E se fosse proprio il territorio il laboratorio di una rivoluzione energetica incentrata sulle rinnovabili?

23 03 2010

Per evitare di essere accusata di plagio, lo dico già nelle prime righe. La frase del titolo non è mia ma è ripresa dall’ interessante introduzione di Edoardo Zanchini an un altrettanto interessante rapporto di Legambiente sul rapporto dei comuni italiani con le fonti di energia alternativa.

Fonti amientaliste e politiche stanno da anni cercando di spingere un modello di produzione di energia distribuita puntando sui singoli individui, nella speranza che un condizionamento culturale e qualche incentivo in ordine sparso possa convincere grandi masse di cittadini a sostenere investimenti a medio lungo termine per installare impianti di energia alternative. Un approccio bottom up che coinvolga il maggior numero di cittadini è sicuramente auspicabile, intendiamoci. Forse però non sempre efficace, visto il ridotto numero di impianti installati dalle famiglie italiane, soprattutto rispetto ai risultati ottenuti in altre nazioni (e.g., Germania) che pure non godono come noi delle fonti di energia rinnovabile, sole in primis. Il problema, è che da un lato lo Stato non può o non riesce a farsi carico di una ristrutturazione completa del sistema di approviggionamento energetico, dall’altro la singola famiglia fatica a superare le logiche di breve termine per installare un impianto che garantirà da subito vantaggi ambientali e sociali in genere, ma economici solo nel medio-lungo termine. Il quadro legislativo ed economico incerto non contribuisce certo a favorire la situazione.

Il recente rapporto “Comuni Rinnovabili 2010” curato da Legambiente ci ricorda che c’è un attore, tra la politica politicante e le scelte del singolo cittadino, che può facilitare il passaggio alle energie pulite: l’ente locale. Un ruolo che non è solo potenziale ma è già realtà in molte zone d’Italia. I dati parlano chiaro; sempre più comuni, un po’ per far cassa in periodi di ridotti finanziamenti nazionali, un po’ per contribuire a rivitalizzare l’economia locale e migliorare le condizioni ambientali, hanno investito in pannelli solari o impianti di energia geotermica, che in alcuni casi riescono a soddisfare interamente il fabbisogno dei loro cittadini. 6.993 hanno già installato almeno un impianto e il trend rispetto agli anni scorsi sembra molti incoraggiante: solo un paio di anni fa erano meno della metà. Il fotovoltaico è quello che va per la maggiore, ma alcuni comuni si sono cimentati anche nell’istallazione di impianti eolici (297), geotermia (181) o idroelettrici (799). Già 15 comuni sono riusciti a coprire l’intero fabbisogno energetico, in termini sia di elettricità che di riscaldamento dei propri cittadini.

Non stupisce che il caso più emblematico sia in provincia di Bolzano, che dispone di più di 960 metri quadri di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli fotovoltaici (per 1800 abitanti, ndr) diffusi sui tetti di case e aziende, ma farà piacere sapere che, almeno in questo caso, non sono solo le regioni del Nord ad aver colto la sfida economica ancora prima che ambientale, delle rinnovabili. La mappa della diffusione degli impianti rinnovabili mostra un interessante coinvolgimento di comuni e provincia in tutto il territorio nazionale, pur scontando comprensibili differenze riguardo le singole tecnologie:Biomasse, Idroelettrico e Solare Termico sono più diffuse nel centro-nord, mentre solare ma soprattutto eolico sembrano punti di forza soprattutto del centro-sud.

Al di là dei dati sulle singole tecnologie mi sembra interessante rilevare il ruolo emergente del territorio come attore principale del cambiamento verso un modello ad energia pulita. Gli enti locali possono rappresentare l’anello mancante per implementare questo modello virtuoso, superando i limiti cui incorre il singolo – permettendo vantaggi di scala e una migliore gestione della burocrazia legata ai nuovi impianti – e il regolatore – grazie alle più gestibili dimensioni e alla maggiore conoscenza del territorio, del suo potenziale e delle sue necessità.

Valentina



Il verde che c’è ma non si vede

24 11 2009

Qualche settimana fa abbiamo parlato del fatto che l’attenzione all’ambiente stia diventando un trend in alcuni settori tanto che tutte le aziende si stanno volgendo in un modo nell’altro in questa direzione. In particolare vi avevo raccontato delle testimonianze di professori, imprenditori, rappresentanti istituzionali che avevo ascoltato ad una convention sul futuro del settore legno arredo, concludendo che, almeno in quel settore, il raggiungimento di obbiettivi di riduzione degli impatti sull’ambiente sembrava ormai cosa fatta.

