Dalla sostenibilità nelle catene del valore secondo Kraft.

1 05 2010

Da dove partire per ridurre gli impatti ambientali sul pianeta delle attività industriali?

Per anni il mondo ha guardato ai politicanti per trovare una soluzione al problema dell’uso spropositato di risorse non rinnovabili e dell’inquinamento di aria, terra, acqua generate dalla produzione e dal consumo di prodotti e servizi, ma i risultati non si sono dimostrati esaltati. Si sta invece facendo invece sempre più strada l’idea di un approccio bottom up, guardando alla spinta innovativa di imprese che possano canalizzare le proprie entrate verso prodotti a basso impatto ambientale. Un ruolo rilevante in questo senso possono giocare le grandi imprese, che forti di grandi volumi di acquisto e di vendita e di potere di mercato, possono generare maggiori impatti, evitando lentezze e compromessi che sono inevitabili componenti dell’attività politica. Ma come possono le aziende diventare “green”?

Qualche risposta da un intervento alla Nicholas School of the Environment a Duke University del vice responsabile della sostenibilità di Kraft Food, multinazionale seconda solo a Nestlè come produttore di prodotti alimentari&C.

Profitable green. La sostenibilità ambientale è una lente attraverso cui leggere l’attività innovativa ma che non può prescindere da obbiettivi di ritorno sugli investimenti e profittabilità. Prodotto per prodotto, problema ambientale per problema ambientale quindi, l’azienda sceglie di investire in progetti che permettono una contemporanea riduzione dei costi produttivi (magari utilizzando propri scarti produttivi) o la realizzazione di maggiori volumi (grazie all’azione congiunta del marketing che valorizza le caratteristiche di sostenibilità del prodotto agli occhi del consumatore).

Be creative: I problemi ambientali non sono semplici nè hanno soluzioni univoche. Piuttosto, implicano spesso dei trade-off, vista anche la mancanza di tecnologie alternative a quelle impattanti che permettano simili costi. è questo quindi il dominio ideale dell’attività innovativa dell’impresa. Qualche esempio per quanto riguarda il packaging. Molti dei materiali utilizzati per confezionare prodotti alimentari non sono riciclabili e non vi sono al momento alternative a minor impatto ambientale che permettano gli stessi bassi costi. Cambiare il materiale impiegato è però solo una delle possibili soluzioni. Per il brand di caffè inglese Kenko, l’azienda ha agito sulle diverse modalità d’uso del prodotto, riducendo del 97% il packaging vendendo, invece che il solito barattolone usa e getta, pacchi di caffè refill, da svuotare a casa in un barattolone multiuso. Un altro approccio utilizzato per evitare il collo di bottiglia tecnologico, è quello dell’ “up-cycling”: insieme all’azienda TerraCycle, Kraft ha realizzato un sistema che incoraggia i consumatori a riciclare le confezioni dei propri prodotti, che saranno poi trasformati da TerraCycle in borsette o giochi per bambini.

Ridurre gli impatti oltre le proprie attività produttive. Il luogo da cui le aziende partono per ridurre il proprio impatto ambientale sono le attività produttive che hanno luogo all’interno delle proprie mura. Riduzione del fabbisogno energetico, dell’inquinamento atmosferico, degli sprechi produttivi, energie rinnovabili sui tetti. Se è vero che questo approccio è più semplice, permettendo un controllo diretto, non permette tuttavia di ridurre i maggiori impatti ambientali, che spesso sono generati dalle attività di fornitori e altri attori a monte della catena del valore, esterni al controllo diretto dell’azienda. Come risolvere questo problema? Anche in questo caso, l’esempio di Kraft punta verso soluzioni case-to-case. Nel caso ci siano delle certificazioni ambientali valide e i prodotti in questione permettano maggiori ritorni, come nel caso del caffè Kenko, l’azienda sceglie di rifornirsi solo da fornitori certificati. In altri casi, invece, l’azienda sceglie di collaborare con i propri fornitori esistenti, esponendo i propri obbiettivi di sostenbilità e lavorando insieme sulle possibili soluzioni. In ogni caso, il modello “d’imposizione” non sembra funzionare: neanche multinazionali della stazza di Kraft riescono ad esercitare sufficiente potere su fornitori indipendenti. Inoltre il richiedere regole precise a volte diventa controproducente, non permettendo la flessibilità necessaria per affrontare al meglio i trade-off legati ai problemi di sostenibilità. L’esempio di Kraft racconta che incentivare l’attività del fornitore, piuttosto che pretendere, si dimostra la soluzione migliore per rendere verde la propria catena del valore.

