Dalla sostenibilità nelle catene del valore secondo Kraft.

1 05 2010

Da dove partire per ridurre gli impatti ambientali sul pianeta delle attività industriali?

Per anni il mondo ha guardato ai politicanti per trovare una soluzione al problema dell’uso spropositato di risorse non rinnovabili e dell’inquinamento di aria, terra, acqua generate dalla produzione e dal consumo di prodotti e servizi, ma i risultati non si sono dimostrati esaltati. Si sta invece facendo invece sempre più strada l’idea di un approccio bottom up, guardando alla spinta innovativa di imprese che possano canalizzare le proprie entrate verso prodotti a basso impatto ambientale. Un ruolo rilevante in questo senso possono giocare le grandi imprese, che forti di grandi volumi di acquisto e di vendita e di potere di mercato, possono generare maggiori impatti, evitando lentezze e compromessi che sono inevitabili componenti dell’attività politica. Ma come possono le aziende diventare “green”?

Qualche risposta da un intervento alla Nicholas School of the Environment a Duke University del vice responsabile della sostenibilità di Kraft Food, multinazionale seconda solo a Nestlè come produttore di prodotti alimentari&C.

Profitable green. La sostenibilità ambientale è una lente attraverso cui leggere l’attività innovativa ma che non può prescindere da obbiettivi di ritorno sugli investimenti e profittabilità. Prodotto per prodotto, problema ambientale per problema ambientale quindi, l’azienda sceglie di investire in progetti che permettono una contemporanea riduzione dei costi produttivi (magari utilizzando propri scarti produttivi) o la realizzazione di maggiori volumi (grazie all’azione congiunta del marketing che valorizza le caratteristiche di sostenibilità del prodotto agli occhi del consumatore).

Be creative: I problemi ambientali non sono semplici nè hanno soluzioni univoche. Piuttosto, implicano spesso dei trade-off, vista anche la mancanza di tecnologie alternative a quelle impattanti che permettano simili costi. è questo quindi il dominio ideale dell’attività innovativa dell’impresa. Qualche esempio per quanto riguarda il packaging. Molti dei materiali utilizzati per confezionare prodotti alimentari non sono riciclabili e non vi sono al momento alternative a minor impatto ambientale che permettano gli stessi bassi costi. Cambiare il materiale impiegato è però solo una delle possibili soluzioni. Per il brand di caffè inglese Kenko, l’azienda ha agito sulle diverse modalità d’uso del prodotto, riducendo del 97% il packaging vendendo, invece che il solito barattolone usa e getta, pacchi di caffè refill, da svuotare a casa in un barattolone multiuso. Un altro approccio utilizzato per evitare il collo di bottiglia tecnologico, è quello dell’ “up-cycling”: insieme all’azienda TerraCycle, Kraft ha realizzato un sistema che incoraggia i consumatori a riciclare le confezioni dei propri prodotti, che saranno poi trasformati da TerraCycle in borsette o giochi per bambini.

Ridurre gli impatti oltre le proprie attività produttive. Il luogo da cui le aziende partono per ridurre il proprio impatto ambientale sono le attività produttive che hanno luogo all’interno delle proprie mura. Riduzione del fabbisogno energetico, dell’inquinamento atmosferico, degli sprechi produttivi, energie rinnovabili sui tetti. Se è vero che questo approccio è più semplice, permettendo un controllo diretto, non permette tuttavia di ridurre i maggiori impatti ambientali, che spesso sono generati dalle attività di fornitori e altri attori a monte della catena del valore, esterni al controllo diretto dell’azienda. Come risolvere questo problema? Anche in questo caso, l’esempio di Kraft punta verso soluzioni case-to-case. Nel caso ci siano delle certificazioni ambientali valide e i prodotti in questione permettano maggiori ritorni, come nel caso del caffè Kenko, l’azienda sceglie di rifornirsi solo da fornitori certificati. In altri casi, invece, l’azienda sceglie di collaborare con i propri fornitori esistenti, esponendo i propri obbiettivi di sostenbilità e lavorando insieme sulle possibili soluzioni. In ogni caso, il modello “d’imposizione” non sembra funzionare: neanche multinazionali della stazza di Kraft riescono ad esercitare sufficiente potere su fornitori indipendenti. Inoltre il richiedere regole precise a volte diventa controproducente, non permettendo la flessibilità necessaria per affrontare al meglio i trade-off legati ai problemi di sostenibilità. L’esempio di Kraft racconta che incentivare l’attività del fornitore, piuttosto che pretendere, si dimostra la soluzione migliore per rendere verde la propria catena del valore.