Da brava ricercatrice, non mi accontento però delle cose che mi vengono raccontate e mi piace andare a verificare l’arrosto dietro al fumo. La convention, FUTSU, era ospitata all’interno di SICAM, fiera internazionale di componenti, semilavorati e accessori per l’industria del legno-arredo. Quale miglior occasione per verificare se effettivamente portafogli prodotti e processi produttivi delle aziende siano stati modificati per considerare anche gli impatti ambientali?

Munita di taccuino e curiosità mi sono addentrata tra gli stand degli oltre 400 espositori, un viaggio tra i protagonisti del legno arredo italiano che merita raccontare. Oggetto della mia missione in codice era quello di verificare quanti espositori parlassero di sostenibilità ambientale nei loro stand o nelle loro brochure e, nel caso, di cosa effettivamente si trattasse.

Il mio primo avvistamento è un incontro del terzo tipo. Tra le righe della brochure di una piccola azienda di pannelli trovo la menzione “ecologico” tra le caratteristiche di prodotto. Mi avvicino con un gran sorriso al venditore che mi spiega che il loro prodotto è ecologico perchè usa legno e non plastica. Insomma, non è veramente ecologico, ma … cosa non si mette nelle brochure per fare una buona impressione! Comunque, aggiunge il venditore, forse leggendo il mio disappunto, per il futuro stanno cercando di sviluppare nuovi prodotti, questi sì ecologici, utilizzando pellami di riciclo.

Passata oltre, ho cominciato a segnare sul mio taccuino i nomi delle aziende nei cui stand vedevo apparire anche solo un apparenza di verde ed ecologico. Il resoconto è, a prima vista, avvilente. Dei 400 espositori la mia lista non contiene più di dieci aziende. Come interpretare questo dato?

Una prima ipotesi è che quanto ho ascoltato alla convention fosse solo fumo e non ci sia nessun arrosto serio sotto. Che quella della sostenibilità ambientale insomma, sia solo una trovata d’immagine, che tutti dicono di prendere in considerazione se specificatamente interpellati, ma che non gioca poi nessun ruolo concreto nelle scelte di sviluppo di nuovi prodotti o come fattore importante d’acquisto. Ma troppe fonti, dal mercato alla politica alla ricerca indicano nella direzione opposta per poter credere appieno a questa tesi.

La vera chiave interpretativa per capire questa differenza sta secondo me invece nella poca capacità delle nostre PMI di settori tradizionali di comunicare il loro approccio ambientale. Poche delle aziende che hanno intrapreso un percorso di sostenibilità lo comunicano ai propri clienti e consumatori. Se in generale le aziende italiane hanno ancora poche competenze nella comunicazione, questo problema è ancora più sentito quando si tratta di far leva sulle caratteristiche green dei propri prodotti. Alcune aziende usano le certificazioni (come la ISO14001 o l’Ecolabel) come segnale del proprio atteggiamento sostenibile, ma per poter usufruire appieno delle potenzialità di mercato legate alla sostenibilità ambientale un logo stampato sul prodotto non sembra sufficiente e una comunicazione più mirata è sicuramente indispensabile. Come ha fatto la friulana Copat, che da quando ha deciso di controllare la propria impronta sull’ambiente ha deciso di fare di questi aspetti parte integrante del proprio sforzo comunicativo.

Insomma, per poter parlare di strategia vincente, che coniughi ambiente ed economia, non serve parlare solo di azioni di sostenibilità, ma anche di come queste vengano poi comunicate ai propri consumatori in modo che le aziende possano trarne il relativo premium price o comunque ritorno d’immagine.

Valentina



Sostenibilità: un trend nel settore del legno-arredo

19 10 2009

Venerdì sono stata a FUTSU, convention dedicata agli ultimi aggiornamenti sull’industria del legno-arredo. L’evento, organizzato dal Consorzio Universitario di Pordenone, è stato strategicamente realizzato in concomitanza con il salone internazionale dei componenti e accessori per il mobile, il SICAM, a Pordenone.