Valentina



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



Un tuffo nel porto

31 03 2009

Sebbene sia arrivata la primavera, le temperature danesi sono ancora ben lontane dall’essere da permettere le mezze maniche. E mentre fuori piove il pensiero viaggia verso lidi tropicali e il caldo tepore delle spiagge. Ma oggi ho scoperto che non serve che vada tanto lontano per fare un bagno. La spiaggia più vicina è proprio in centro città. Di più, la spiaggia più vicina è proprio davanti al porto.

Per capire la portata di questa notizia bisogna fare qualche passo indietro nel tempo. Per molto tempo gli scarichi industriali, i saltuari sversamenti di petrolio dal porto e le acque reflue delle fogne hanno inquinato le acque del porto della capitale danese, situato molto molto vicino al centro città, proprio come succede in quasi tutti gli altri porti del mondo. Più di 93 canali riversavano acque di scarico nel porto e delle zone costiere vicine, specialmente in situazioni di alte precipitazioni, che qui, mi sento di poter dire con abbastanza sicurezza ormai, non è certo un evento raro.

Dal 1995 l’amministrazione comunale ha però deciso di risanare la zona, costruendo tra l’altro dei canali e delle cisterne che agiscono a mo’ di riserva, per compensare il sistema fognario “ordinario” quando è sotto pressione. In più, la zona costiera è stata attrezzata con impianti di trattamento delle acque reflue che rimuovono dalle acque di scarto gli eventuali elementi nocivi e inquinanti. Grazie alla realizzazione di questi progetti di rimodernamento e riprogettazione delle fognature cittadine molti dei canali preesistenti sono stati chiusi e il riverso in mare delle acque reflue, assicurano compiaciuti i copenaghensi, avviene ormai solo in caso di nubifragi o cataclismi climatici.

L’acqua è diventata così pulita da essere stata paragonata a quella delle spiaggie più rinomate del sud dello stato. Pulita, ma così pulita, che è stato deciso di costruirci pure una spiaggia. Una spiaggia pubblica, che da quando è entrata in funzione nel 2002 è diventata uno dei luoghi di ritrovo cult della Copenhagen giovane e trendy. Vedere per credere. Una spiaggia artificiale realizzata da architetti di fama che permette ai cittadini  di tuffarsi nelle acque del porto, a due passi dalle strade pedonali del centro. E nel caso, per qualche strana congiuntura astrale le condizioni dell’acqua non fossero buone, niente paura. Un sistema di monitoraggio on-line controlla in tempo reale la qualità dell’acqua e se a sogila di sicurezza è raggiunta il bagno si chiude in un battibaleno.

La temperatura dell’acqua resterà sempre fredda, ma almeno la qualità è di un livello strabiliante, considerando che il porto nel 2008 ha ospitato più di 310 crociere che hanno scaricato in città 560.000 passeggeri.

Chiudo gli occhi e sogno di un giorno in cui potrò fare Porto Marghera – Venezia a nuoto.

Valentina



è possibile trovare un lavoro in tempo di crisi? se è verde sì. Forse.

19 02 2009

Nelle ultime ricette proclamate da politici ed economisti per combattere la recessione, un ingrediente che sembra non mancare mai, a livello mondiale, è quello di investire nelle tecnologie verdi per risollevare l’economia e soprattutto creare posti di lavoro. Obama in campagna elettorale ha parlato di 5 milioni di green collar jobs, l’UE con Barroso di un milione di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e perfino la Cgil recentemente ha presentato a Roma il suo piano per uscire dalla crisi economica che potrebbe dare lavoro a 350 mila persone.

A guardare a queste cifre, sembrerebbe che la recessione sia semplicemente l’ennesima esagerazione di giornalisti faziosi.
Per capire cosa si nasconde dentro la black-box di questi grandi numeri di posti di lavoro verdi, mi sono addentrata in un misto tra curiosità e malizia nella lettura del libro bianco dell’Onu sugli eco-lavori e dell’ultimo rapporto curato dall’autorevole World Watch Institute.