Valentina



Electrolux e la sostenibilità attivata: atto primo

17 02 2010

Non servono molte introduzioni per presentare Electrolux. Il gruppo svedese si è guadagnato negli anni una posizione di leadership assoluta nella produzione di elettrodomestici da consumo e professionali, distribuendo ogni anno più di 40 mila aspirapolvere, asciugatrici e forni in più di 150 paesi.

Ma forse meno si sa sulla sua, recente ma non troppo, conversione verde. Conversione forse non è il termine adatto per descrivere un percorso la cui prima tappa risale al 1986, un era geologica fa in termini di consapevolezza del consumatore e di legislazione sul tema, e che si è sviluppato in modo incrementale. All’inizio, fu la normativa. Una serie di provvedimenti restrittivi in termini di materiali cui non era concesso l’utilizzo furono l’occasione per l’azienda per cogliere la necessità di capire il proprio impatto ambientale per prevenire i cambiamenti legislativi, piuttosto che subirli passivamente. Ma ben presto l’approccio ambientale del gruppo è entrato nel vivo della strategia di Electrolux, ben oltre le scrivanie degli uffici qualità o conformità , fino nel vivo dei tavoli decisionali. Si è partito dal rivedere i processi produttivi, in uno sforzo di riduzione degli sprechi di energie e materie prime che ha coniugato i principi dell’eco-efficienza con dei ritorni economici di breve.

Ma le innovazioni più interessanti sono quelle che hanno riguardato da un lato i prodotti. Ogni prodotto è progettato per minimizzare energia, acqua e detersivi impiegati per farlo funzionare, ma anche garantire lo smaltimento e il riciclo alla fine del ciclo di vita. I materiali impiegati sono i più ecologici possibile e non tossici, rispettando standard più rigidi di quelli imposti dalle normative vigenti. Anche il trasporto dei prodotti è stato rivisto secondo principi di sostenibilità: si è cercato di minimizzare l’utilizzo di trasporto su gomma, a favore di rotaia o dell’intermodalità, o almeno di limitarlo ai soli camion a basse emissioni.

Ma quello che è più interessante è che l’azienda ha rivolto i propri sforzi non solo a ridurre gli impatti nel proprio processo produttivo, ma ha coinvolto altri attori, all’esterno dei cancelli aziendali.

I primi sono i consumatori: le più importanti riduzioni degli impatti avvengono infatti in fase di consumo del prodotto, che è progettato perchè il consumatore, nell’uso dello stesso, possa minimizzare i consumi. Il consumatore è quindi coinvolto attivamente:,non è solo soggetto passivo di un comunicazione sulle buone pratiche ambientali del produttore. L’elettrodomestico acquistato lo abilita nel realizzare comportamenti virtuosi ma allo stesso tempo gli dà dei ritorni immediati, non solo in termini etico-valoriali ma soprattutto in termini economici, permettendo risparmi che, specialmente in periodi di crisi, sembrano un argomento più convincente nella scelta d’acquisto del solo contributo alla salvaguardia dell’ambiente.

Gli altri soggetti attivati dall’azienda grazie alla propria politica di sostenibilità sono i fornitori. Il gruppo, infatti, non si è accontentato di garantire la sostenibilità dei processi produttivi che avvengono all’interno dei confini dell’impresa, ma fa un proprio punto di forza l’evidenziare il controllo delle performance ambientali dell’intera catena di produzione che porta alla realizzazione del suo prodotto . Il gruppo ha definito uno stringente codice di condotta, che detta standard in termini di rispetto dell’ambiente, caratteristiche dei prodotti ma anche di salubrità e sicurezza dell’ambiente di lavoro e condizioni salariali che fa rispettare non solo in ognuno dei 54 stabilimenti di proprietà, ma anche in ognuno dei propri fornitori. Come di consueto, enti verificatori terzi sono incaricati di certificare l’efficacia di questo sistema.