Molti i diversi relatori che si sono susseguiti sul palco, provenienti sia dal mondo aziendale che della ricerca o dell’università. L’intenso e pretenzioso programma era stato suddiviso in quattro macro sezioni (ambiente, IT, nuovi materiali, trend globali) che declinassero in modo diverso ma complementare quali siano le nuove sfide e prospettive per gli attori del comparto.

aziendale con il tema del rispetto dell’ambiente.Una rassegna nel nome della sostenibilità ambientale, come è stato chiaro già dalla scelta dello speaker che ha introdotto FUTSU, Gabriele Centazzo, l’imprenditore di Valcucine noto per aver legato il suo successo. Nonostante fosse teoricamente l’argomento solo della prima sessione, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono stati in qualche modo il lait motiv dell’intera giornata. Non solo discutendo di strategie di comunicazione e innovazione (con le testimonianze di COPAT e IKEA e i rapporti di Federlegno Arredo) ma anche affrontando i temi dei nuovi materiali, vuoi perchè realizzati a partire da materiali riciclati, vuoi perchè realizzati riducendo l’impiego di energia e materie prime fossili, vuoi perchè implichino processi di produzione meno impattanti sull’ambiente.

La ricorrenza delle tematiche della sostenibilità sembra essere un indice del fatto che essa rappresenta uno dei trend principali che sta motivando l’innovazione nel settore. Un elemento che è emerso da quasi tutte le relazioni che hanno toccato questi temi è che essenziale per lo sviluppo e il successo di innovazioni sostenibili è in primo luogo la conoscenza e poi la consapevolezza, sia da parte dei consumatori che delle aziende stesse. In questo senso le certificazioni ambientali si sono dimostrate un utile strumento, nelle parole delle aziende e dei rappresentanti del distretto o delle associazioni industriali, per monitorare le proprie performance ambientali e per comunicarle ai consumatori. Conoscenza, indispensabile per realizzare le innovazioni sostenibili, che spesso viene costruita insieme a soggetti esterni all’impresa: fornitori o KIBS, come il CATAS, centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove specializzato nel settore legno-arredo.

Altro aspetto importante e complementare sottolineato da molti speakers è quello dell’importanza del considerare tutti gli attori della catena del valore per poter realizzare innovazioni che riducano concretamente l’impatto sull’ambiente, rispettando la legislazione e facendo leva su queste tematiche sul mercato finale. Mi ha stupito molto che soggetti diversi si siano indirizzate nel sottolineare l’importanza del Life Cycle Thinking: per essere sostenibili è importante selezionare, gestire e controllare anche le fasi a monte e a valle del proprio processo produttivo. Indispensabile in questo senso è la funzione del design, che ad esempio può concepire una cucina in cui tutti i componenti siano facilmente separati gli uni dagli altri, per favorire il riciclo alla fine del ciclo di vita, come l’ultima cucine Valcucine.

Anche il ruolo dei nuovi materiali sembra essere una frontiera promettente per l’innovazione sostenibile nel settore del mobile. I bio-polimeri sembrano essere una tecnologia già in grado di sostituire gli equivalenti a base fossile, senza troppi investimenti nei processi produttivi esistenti, per realizzare prodotti quali le schiume o le vernici.

Insomma, non è sempre vero che le tecnologie alternative non sono già disponibili. Piuttosto forse, esiste un problema di comunicazione e di mancanza di informazioni. Quello che è sicuro, invece, è che in un settore importante per l’economia italiana come quello del legno-arredo innovazione fa sempre più spesso rima con sostenibilità ambientale.

Valentina



Dalla crisi allo sviluppo (sostenibile): c’è posto per l’Italia?

8 06 2009

Sempre di più si sente parlare del potenziale economico dei green jobs. Per alcuni sembrano essere gli unici lavori che riusciranno a tenere anche in tempo di crisi. Per altri rappresentano un maquillaque definitorio per ottenere finanziamenti da enti pubblici, avidi di investire in progetti etico-buonisti per rabbonire la folla di elettori inbufaliti dalla disastrata situazione economica e dalle scarse prospettive future.

In un altro post abbiamo già cercato di capire cosa si nascondesse dietro a questo nome intuitivo quanto generico e ci siamo stupiti a commentare gli elevati posti di lavoro che il settore delle rinnovabili, della gestione dei rifiuti e legati al raggiungimento dell’efficienza energetica impiegano e impiegheranno a livello mondiale.

Ma quale ruolo gioca l’Italia in questo nuovo scenario?