Una prima interessante considerazione da questa lettura riguarda il tipo di settori coinvolti. A livello internazionale molta attenzione è riposta nelle nuove industrie verdi. Prime fra tutte le rinnovabili che, a livello mondiale, si stima occupino già più di 2,3 milioni di lavoratori, con alti potenziali di crescita, soprattutto nel comparto dell’eolico e del solare. Ma molto importanti sono anche tutta una serie di posti di lavoro creati dalla realizzazione di macchinari e/o applicazioni a maggiore efficienza energetica e ambientale in generale, considerazione che allarga di molto lo spettro dei settori in analisi. In Germania ad esempio, tra il 2002 e il 2004, in piena crisi edilizia, sono stati creati 25.000 nuovi posti di lavoro grazie ai lavori di ristrutturazione per aumentare l’efficienza energetica e la resa ambientale.
Ad alto potenziale è anche la macro area del riciclo, che negli US si stima occupi più di 1 milione di lavoratori, in Brasile 500.000 e in Cina addirittura 10 milioni.

Per non parlare poi di tutti quei posti di lavoro legati ai servizi ambientali, un eterogeneo gruppo che spazia dall’architettura alla consulenza per la gestione dei certificati verdi, difficilmente rendicontabili così come i posti di lavoro in settori manifatturieri tradizionali, dove alcune aziende si sono re-inventate in versione green per andare incontro alla esigenze di nuove nicchie di mercato consapevoli.
Tuttavia bisogna considerare che i posti di lavoro verdi di cui si parla non sono nuovi posti creati, ma anche lavori trasformati e ridefiniti, per soddisfare la nuova domanda di servizi e prodotti ambientali, o semplicemente rinominati, senza cambiare di sostanza, per ricevere uno specifico sussidio o migliorare la propria immagine sul mercato. Perché poi se si inseriscono lavori tradizionali come quello del netturbino, dell’idraulico e dell’ingegnere nella conta dei lavori verdi, si raggiungono presto le cifre promesse ma senza aver in effetti cambiato la natura del panorama occupazionale nè la sua numerosità.

Insomma, il panorama dei posti di lavoro che ruotano intorno a tematiche ambientali è davvero ampio e sembra poter supportare le stime proposte dagli ambiziosi progetti americani ed europei, ma restano comunque degli interrogativi aperti a rallentare l’entusiasmo nel leggere i progetti di Obama e Barroso, che riguardano da un lato la correttezza delle cifre, dall’altro le modalità di gestione della transizione verso questo ampio ventaglio di occupazioni green, con relativa (ri)-qualificazione del capitale umano.
Insomma, il potenziale c’è, vedremo se le varie amministrazioni riusciranno a concretizzarlo, realizzando la promessa che la green economy diventi il nuovo volano per risollevare l’economia internazionale.