Una serie così consistente di innovazioni di prodotto, processo e organizzative, implica investimenti significativi, rivisitazioni del sistema organizzativo, uno sforzo consistente in ricerca e sviluppo. Come sono state realizzate queste innovazioni, e come questo percorso ambientale sia diventato la strategia vincente per Electrolux, tanto da ripagare e oltre gli investimenti realizzati, sarà il contenuto della prossima puntata.

Valentina



Rinverdire le catene del valore globali

15 07 2009

Sono appena tornata da un intensa settimana in America dove ho partecipato ad un’intenso workshop in cui si è discusso di upgrading e catene del valore globali. A parte i chili di troppo, imprescindibili dopo una settimana negli States, mi sono portata a casa un bel po’ di interessanti riflessioni che voglio condividere su questo spazio.

Nel contesto di una crescente frammentazione dei processi produttivi su scala globale, gli occhiali adatti per interpretare la nuova divisione del lavoro sembrano non poter prescindere dall’analisi dell’intera catena del valore in cui le aziende sono coinvolte. Nel workshop si è cercato di comprendere le possibilità di upgrading, miglioramento, innovazione, delle aziende che partecipano a queste catene del valore, non più solo a livello economico ma anche sociale e ambientale. La letteratura finora si era concentrata solo sul primo, individuando nella tipologia di governance della catena e nelle capacità delle singole aziende i fattori fondamentali che determinano le possibilità di upgrading.

Una prima interessante novità ufficializzata nel workshop è stato proprio lo spostamento dell’attenzione verso un altro tipo di upgrading, sociale e, soprattutto, ambientale insieme a quello economico, comunque imprescindibile. Il che, inserito in un contesto centerario in cui le aziende sono state considerate come meri attori economici atti a massimizzare il profitto non è cosa da poco. Il workshop ha segnato l’inizio di una nuova agenda per gli studi sulle global value chain, in un crescente interesse per le dinamiche ambientali su cui sembra si vorrà scommettere per molti anni a venire.

Interessante in questa prospettiva è stato il riconoscere come l’innovazione ambientale possa comportare la riconfigurazione delle catene del valore. Da un lato, per poter creare nuovi prodotti sostenibili è necessario cambiare il proprio sistema di relazioni, come per quanto si è visto per il settore dell’auto in cui nuovi soggetti si stanno sostituendo e quelli tradizionali. Per creare l’auto elettrica infatti non bastano più fornitori specializzati nella creazione di ingranaggi ma entrano in scena tutta una nuova serie di attori come i fornitori di batterie elettriche. Dall’altro lato, si dimostra necessario anche una trasformazione del rapporto tra gli attori coinvolti. Le marche di caffè che vogliano vendere un prodotto ecologico devono instaurare un rapporto di partnership con i propri fornitori in Africa per poter garantire il rispetto di determinati standard sui processi produttivi.

Altro interessante aspetto, chiaro nella mente del practitioners ma finora meno in quella degli scholars, è che queste varie tipologie di upgrading non hanno sempre una convivenza facile, essendo caratterizzate da un trade-off. Trade-off tra upgrading economico e sociale, ma anche tra upgrading ambientale oggi rispetto a domani, tra upgrading economico qui e downgrading in qualunque altro punto della catena. Insomma, un po’ di buon realismo nella letteratura che finora si era concentrata ottimisticamente solo sullo studio delle possibilità di miglioramento, ignorando la rilevanza empirica e la potenza esplicativa dei casi di downgrading. E l’attuale periodo di crisi rende questa prospettiva ancora più rilevante.

Il dibattito, quindi, si fa più complesso di quello che aveva caratterizzato questa letteratura finora. Come tenere insieme tutti questi nuovi pezzi, dando senso alle dinamiche di riconfigurazione delle catena del valore a livello globale? La risposta, secondo me, sta nel ruolo di singole aziende leader; aziende che siano in grado di interpretare il cambiameto dei tempi implementando contemporaneamente un upgrading ambientale (e sociale) ed economico grazie alla creazione di un sistema di valori che possa essere riconosciuto dal consumatore finale. L’Italia ha sicuramente qualche carta da giocare in questo senso: vedremo se le aziende raccoglieranno questa sfida.