La domanda è più che legittima. Lo sviluppo green sembra essere infatti maggiormente uno sviluppo hi-tech, legato alla produzione di nuove sofisticate tecnologie o, anche se legate a tecnologie ormai consolidate come quella del fotovoltaico, in cui non abbiamo competenze nelle lavorazioni principali (silicio in primis). L’Italia, si sa, non è mai stata famosa per le innovazioni hi-tech: le competenze che per anni hanno fatto brillare la nostra stella nel mondo sono competenze manifatturiere, al limite dell’artigianale, in settori low-tech. Ovviamente questa è una fotografia statica, che guardando all’aggregrato dimentica i vari casi di successo legati al settore del multimediale, le innovazioni in nano tecnologie e le aziende italiane che si sono affermate con innovazioni hi-tech radicali. Ma questi casi di successo sono ancora in minoranza, soprattutto se confrontati con realtà come quella tedesca e americana.

Dobbiamo quindi dedurre che l’Italia sia fuori da questo possibile miracolo economico verde?

Uno studio recentemente realizzato del centro IEFE dell’università Bocconi per il Gestore dei Servizi Elettrici ha analizzato il potenziale occupazionale ed economico legato allo sviluppo e alla produzione delle rinnovabili in Italia. Lo studio individua tre possibili scenari, in base alla capacità del tessuto industriale nazionale di accettare la sfida tecnologica e concorrenziale.
Nel peggiore degli scenari gli studiosi dello IEFE prevedono un livello occupazionale che non potrà superare le 100.000 unità in 12 anni, con un alta dipenenza dall’estero per la tecnologia, importata per il 70% del fabbisogno interno.

Nello scenario di mezzo invece i ricercatori IEFE prevedono una situazione in cui gli imprenditori italiani accolgano la sfida in modo parziale. L’idea è che il fabbisogno di tecnologie pulite sia coperto specialmente da aziende specializzate in tecnologie “convenzionali” che diversificano il portafoglio prodotti con nuove tecnologie rinnovabili, andando a coprire quindi il 50% del mercato con la produzione nazionale.

Nel migliore dei casi invece è fatta la previsione di uno spostamento del manifatturiero italiano verso la filiera produttiva delle tecnologie rinnovabili, coprendo fino al 70% del mercato nazionale. Il fatturato previsto nei 12 anni, tempo soglia per raggiungere gli obbiettivi fissati dalla direttiva europea 20-20-20, toccherebbero soglia 70 miliardi, attraverso l’impiego di 175.000 occupati.

Il passaggio ad un economia pulita non può avvenire di colpo, con una ristrutturazione istantanea ed indolore del tessuto manifatturiero esistente. Riconoscere i costi e i tempi di questo passaggio è un primo passo essenziale per intraprendere una strada concreta in questa direzione. E tuttavia, in un’ottica di medio-lungo termine, quello che anche lo stuio IEFE ci suggerisce è che è possibile contare su una sinergia tra le competenze e la base produttiva esistente e le nuove tecnologie che sempre di più il mercato richiederà, spinto dall’azione costante del legislatore. La scorsa settimana ho assistito ad un convegno in cui si è affrontato il tema della crisi che sta colpendo il sistema industriale italiano e alcuni comparti, come il meccanico, in particolare. Il rapporto IEFE suggerisce che una valorizzazione mirata delle competenze esistente, mescolata con una coraggiosa “distruzione creativa” possono portare anche l’Italia low tech a competere con successo in un mercato, quello delle green tecnology, che si presenta come altamente redditizio.

Valentina



Un giorno a Ecomondo

11 11 2008

Venerdì, dopo un viaggio lungo e avventuroso, ho visitato Ecomondo, fiera internazionale del recupero della materia ed energia e dello sviluppo sostenibile, arrivata quest’anno alla dodicesima edizione. Ecomondo rappresenta il principale punto di incontro per operatori del settore dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del riciclaggio e più in generale dei servizi per risolvere i complessi e specifici problemi ambientali.

Al di là delle immancabili novità tecnologiche, il primo dato che mi sono portata a casa sono stati i numeri dell’evento: a sentire gli organizzatori, il numero di espositori è addirittura raddoppiato dall’anno scorso e dalla coda alle casse, posso testimoniare che anche il numero di visitatori (non solo italiani) ha viaggiato su delle belle cifre (quasi 65.000 secondo i responsabili). Numerosi sono stati anche i convegni e i seminari, che hanno coinvolto il mondo accademico  quello industriale. Mi sembra questo possa essere già un indicatore interessante dello stato di salute del settore green (in questa fiera limitato alle aziende manifatturiere o di servizi specializzate prettamente nella getione di rifiuti, emissioni, energia,…) a conferma che è un settore che non solo “tiene”, risultato già ottimo in tempi di crisi finanziaria e recessione, ma che anche cresce, sia in termini di fatturato che di addetti.