Valentina



Ambiente fa rima con Economia

30 12 2008

Perché sostenere un tipo di produzione eco-sostenibile? Climatologi, scienziati e ambientalisti hanno cominciato da tempo ad esporre le loro ragioni, evocando la necessità di un cambiamento nei modi di vita e nei sistemi produttivi per evitare conseguenze climatiche catastrofiche. Queste previsioni hanno lo stesso tono e gli stessi agghiaccianti pronostici da molto, molto tempo, ma sembrano riscuotere poco successo, sul piano concreto. Forse perché l’uomo non è programmato per vivere immaginando la catastrofe imminente, forse perché le leve dei cambiamenti hanno altri nomi, che, magari, fanno rima con Economia.
E infatti anche qualche economista si è posto la domanda del perché produrre eco-sostenibile. E le risposte sono molto interessanti, perché dimostrano che sviluppo economico e sviluppo sostenibile possono crescere contemporaneamente nella stessa direzione. Soprattutto per quanto riguarda i posti di lavoro e il rilancio di alcuni settori dell’economia che più stanno patendo le recenti vicissitudini economico-finanziarie.
Un recente studio condotto da un gruppo di ricerca della Duke University, per l’Environmental Defense Fund, l’Industrial Union Council e altri partner istituzionali di tutto rispetto, ha riportato come molti comparti manifatturieri americani potrebbero beneficiare grandemente da una produzione di tipo sostenibile. Utilizzando la metodologia delle Global Value Chain, i ricercatori hanno analizzato approfonditamente alcune tra le tecnologie che possono ridurre le emissioni aumentando considerevolmente i posti di lavoro, lo stesso obiettivo che si è posto Obama in campagna elettorale. I ricercatori di Duke si sono focalizzati su tecnologie come l’illuminazione a LED, la creazione di energia solare, tecnologie per il trattamento di rifiuti e finestre ad alto valore isolante.
Tutti i dati riguardanti questi settori sono più che incoraggianti. Prendiamo ad esempio l’azienda Cree, produttrice di tecnologie LED, che ha base in quella North Carolina specializzata in tessile e mobile che sta pagando la concorrenza cinese con un aumento della disoccupazione e la chiusura di molti stabilimenti specializzati in quei settori. In quella stessa zona, Cree ha cavalcato invece con successo l’onda verde, quadruplicando il numero di occupati dal 2002 e passando dai 228 milioni di dollari di fatturato del 2003 ai 493 del 2008, guadagnando una posizione di leadership a livello mondiale.
Ma i settori interessati da questa nuova filosofia del produrre e dai relativi vantaggi sono molto più numerosi. Basti pensare che in ognuna di queste speciali finestre ad alte performance ambientali, ad esempio, ci sono almeno 10 componenti, che provengono da fornitori che non possono che beneficiare della crescita di questo settore, che secondo il rapporto, rappresenta già il 60% del mercato totale americano.

Ma oltre ai ricercatori di Duke, molti altri studiosi e non solo si sono posti la stessa domanda, e trovando le stesse risposte, hanno cominciato ad investire in questa direzione. Come ad esempio è avvenuto in Gran Bretagna, dove nel piano governativo di rilancio economico è compreso un programma di miglioramento dell’efficienza energetica dell’edilizia pubblica e privata, settore da tempo in difficoltà, che porterebbe, oltre alla riduzione della bolletta energetica di migliaia di cittadini, anche alla creazione di oltre 10.000 nuovi posti di lavoro. O nella Germania di Audi e Bmw, dove ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto.

Insomma, produrre in modo ecologicamente sostenibile può significare anche produrre economicamente sostenibile.

Valentina



La sostenibilità sotto l’albero di Natale

15 12 2008

E’ Natale. E’ tempo di festa, vacanze, luci. E regali.

Nell’attesa di lanciarmi nelle maratone natalizie in centri commerciali e centri città per riuscire nell’ingrato compito di trovare un regalo giusto per ciascuno, mi sono lanciata in un tour di shopping on-line, incappando in un simpatico catalogo di regali per tutti i gusti. In questo periodo di crisi ogni azienda o  negoziante si sta prodigando in mille modi per far arrivare i propri prodotti sotto l’albero, reclamizzando le speciali caratteristiche del proprio prodotto. Ma i prodotti di questo catalogo hanno delle caratteristiche particolari. Sono tutti green: fatti di materiali riciclati, super minimalist o ipo energetici.
Un catalogo insomma, per chi, anche a Natale, vuole essere coerente con il proprio stile di vita eco-sostenibile, ma anche per chi vuole fare un regalo originale, che possa far contenti chi lo riceve rispettando l’ambiente ma anche i limiti del portafoglio.

Tra i regali per lei quello che mi è piaciuto di più è sicuramente la Escama Socorro Bag una borsetta da sera fatta interamente di linguette di lattine in alluminio. E poi intimo, vestiario, accessori, tutti fatti in materiali rigorosamente organici, certificati e/o riciclati. O ancora borsa in pelle riciclata, o pelle vegetale, oppure con incorporato un piccolo pannello solare, come le borse, pure fashion di Noon, che permettono di ricaricare l’i-pod o il cellulare mentre si passeggia per le vie per il centro.

