nella distribuzione energetica.

Altro partner interessante dell’iniziativa, che ha avuto modo di presentare la sua via per una produzione sostenibile è novozymes, leader mondiale in quella che loro definiscono bio-innovazione. Per dirla spiccia, l’azienda è specializzata nella creazione per i loro clienti, dei più svariati settori, di soluzioni innovative a base di enzimi, che migliorino le performance dei prodotti o processi dei clienti riducendo l’impiego di energia e di materie prime. Consiglio un passaggio nella parte del sito in cui pubblicizzano le soluzioni che hanno già creato: dal dentifrico non inquinante anti-batteri al cibo processato di migliorata qualità.

Dopo una breve presentazione delle esperienze di queste ad altre aziende in termini di sostenibilità ambientale, la discussione si è spostata ad un livello più intimo, in cui imprenditori, professori e ricercatori hanno discusso vis a vis di quelli che sono sentiti come i maggiori ostacoli o le migliori possibilità per stimolare il passaggio a una produzione più sostenibile, con lo scopo di identificare e definire quali siano le priorità per il mondo della ricerca.

Nessuna decisione è stata presa, nessuna tonnellata di Co2 è stata ridotta come immediata conseguenza del meeting. Ma sicuramente sono state poste delle buone basi per lo sviluppo di azioni congiunte tra il mondo della ricerca e quello aziendale, per illuminare la strada che porti in quella direzione.

Valentina



Come trasformare una landa desolata (in una gallina dalle uova d’oro)

3 03 2009

Durante una pausa caffè il mio occhio distratto è caduto sull’ultimo numero del magazine del Financial Times, che questa settimana offriva uno special issue dedicato completamente all’ambiente. La mia attenzione è stata attratta da una foto molto significativa: un bel primo piano di un ciuchino con sullo sfondo una pala eolica. Capite che non potevo che prendere in mano il magazine per interpretare questo insolito soggetto. Incuriosita, ho scoperto che quello non era un asino qualunque, ma un asino dell’Alto Mihno, una delle più desolate zone del portogallo, caratterizzata solo da lande sperdute battute dal vento, poche fattorie ma tante pecore. E asini, ovviamente.

Ma negli ultimi cinque anni il panorama è decisamente cambiato. Assolutamente coinvolta nella lettura, ho scoperto infatti che recentemente, a far compagnia a ciuchino, sono state installate anche 120 turbine eoliche che, con i loro 530GWh di elettricità prodotta all’anno, riescono coprire il 53% dei bisogni della popolazione locale. E per il futuro l’ambizione è ancora più grande: per il 2020 il ministro dell’economia Pihno, ideatore del nuovo green deal portoghese, promette (e i dati di crescita della produzione attuali sembrano confermare in pieno le sue parole) che il Portogallo produrra più del 60% della sua elettricità e il 31% dela sua energia da fonti rinnovabili.

Insomma, in pochi anni il Portogallo è passato da fanalino di coda dell’economia europea a paese leader per quanto riguarda le enrgie rinnovabili.

Perchè? Il ministro Pinho, prestato alla politica dal mondo della finanza, ha dichiarato di “essere stato convinto che un paese piccolo come il Portogallo non poteva essere grande in tutto, ma sapeva che -per non rimanere definitivamente tagliato fuori- doveva essere molto grande in qualcosa”. E dove investire quindi? Per un paese povero di risorse naturali, così come di tradizioni industriali, la via dell’energie rinnovabili ha rappresentato un lampo di genio. Risolvendo da un lato la dipendenza energetica, dall’altro stimolando un settore innovativo quanto lucrativo.

Come? Secondo Pinho, il trucco perchè le rinnovabili diventino un vero business sta nel “raggiungere i minimi di scala, rafforzare la competizione tra produttori e creare i giusti incentivi per attirare investimenti privati”. I portoghesi lo hanno fatto con un sistema di fee-in-tariffs, che consiste in una promessa di acquisto di energia da produttori di energia pulita a prezzi più alti del mercato per un periodo, il che asicura una stabilità negli incentivi nel medio-lungo termine. E sembra che questo meccanismo abbia davvero funzionato, accellerando il tasso di innovazione così come la capacità installata, tanto che ora i prezzi dell’energia eolica sono praticamente allo stesso livello di quelli dell’energia da fonti fossili.