Altro dato interessante, agli occhi di un ricercatore curioso, è il numero di nuovi settori e tipologie di aziende che sono nati, in risposta alle problematiche e opportunità legate alla gestione ambientale. Probabilmente moltissime delle aziende che esponevano, fanno parte di comparti industriali che fino ad una decina di anni fa nemmeno esistevano. Prediamo ad esempio il settore della gestione dei rifiuti. Ci sono moltissime e diverse aziende nella catena del valore del rifiuto, che comprende fasi di raccolta, differenziazione, estrazione e divisione dei singoli materiali, trasporto, vendita, fino al riutilizzo e riciclaggio del materiale stesso. Tutte fasi di produzione che spesso fanno capo ad aziende distinte che negli ultimi anni hanno saputo sviluppare le nuove competenze necessarie, trasformando un problema in un’occasione di business.

Una delle cose che mi aveva incuriosito di più all’ingresso della fiera sono stati l’isola degli acquisti e il supermarket ecologico, un ala della fiera allestita a supermercato, con tanti di scaffali, con esposti un gran numero di prodotti di largo consumo e non ecologici. Al di là dell’opportunità o meno di incollare questa etichetti ad alcuni dei prodotti esposti, questo eco-store è stato un interessante conferma del fatto che il “comparto ambientale” non riguarda solo tecnologie e prodotti specifici, ma abbraccia anche settori completamente lontani, da prodotti di largo consumo a settori più tradizionali come l’abbigliamento e l’arredamento. Adesso come adesso ci sono prodotti ecologici -per le materie prime che utilizzano, piuttosto che per il packaging, per la possibilità di ri-utilizzo o per la bio-degradabilità- per tutti i gusti. Dentifrici che sembrano scatole di majonese, penne usb in mater-bi, piatti e bicchieri di plastica biodegradabili, quaderni in carta riciclata. Ma anche distributori automatici di detersivo, alberghi eco-sostenibili e “arbre-magique” 100% naturali. La gamma di prodotti che rispettano l’ambiente e davvero ampia e, più interessante, in continuo aumento, segno che questo comparto è uno dei pochi a non patire la crisi, e non solo in settori alto di gamma.

Il sistema industriale italiano sembra avere tutte le carte in regola per primeggiare in questo comparto, facendo leva sulle sue notorie competenze manifatturiere, sulla capacità di innovare e la capacità di comprendere i mercati finali. Ad Ecomondo hanno esposto molte aziende italiane che hanno scommesso in questa direzione, vedremo se il mercato premierà la loro strategia.

Valentina



L’Italia in prima fila sul clima

20 10 2008

Siamo abituati a leggere le notizie che riguardano la tutela dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile nell’appedice dei giornali, affiancate alle pagine che recensiscono gli ultimi best-seller usciti in libreria o le prodezze di Ronaldinho. Da una settimana, invece, l’argomento ha guadagnato stabilmente le prime pagine dei giornali grazie alle vicende legate all’approvazione del pacchetto clima europeo. L’Italia in particolare sta tenendo banco ai vari vertici europei, mantenendo un clima di incertezza su quelli che saranno gli esiti del pacchetto che dovrebbe perpetuare gli impegni assunti già a Kyoto, prevedendo una riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020. Ma per capire il perchè di tanto fermento e dell’incertezza sugli esiti del consiglio dei ministri dell’ambiente di oggi e degli altri meeting europei dovuti alle politiche italiane, una breve cronistoria della vicenda può essere utile.

Il primo segnale risale già al 14 settembre, quando la presidentessa di confindustria ha dichiarato guerra aperta a questo pacchetto, che produce “danni enormi alle economie in cambio di benefici infinitesimali per l’ambiente”. La seconda tappa di questa breve cronistoria riguarda l’eco di questa polemica riportato in sede europea dal Presidente del Consiglio italiano, che ha invocato una riduzione degli oneri in capo alle imprese in vista della grave crisi economico-finanziaria che stanno attraversando i paesi, che è sfociato negli ultimi giorni nella scelta di guidare un quantomeno eterogeneo fronte del no, che mira ad un rinvio e/o a delle modifiche. Il fatto è che gli altri paesi, o almeno le economie europee più avanzate, nonostante vivano nella stessa epoca storica, non sono affatto dello stesso parere, anzi.