Ma trovare un regalo interessante per una donna non è così difficile quanto un regalo originale da uomo. Così Inhabitat, il sito che propone questo originale catalogo natalizio, ha proposto anche un catalogo maschile, pieno di interessanti soluzioni, che mixano il design alla sostenibilità ambientale. Come la borsa porta portatile di Timbuk2 costruita in materiali chimici ma eco-intelligenti e tinta con vernici non tossiche, che tra l’altro permette una completa personalizzazione se creata attraverso il sito web. O, per gli sportivi, le tavole da snowboard fatte interamente con materiali a basso impatto ambientale e attraverso stabilimenti che usano 100% energia pulita. O le scarpe Terra Plana Aqua, fatte con una serie di diversi materiali riciclati. Ma il top secondo me sono i gemelli fatti con i tasti di vecchie macchine da scrivere, con la possibilità di personalizzarli con le proprie iniziali. Menzione speciale per la simpatia a quello che è definito il compagno ideale di un uomo: un improbabile gadget che funziona da pila e da radio insieme, che si alimenta con l’energia solare o… a manovella!

Chi l’ha detto che ci sono pochi prodotti eco-sostenibili, o che non sono già commercializzati?

Secondo le guide del blog Inhabitant, Babbo Natale quest’anno potrà scegliere tra moltissimi regali che rispettano l’ambiente, e anche senza strapazzare troppo il portafoglio. Per chi fosse interessato, suggerisco una lettura del catalogo dei prodotti eco sotto i 20$: vedere per credere. Insomma, la sostenibilità ambientale nei prodotti di tutti i giorni è ormai una realtà diffusa: anche Babbo Natale è avvisato.

Valentina



Un giorno a Ecomondo

11 11 2008

Venerdì, dopo un viaggio lungo e avventuroso, ho visitato Ecomondo, fiera internazionale del recupero della materia ed energia e dello sviluppo sostenibile, arrivata quest’anno alla dodicesima edizione. Ecomondo rappresenta il principale punto di incontro per operatori del settore dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del riciclaggio e più in generale dei servizi per risolvere i complessi e specifici problemi ambientali.

Al di là delle immancabili novità tecnologiche, il primo dato che mi sono portata a casa sono stati i numeri dell’evento: a sentire gli organizzatori, il numero di espositori è addirittura raddoppiato dall’anno scorso e dalla coda alle casse, posso testimoniare che anche il numero di visitatori (non solo italiani) ha viaggiato su delle belle cifre (quasi 65.000 secondo i responsabili). Numerosi sono stati anche i convegni e i seminari, che hanno coinvolto il mondo accademico  quello industriale. Mi sembra questo possa essere già un indicatore interessante dello stato di salute del settore green (in questa fiera limitato alle aziende manifatturiere o di servizi specializzate prettamente nella getione di rifiuti, emissioni, energia,…) a conferma che è un settore che non solo “tiene”, risultato già ottimo in tempi di crisi finanziaria e recessione, ma che anche cresce, sia in termini di fatturato che di addetti.

Altro dato interessante, agli occhi di un ricercatore curioso, è il numero di nuovi settori e tipologie di aziende che sono nati, in risposta alle problematiche e opportunità legate alla gestione ambientale. Probabilmente moltissime delle aziende che esponevano, fanno parte di comparti industriali che fino ad una decina di anni fa nemmeno esistevano. Prediamo ad esempio il settore della gestione dei rifiuti. Ci sono moltissime e diverse aziende nella catena del valore del rifiuto, che comprende fasi di raccolta, differenziazione, estrazione e divisione dei singoli materiali, trasporto, vendita, fino al riutilizzo e riciclaggio del materiale stesso. Tutte fasi di produzione che spesso fanno capo ad aziende distinte che negli ultimi anni hanno saputo sviluppare le nuove competenze necessarie, trasformando un problema in un’occasione di business.

Una delle cose che mi aveva incuriosito di più all’ingresso della fiera sono stati l’isola degli acquisti e il supermarket ecologico, un ala della fiera allestita a supermercato, con tanti di scaffali, con esposti un gran numero di prodotti di largo consumo e non ecologici. Al di là dell’opportunità o meno di incollare questa etichetti ad alcuni dei prodotti esposti, questo eco-store è stato un interessante conferma del fatto che il “comparto ambientale” non riguarda solo tecnologie e prodotti specifici, ma abbraccia anche settori completamente lontani, da prodotti di largo consumo a settori più tradizionali come l’abbigliamento e l’arredamento. Adesso come adesso ci sono prodotti ecologici -per le materie prime che utilizzano, piuttosto che per il packaging, per la possibilità di ri-utilizzo o per la bio-degradabilità- per tutti i gusti. Dentifrici che sembrano scatole di majonese, penne usb in mater-bi, piatti e bicchieri di plastica biodegradabili, quaderni in carta riciclata. Ma anche distributori automatici di detersivo, alberghi eco-sostenibili e “arbre-magique” 100% naturali. La gamma di prodotti che rispettano l’ambiente e davvero ampia e, più interessante, in continuo aumento, segno che questo comparto è uno dei pochi a non patire la crisi, e non solo in settori alto di gamma.