Installare questa capacità produttiva non è stato certamente semplice, tra problemi logistici e finanziari. Ma l’ottica di investimento nelle rinnovabili di medio termine ha sicuramente pagato. Secondo i calcoli del ministero, per il 2020 gli investimenti in energie rinnovabili -il Portogallo ha investito pesantemente anche nel solare, costruendo il parco solare più grande al mondo, n.d.r.- porteranno a un risparmio di 440 milioni di euro in costi di carburante nonchè un aggiuntivo risparmio di 100 milioni in emissioni di Co2 risparmiate, agli attuali prezzi del mercato europeo delle emissioni di gas serra.

Quali sono le lezioni per l’Italia? Primo, che attraverso le rinnovabili  è possibile guadagnare e valorizzare aree altrimenti spopolate e industrialmente povere. Secondo, che per supportare tali industrie è necessario un adeguato business model, che acconti anche di incentivi di medio-lungo termine per il settore privato. Terzo, che non possiamo più guardare al Portogallo come fanalino di coda, per consolarci delle nostre magre performance. Guardando meglio la foto, mi sembra che il ciuchino portoghese mi strizzi l’occhio.

Valentina



è possibile trovare un lavoro in tempo di crisi? se è verde sì. Forse.

19 02 2009

Nelle ultime ricette proclamate da politici ed economisti per combattere la recessione, un ingrediente che sembra non mancare mai, a livello mondiale, è quello di investire nelle tecnologie verdi per risollevare l’economia e soprattutto creare posti di lavoro. Obama in campagna elettorale ha parlato di 5 milioni di green collar jobs, l’UE con Barroso di un milione di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e perfino la Cgil recentemente ha presentato a Roma il suo piano per uscire dalla crisi economica che potrebbe dare lavoro a 350 mila persone.

A guardare a queste cifre, sembrerebbe che la recessione sia semplicemente l’ennesima esagerazione di giornalisti faziosi.
Per capire cosa si nasconde dentro la black-box di questi grandi numeri di posti di lavoro verdi, mi sono addentrata in un misto tra curiosità e malizia nella lettura del libro bianco dell’Onu sugli eco-lavori e dell’ultimo rapporto curato dall’autorevole World Watch Institute.

Una prima interessante considerazione da questa lettura riguarda il tipo di settori coinvolti. A livello internazionale molta attenzione è riposta nelle nuove industrie verdi. Prime fra tutte le rinnovabili che, a livello mondiale, si stima occupino già più di 2,3 milioni di lavoratori, con alti potenziali di crescita, soprattutto nel comparto dell’eolico e del solare. Ma molto importanti sono anche tutta una serie di posti di lavoro creati dalla realizzazione di macchinari e/o applicazioni a maggiore efficienza energetica e ambientale in generale, considerazione che allarga di molto lo spettro dei settori in analisi. In Germania ad esempio, tra il 2002 e il 2004, in piena crisi edilizia, sono stati creati 25.000 nuovi posti di lavoro grazie ai lavori di ristrutturazione per aumentare l’efficienza energetica e la resa ambientale.
Ad alto potenziale è anche la macro area del riciclo, che negli US si stima occupi più di 1 milione di lavoratori, in Brasile 500.000 e in Cina addirittura 10 milioni.