Molti leader europei si sono esposti chiaramente a riguardo: la tutela dell’ambiente non è necessariamente solo un costo. Parte della querelle innescata dalle posizioni italiane in sede europea riguarda proprio anche la questione numeri. Secondo alcuni i dati presentati da industriali e governo sui costi del pacchetto per le aziende non tengono conto dei vantaggi che questo pacchetto può apportare, che alleggerirebbero quindi il conto totale a carico delle aziende. Non solo. E non tanto perchè, come concorda tutta la comunità scientifica, la lotta ai cambiamenti climatici non è più rinviabile, tanto per un motivo prettamente economico. La carta della leadership nell’economia pulita potrebbe rappresentare infatti uno (dei pochi possibili) assi nella manica per le economie europee, posizionandole su un business in grado di proiettarle nel futuro prossimo con un vantaggio economico da giocarsi contro gli agguerriti competitor internazionali. L’economia pulita è considerata secondo molte autorevoli voci la bolla che può salvarci dalle bolle (finanziarie,…) subite finora, il mezzo per rialzare l’economia mondiale insieme alle sorti del pianeta. Per concludere con Zapatero: “la crisi internazionale non deve portarci a fare passi indietro: ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e ridurre l’inquinamento non è un problema ma una via d’uscita, una soluzione”.

Quello che questa vicenda ci segnala è che la tutela dell’ambiente non è un argomento né secondario né slegato dalle sorti economiche degli stati. Vedremo se l’Unione Europea sarà in grado di raccogliere questa opportunità, sfidando le inerzie per proiettarsi nel futuro.

Valentina



Consumo biologico

18 09 2008

In tempi di crisi economico-finanziarie e rincari di benzina e beni alimentari c’è comunque un settore che non soffre e non perde quote di mercato: quello del biologico. Nome altisonante e un po’ fumoso che racchiude tutti quei coltivatori e produttori che rispettano un sistema di coltivazione che rispetta l’ambiente e gli animali, bandendo l’utilizzo di pesticidi e metodi di allevamento intensivi. Prodotti spesso certificati e controllati da vari enti di controllo, sempre di prezzo maggiore rispetto ai diretti concorrenti “non-bio”.

In Italia sembriamo essere particolarmente attenti e attivi in questo settore: secono dati IFOAM del 2005 le aziende biologiche italiane rappresentano il 37,7% sul totale europeo, mentre la superficie coltivata sul totale EU è del 27,7%. Non male se ci pensa alla differenza di dimensioni dell’Italia rispetto ad altri colossi dell’agricoltura in Europa quali Francia e Polonia. E i consumatori? Secondo dati elaborati dall’osservatorio su benesssere e salute che GPF conduce per Sana, tre italiani su cinque possono considerarsi consumatori sia pure occasionali di singoli prodotti biologici, mentre gli afecionados sono uno su sei. Non sorprenderà sapere che la maggiorparte dei prodotti biologici consumati sono frutta e verdura (61% e 64% sul totale) seguiti da altre commodity quali uova (34%), olio (27%) ma anche yoghurt, latte e miele. Più interessante può risultare invece scoprire il perchè un numero così elevato di consumatori sia disposto a sfidare la grande differenza di prezzo (contando anche la non sempre sicura provenienza e qualità del prodotto, secondo i detrattori) pur di acquistare un prodotto bio. Ebbene, sempre secondo la ricerca condotta dall’osservatorio di Giampaolo Fabris, la motivazione principale è la ricerca di una maggiore sicurezza o garanzia (79%) (alla faccia di mozzarelle alla diossina e passate di pomodoro avvelenate), seguita dalla ricerca di un prodotto più sano (per il 50% degli intervistati) e infine più buono (19%).

Visti i numeri, sembra che il fenomeno biologico non coinvolga più solo una piccola nicchia di mercato di ecologisti e vegani convinti, almeno per alcune classi di prodotto. Che le motivazioni non siano più solo o non più tanto ideologiche ma anche che l’Italia gioca un ruolo importante in questa partita, sia come paese produttore che come paese consumatore.