Il sistema industriale italiano sembra avere tutte le carte in regola per primeggiare in questo comparto, facendo leva sulle sue notorie competenze manifatturiere, sulla capacità di innovare e la capacità di comprendere i mercati finali. Ad Ecomondo hanno esposto molte aziende italiane che hanno scommesso in questa direzione, vedremo se il mercato premierà la loro strategia.

Valentina



Aziende e ambiente secondo il rapporto ISTAT

13 06 2008

Per la prima volta nella storia del rapporto annuale ISTAT, il capitolo che analizza le imprese prende in considerazione alcuni aspetti ambientali delle attività produttive, dedicando un approfondimento focalizzato sull’evoluzione quantitativa e qualitativa della spesa delle imprese per i servizi ambientali. Il rapporto parte da una prima distinzione di base tra le aziende il cui business è proprio la produzione e la vendita di servizi ambientali e le aziende che, invece, auto-producono servizi ambientali nel senso che svolgono attività per ridurre emissioni e inquinamento generate dalle proprie attività produttive specifiche. Un punto di vista interessante che guarda sia allo sviluppo di un nuovo settore, che all’evoluzione verso atteggiamenti più sostenibili di aziende fino a qualche anno fa totalmente straniere a queste materie e che rappresentano il tessuto produttivo italiano, dal tipico Made in Italy a, e soprattutto, l’industria pesante.

Per quanto riguarda il primo gruppo, cresce soprattutto il comparto della gestione dei rifiuti (che rappresenta il 0,33% del PIL, con un aumento del 32,7% del valore aggiunto in termini di PIL dal 1997 al 2006). Ancora più interessante è notare come, a differenza di quanto accadeva 10 anni fa, più dell’80% di questi soggetti sono aziende private, non utilities legate alle pubbliche amministrazioni. Insomma, scommettere nell’ambientale paga, e sempre più aziende si stanno ricavando uno spazio in questo settore.

Ma non per tutti i servizi ambientali specializzati sono rose e fiori. Il comparto delle imprese fornitrici di servizi idrici ha subito, dal 1997, una flessione del 4,5% di valore aggiunto in termini di PIL. Perchè questa controtendenza?
Perchè sempre di più le aziende italiane, le concerie di Arzignano o i produttori di piastrelle di Sassuolo hanno cominciato ad internalizzare i servizi ambientali, spendendo sempre di più in attività per la protezione dell’aria e del clima.

Chi sono dunque le aziende che si occupano di eco-sostenibilità in Italia? Secondo il quadro che ci fornisce ISTAT, il panorama italiano è più variegato di quello che ci si potrebbe aspettare: i servizi per la protezione dell’ambiente non sono più puro appannaggio di specialisti, pubblici o privati. Sempre di più, chi investe nella tutela dell’ambiente sono le aziende che compongono il tessuto produttivo tipico italiano, che sviluppano competenze interne per ridurre l’impronta ecologica della loro produzione.



Questo pacco non s’ha da fare!

10 03 2008

Dopo le nuove polemiche sul ritorno dei rifiuti in centro a Napoli, si riaccende la polemica sull’emergenza rifiuti.
Anche in questo ambito, si può dire valga il vecchio detto: “prevenire è meglio che curare”. Perfino nel capoluogo campano se ne sono accorti, tanto che le amministrazioni si sono prodigate in promesse (elettorali o meno, sarà da verificare) su un fantomatico inizio della raccolta differenziata dei rifiuti. Visto che le discariche non le vuole nessuno (o quasi) e che neppure lo smaltimento dei rifiuti tramite inceneritori o altro non gode di grandi simpatie, la soluzione per far contenti tutti sempre stia a monte, riducendo la produzione dei rifiuti.