Per non parlare poi di tutti quei posti di lavoro legati ai servizi ambientali, un eterogeneo gruppo che spazia dall’architettura alla consulenza per la gestione dei certificati verdi, difficilmente rendicontabili così come i posti di lavoro in settori manifatturieri tradizionali, dove alcune aziende si sono re-inventate in versione green per andare incontro alla esigenze di nuove nicchie di mercato consapevoli.
Tuttavia bisogna considerare che i posti di lavoro verdi di cui si parla non sono nuovi posti creati, ma anche lavori trasformati e ridefiniti, per soddisfare la nuova domanda di servizi e prodotti ambientali, o semplicemente rinominati, senza cambiare di sostanza, per ricevere uno specifico sussidio o migliorare la propria immagine sul mercato. Perché poi se si inseriscono lavori tradizionali come quello del netturbino, dell’idraulico e dell’ingegnere nella conta dei lavori verdi, si raggiungono presto le cifre promesse ma senza aver in effetti cambiato la natura del panorama occupazionale nè la sua numerosità.

Insomma, il panorama dei posti di lavoro che ruotano intorno a tematiche ambientali è davvero ampio e sembra poter supportare le stime proposte dagli ambiziosi progetti americani ed europei, ma restano comunque degli interrogativi aperti a rallentare l’entusiasmo nel leggere i progetti di Obama e Barroso, che riguardano da un lato la correttezza delle cifre, dall’altro le modalità di gestione della transizione verso questo ampio ventaglio di occupazioni green, con relativa (ri)-qualificazione del capitale umano.
Insomma, il potenziale c’è, vedremo se le varie amministrazioni riusciranno a concretizzarlo, realizzando la promessa che la green economy diventi il nuovo volano per risollevare l’economia internazionale.

Valentina



Soffia il vento della Danimarca

28 01 2009

In questi giorni mi trovo in Danimarca, nel bel mezzo del paradiso del cittadino modello. Unico fattore negativo in una città, Copenhagen, altrimenti perfetta, sono le fastidiose raffiche di vento che ti investono mentre passaggi tranquillo per lo Strøget o mentre bevi una birra in un dei tanti locali nella tipica atmosfera Hygge.

Ma quello che per un turista o per uno straniero trapiantato nel paese delle birre può rappresentare un inconveniente, rappresenta invece un grande vantaggio per l’economia del paese nonchè per le sue performance ambientali. Già camminando per le vie centrali della capitale si può notare una delle caratteristiche del paese: le pale eoliche. Non deturpando per niente lo Skyline cittadino, le pale eoliche rappresentano una presenza costante in quasi tutte le zone del paese, soprattutto nelle ventose lande del nord, dove nelle notti d’inverno, la produzione eolica arriva a coprire addirittura la metà del fabbisogno complessivo nazionale.

La Danimarca è infatti uno dei primi paesi al mondo per produzione eolica, nonchè uno dei maggiori paesi al mondo per la produzione di pale eoliche, con aziende che vendono in tutto il mondo, come la grande Vestas, che occupa più di 15 mila dipendenti e ha installato turbine eoliche in più di 60 paesi al mondo. In media, la produzione di energia attraverso l’eolico in Danimarca si aggira attorno al 23% del fabbisogno nazionale. Al di là delle evidenti condizioni atmosferiche favorevoli, l’eolico nella penisola danese è stato sostenuto da un favorevole contesto sociale, legislativo e anche, cosa di non poca rilevanza, finanziario. Contesto, che non solo ha sospinto la crescita in passato, ma anche quella futura. L’intenzione della Danimarca è di soddisfare entro il 2015 il 75% del fabbisogno di produzione elettrica con gli impianti eolici, anche grazie ad impianti come quello realizzato 12 miglia al largo del porto di Esbjerg, nel Mare del Nord, che, con le sue 80 pale, rappresenta il parco del vento offshore più grande del Paese.

E l’Italia? Il confronto con la Danimarca risulta sicuramente svilente, anche se consola il fatto che in effetti essa rappresenta un benchmark irraggiungibile non solo per noi italiani; un’eccezione anche nel panorama europeo. La Spagna è uno dei pochi stati che si sta muovendo decisamente in questa direzione, comprendo nello scorso anno l’11% del proprio fabbisogno nazionale grazie solamente a questa fonte di energia rinnovabile.

In Italia, dove i 3.640 aerogeneratori installati hanno prodotto un mesto 2% del consumo elettrico nazionale, non ci resta che consolarci con le cifre sui trend. Nel 2008 infatti, il numero di kilowattora installati ha raggiunto un insperato aumento del 37% rispetto all’anno precedente.