Valentina



Spring Color, ovvero della vernice al latte

20 06 2008

Negli ultimi periodi si è assistito ad un proliferare di prodotti biologici, ecologici o presunti tali, di marchi e certificazioni e ad un allargamento trasversale del numero di produttori che si muovono in direzioni ecologiche e sostenibili. E una delle motivazioni principali che induce una domanda sempre più consistente a sostenere questi comparti è l’attenzione alla salute. Una sensazione di diffidenza e preoccupazione sulla salubrità dei prodotti di cui si circonda ogni giorno cresce tra i consumatori, giustificata ed alimentata da scandali quali quelli della mozzarella alla diossina o dei giocattoli tossici cinesi, che chiede a gran forza una maggiore trasparenza d’informazione e più sicurezza.

E’ a questi bisogni che Spring Color risponde. Produttrice marchigiana a conduzione familiare di vernici e pitture, ha riconvertito completamente la propria produzione al naturale dopo aver sperimentato sulla pelle degli stessi proprietari, quali siano gli effetti nocivi dell’utilizzo di componenti chimici nella produzione di pigmenti, calci e vernici, che colpiscono anche chi, come ognuno di noi, passa la maggior parte della vita circondato da muri ricoperti di vernici tossiche.
Il proprietario Roberto Mosca si è quindi tirato su le maniche e ha sviluppato, soprattutto attraverso attività di ricerca e sviluppo interne, una linea assolutamente innovativa di prodotti, spulciando tra manuali medici carbonari e manoscritti su tecniche di verniciatura antiche. La combinazione tra queste informazioni, l’esperienza professionale maturata in 4 generazioni e un continuo processo di adattamento ed esplorazione, ha portato alla creazione di una gamma completa di prodotti completamente naturali (coperti anche da brevetti), che non solo sono più salutari, ma si distinguono anche per migliori prestazioni tecniche (niente più problemi di muffe o di acidificazione del supporto) ed estetiche (sembra che ci riesca ad apprezzare ad occhio nudo la differenza!).

Gli ingredienti utilizzati da Spring Color sono cera d’api e propoli e anche gusci d’uovo e latte scaduto, scarti di produzione di aziende alimentari locali che vengono utilizzando dall’azienda che riesce così a contenere anche i propri costi. Perchè se voleste comprarvi un bidone di vernice per dipingere la vostra nuova casa, scoprireste che il sovrapprezzo per comprare vernici Spring Color (che, per onor del vero, bisogna sottolineare non sia comunque l’unica produttrice di vernici naturali, ndr) è praticamente irrisorio.

Un prodotto insomma che riesce a coniugare salubrità, estetica, rispetto per l’ambiente e convenienza. Il mercato dell’azienda (che vende un quarto dei propri prodotti tra Francia, Belgio e perfino Australia), è forte e in crescita, anche se c’è ancora tanto da fare sul fronte della consapevolezza dei consumatori.
Tanto forte da aver spinto l’imprenditore, sulla base anche di motivazioni etico-ambientaliste più alte, a pensare alla creazione di una rete di produttori, che utilizzino tecnologie e semilavorati Spring Color (coperti da brevetti) sotto proprio marchio, per allargare il mercato e rispondere così al crescente interesse da parte di bio-architetti o semplici privati.

Su FirstDraft si è parlato recentemente del successo di alcune aziende italiane che hanno puntato sulla sostenibilità, sottolineando comunque quanto irrisorio sia ancora il numero di aziende eco in Italia. Spring Color ci fornisce un altro esempio ed insieme una speranza, di quanto felice (e redditizio) possa essere uno sposalizio tra sostenibilità e industria.

Valentina



Aziende e ambiente secondo il rapporto ISTAT

13 06 2008

Per la prima volta nella storia del rapporto annuale ISTAT, il capitolo che analizza le imprese prende in considerazione alcuni aspetti ambientali delle attività produttive, dedicando un approfondimento focalizzato sull’evoluzione quantitativa e qualitativa della spesa delle imprese per i servizi ambientali. Il rapporto parte da una prima distinzione di base tra le aziende il cui business è proprio la produzione e la vendita di servizi ambientali e le aziende che, invece, auto-producono servizi ambientali nel senso che svolgono attività per ridurre emissioni e inquinamento generate dalle proprie attività produttive specifiche. Un punto di vista interessante che guarda sia allo sviluppo di un nuovo settore, che all’evoluzione verso atteggiamenti più sostenibili di aziende fino a qualche anno fa totalmente straniere a queste materie e che rappresentano il tessuto produttivo italiano, dal tipico Made in Italy a, e soprattutto, l’industria pesante.