Un primo modo per iniziare in questa direzione è quello di ridurre l’utilizzo di imballaggi, che danneggiano l’ambiente ma anche il portafoglio. Gli imballaggi, che generano ogni anno 12 milioni di tonnellate di rifiuti in Italia, con un aumento del 9% rispetto al 2000, rappresentano anche un costo importante, soprattutto nei prodotti commodity. Secondo un recente rapporto della Coldiretti, infatti, senza imballaggio il prezzo dei prodotti (alimentari) potrebbe diminuire del 30%. I casi più clamorosi citati nel rapporto sono quelli di lattuga e pomodori: il primo passa da 1,5 euro a 8 per il solo confezionamento e lavaggio, il secondo riserva all’imballaggio una percentuale doppia di quello che è il guadagno del produttore.

Il rapporto si concentra solo nel settore alimentare, non restituendo quindi un immagine completa del problema, ma se si pensa che gli alimentari sono i responsabili del due terzi del totale della produzione di rifiuti da imballaggio è facilmente immaginabile l’ampio margine di guadagno che si potrebbe ottenere con una gestione più oculata del packaging.

Insomma, ridurre l’utilizzo di imballaggi, senza incidere sulla capacità di proteggere il prodotto, è un modo di ridurre la produzione di rifiuti che potrebbe far ridurre, in modo anche considerevole, pure la spesa dell’italiano medio. Dunque che cosa non funziona in Italia se ancora questi risultati non sono stati raggiunti?

Valentina



Questa zuppa sa di plastica

9 02 2008

E’ stata scoperta da una decina d’anni ma ha ottenuto il suo momento di notorietà solo ora. Messa in prima pagina dall’Indipendent ha attirato la mia attenzione quando è approdata anche su quella del Metro di Padova: il nuovo disastro ambientale, quello che i biologi marini chiamano la zuppa di plastica, ha guadagnato l’attenzione davvero di tutti i giornali.
Questa zuppa, è una massa di spazzatura di plastica, scoperta quasi per caso nell’oceano Pacifico da un ricco ereditiero sfaccendato, Charles Moore, che ha formato una fondazione per combatterla.

Una zuppa riscaldata a dire il vero: non è una novità che l’oceano sia diventato una discarica più o meno abusiva che raccoglie spazzatura proveniente da navi e pozzi petroliferi ma anche e soprattutto dalle zone costiere. La differenza sta solo nella dimensione. Le due masse individuate, sono come delle isole, una un po’ più grande, a est delle Hawaii e l’altra, più piccola, a ridosso del Giappone sono costituite da un totale di 100 milioni di tonnellate di plastica che si estende per 500 miglia nautiche. Una massa che, nessuno dubita, continuerà ad aumentare nei prossimi anni.

Un altro disastro che richiama l’attenzione sulla necessità di porre attenzione alle preservazione dell’ambiente e sulla necessità di una gestione più accurata del ciclo dei rifiuti.
Anche e soprattutto in Italia, dove, aldilà dell’urgenza campana, i dati dell’ultimo rapporto APAT confermano che la produzione nazionale di rifiuti continua a crescere e si attesta, nel 2006, a 32,5 milioni di tonnellate, 2,7% in più dell’anno precedente, con un aumento più consistente, a sorpresa, nel Nord.
E la raccolta differenziata è ancora lontana dall’obiettivo del 40%. A livello nazionale, infatti, rappresenta solo il 25,8% della produzione totale dei rifiuti urbani, troppo poco in più rispetto al 24,2% del 2005. E’ soprattutto il divario tra le diverse macro geografiche a pesare sul conto totale; infatti, mentre il Nord vanta un tasso di raccolta pari al 40%, il Centro ed il Sud, con percentuali rispettivamente pari al 20% ed al 10,2%, risultano ancora decisamente lontani dall’obiettivo proposto per legge.

Riuscirà un aumento della raccolta differenziata a salvarci dalle zuppe di plastica e dalle montagne di rifiuti?
Una verifica dei dati su Venezia, intanto, dà risultati scoraggianti: a Venezia rappresenta solo il 16,9% sul totale dei rifiuti, contro il 41,1% di Padova.

Valentina