Valentina

Più di mille megawatt aggiuntivi, pari a una crescita record del 37%. Nel corso del 2008, i 3.640 aerogeneratori installati nel nostro Paese, hanno prodotto oltre 6 miliardi di kilowattora, cioè il 2% dei consumi elettrici, e alimentato i bisogni di 6,5 milioni di italian



Non solo rose e fiori dal fronte sostenibilità

9 01 2009

In queste pagine abbiamo raccontato spesso le potenzialità e i risultati positivi raggiunti da alcune imprese o settori grazie al connubio produzione&sostenibilità ambientale. Ma i segnali lanciati dal mercato non sono solo positivi. Stiamo parlando della drastica diminuzione degli affari nel settore dei pannelli solari e delle energie rinnovabili più in generale, dovute all’imprevista riduzione del costo del greggio e alla crisi finanziaria che non favorisce certo investimenti con ritorni a medio termine.

I primi, consistenti segnali di questa controtendenza ci arrivano dal lontano oriente. Federico Rampini ci racconta che metà delle fabbriche di Suntech, leader globale del settore, sono state chiuse, e in molti degli altri stabilimenti ai dipendenti è stato chiesto di presentarsi un giorno alla settimana. E Suntech non è sola. Sembra che l’unico settore in costante calo nelle oscillazioni frenetiche della borsa cinese sia stato proprio il solare. Dei sedici maggiori fabbricanti mondiali di pannelli fotovoltaici, sei battono bandiera cinese, con un dietro le quinte composto da molti altri produttori di componenti basati sempre nella repubblica popolare cinese. Ma molti di queste, Sunpower, JA Solar, LDK Solar, Trina Solar, sono crollate inesorabilmente proprio come il colosso del settore.

Il crollo è tanto più sentito tanto più che le prospettive di crescita erano di tutt’altro segno. A fine 2007 le imprese cinesi nel business ambientale erano trentamila, con tre milioni di dipendenti e un fatturato di 700 miliardi di yuan. E il solare era uno dei maggiori traini di questo sviluppo, che l’anno scorso aveva attirato anche molti fondi esteri di investimento. Che avevano portato anche a innovazioni tecnologiche interessanti, a un più ampio utilizzo delle rinnovabili anche sul suolo cinese, e a grandi progetti per sviluppo di monumentali centrali solari.

Ma lo spettro della recessione mondiale ha fermato questo processo virtuoso. I cinesi erano leader indiscussi nell’export del solare: il 95% della produzione era destinata all’export, e questo certo non fa favorito SunTech e compagne. Ma anche altri colossi mondiali delle rinnovabili hanno incassato lo stop, come la britannica Centrica, che ha bloccato piani per la creazione di nuove centrali eoliche o la francese Theolia che ha cambiato idea sull’apertura di nuovi impianti per la produzione del pale eoliche.

La situazione non è delle migliori. Il presidente di Solar Enertech, un altra importante azienda del solare, lo ha detto nei toni più cupi: “Per il solare è giunto il giorno del giudizio come accadde per la bolla di internet”. Forse la situazione non è così tragica, ma l’esempio del solare cinese ci insegna che la convenienza economica di un prodotto sostenibile è necessaria affinché sia preferito ai sostituti più inquinanti, anche in periodi di crisi. La nicchia di consumatori duri e puri, che vogliono e possono rinunciare a prodotti più low cost per tener fede alle loro convinzioni su un consumo consapevole non sarà mai sufficientemente grande da rendere economicamente sostenibile quelle produzioni eco-compatibili.

Insomma, la lezione che imparo da questo esempio è che per raggiungere un modello di sviluppo sostenibile sia a livello ambientale che economico è necessario un raffinamento delle tecnologie produttive disponibili, che abbassino i costi di produzione.  In altre parole, della necessità di un maggior investimento in ricerca e sviluppo, sullo stile dei sussidi all’ambiente proposti da Obama in campagna elettorale.

Valentina