Per quanto riguarda il primo gruppo, cresce soprattutto il comparto della gestione dei rifiuti (che rappresenta il 0,33% del PIL, con un aumento del 32,7% del valore aggiunto in termini di PIL dal 1997 al 2006). Ancora più interessante è notare come, a differenza di quanto accadeva 10 anni fa, più dell’80% di questi soggetti sono aziende private, non utilities legate alle pubbliche amministrazioni. Insomma, scommettere nell’ambientale paga, e sempre più aziende si stanno ricavando uno spazio in questo settore.

Ma non per tutti i servizi ambientali specializzati sono rose e fiori. Il comparto delle imprese fornitrici di servizi idrici ha subito, dal 1997, una flessione del 4,5% di valore aggiunto in termini di PIL. Perchè questa controtendenza?
Perchè sempre di più le aziende italiane, le concerie di Arzignano o i produttori di piastrelle di Sassuolo hanno cominciato ad internalizzare i servizi ambientali, spendendo sempre di più in attività per la protezione dell’aria e del clima.

Chi sono dunque le aziende che si occupano di eco-sostenibilità in Italia? Secondo il quadro che ci fornisce ISTAT, il panorama italiano è più variegato di quello che ci si potrebbe aspettare: i servizi per la protezione dell’ambiente non sono più puro appannaggio di specialisti, pubblici o privati. Sempre di più, chi investe nella tutela dell’ambiente sono le aziende che compongono il tessuto produttivo tipico italiano, che sviluppano competenze interne per ridurre l’impronta ecologica della loro produzione.



Carta d’identità delle aziende ecologiche, segni particolari

7 06 2008

La comunicazione è stata riconosciuta da Kotler in poi, come una delle principali leve del marketing a disposizione delle aziende. Che rilevanza assume nel comparto trasversale de prodotti ecologici?
Questo comparto è, infatti, relativamente nuovo (l’interesse verso queste tematiche è maggiorenne o poco più), e i principali attributi che lo caratterizzano riguardano tematiche e conoscenze spesso molto sofisticate. Molte delle migliorie che i prodotti eco-friendly apportano ai propri settori riguardano , difatti, componenti chimici dai nomi spesso impronunciabili oltre che difficilmente comprensibili e conseguenze che riguardano l’aspetto salutistico che spesso il consumatore medio non maneggia con facilità. In questo quadro, la comunicazione al consumatore diventa uno strumento chiave, per implementare con successo una strategia aziendale fondata sull’ecologico.
Come raggiungere il consumatore con queste informazioni? Secondo il sondaggio condotto da acquisti verdi.it, la maggior parte delle aziende utilizza il canale web, sia attraverso il proprio sito o siti generici, che attraverso portali specializzati, per promuovere i propri prodotti. Si sottolinea quindi una grande importanza del web: non solo è un’importante strumento di comunicazione ma anche, come si era visto nei precedenti post, un’importante canale di vendita dei prodotti ecologici.

Nella comunicazione, le aziende censite mettono in risalto il rispetto per l’ambiente (24%), seguito dalla qualità del prodotto (22%) mentre solo in terza posizione si trovano le certificazioni (11%). Nonostante questa bassa percentuale che punta sulla certificazione come mezzo di comunicazione, il 52% di esse ritiene che esse siano utili nell’orientare le scelte del consumatore. Interessante notare anche che solo un anno prima questa percentuale era molto più bassa, il 32%.
Un ulteriore 36% ritiene che questo strumento efficace, ma solo se il costo del prodotto certificato non è eccessivamente più alto del corrispettivo non certificato.
La fiducia nei confronti delle certificazioni è dunque alta e presenta un forte trend di crescita, riflettendo forse anche una crescente conoscenza del consumatore che comincia a riconoscere loghi e significati delle diverse certificazioni presenti sul mercato.

Ancora una volta emerge quindi l’importanza delle consapevolezza dei consumatori come traino del mercato ecologico. Una conferma viene dalle aziende stesse: il 51% ha dichiarato che il fattore più importante per lo sviluppo del prodotto ecologico è proprio l’aumento della sensibilizzazione dei consumatori, molto più che l’evoluzione della legislazione (24%) o la maggiore presenza nei circuiti della grande distribuzione (22%).

Valentina