Valentina



Dalla crisi allo sviluppo (sostenibile): c’è posto per l’Italia?

8 06 2009

Sempre di più si sente parlare del potenziale economico dei green jobs. Per alcuni sembrano essere gli unici lavori che riusciranno a tenere anche in tempo di crisi. Per altri rappresentano un maquillaque definitorio per ottenere finanziamenti da enti pubblici, avidi di investire in progetti etico-buonisti per rabbonire la folla di elettori inbufaliti dalla disastrata situazione economica e dalle scarse prospettive future.

In un altro post abbiamo già cercato di capire cosa si nascondesse dietro a questo nome intuitivo quanto generico e ci siamo stupiti a commentare gli elevati posti di lavoro che il settore delle rinnovabili, della gestione dei rifiuti e legati al raggiungimento dell’efficienza energetica impiegano e impiegheranno a livello mondiale.

Ma quale ruolo gioca l’Italia in questo nuovo scenario?

La domanda è più che legittima. Lo sviluppo green sembra essere infatti maggiormente uno sviluppo hi-tech, legato alla produzione di nuove sofisticate tecnologie o, anche se legate a tecnologie ormai consolidate come quella del fotovoltaico, in cui non abbiamo competenze nelle lavorazioni principali (silicio in primis). L’Italia, si sa, non è mai stata famosa per le innovazioni hi-tech: le competenze che per anni hanno fatto brillare la nostra stella nel mondo sono competenze manifatturiere, al limite dell’artigianale, in settori low-tech. Ovviamente questa è una fotografia statica, che guardando all’aggregrato dimentica i vari casi di successo legati al settore del multimediale, le innovazioni in nano tecnologie e le aziende italiane che si sono affermate con innovazioni hi-tech radicali. Ma questi casi di successo sono ancora in minoranza, soprattutto se confrontati con realtà come quella tedesca e americana.

Dobbiamo quindi dedurre che l’Italia sia fuori da questo possibile miracolo economico verde?

Uno studio recentemente realizzato del centro IEFE dell’università Bocconi per il Gestore dei Servizi Elettrici ha analizzato il potenziale occupazionale ed economico legato allo sviluppo e alla produzione delle rinnovabili in Italia. Lo studio individua tre possibili scenari, in base alla capacità del tessuto industriale nazionale di accettare la sfida tecnologica e concorrenziale.
Nel peggiore degli scenari gli studiosi dello IEFE prevedono un livello occupazionale che non potrà superare le 100.000 unità in 12 anni, con un alta dipenenza dall’estero per la tecnologia, importata per il 70% del fabbisogno interno.

Nello scenario di mezzo invece i ricercatori IEFE prevedono una situazione in cui gli imprenditori italiani accolgano la sfida in modo parziale. L’idea è che il fabbisogno di tecnologie pulite sia coperto specialmente da aziende specializzate in tecnologie “convenzionali” che diversificano il portafoglio prodotti con nuove tecnologie rinnovabili, andando a coprire quindi il 50% del mercato con la produzione nazionale.

Nel migliore dei casi invece è fatta la previsione di uno spostamento del manifatturiero italiano verso la filiera produttiva delle tecnologie rinnovabili, coprendo fino al 70% del mercato nazionale. Il fatturato previsto nei 12 anni, tempo soglia per raggiungere gli obbiettivi fissati dalla direttiva europea 20-20-20, toccherebbero soglia 70 miliardi, attraverso l’impiego di 175.000 occupati.

Il passaggio ad un economia pulita non può avvenire di colpo, con una ristrutturazione istantanea ed indolore del tessuto manifatturiero esistente. Riconoscere i costi e i tempi di questo passaggio è un primo passo essenziale per intraprendere una strada concreta in questa direzione. E tuttavia, in un’ottica di medio-lungo termine, quello che anche lo stuio IEFE ci suggerisce è che è possibile contare su una sinergia tra le competenze e la base produttiva esistente e le nuove tecnologie che sempre di più il mercato richiederà, spinto dall’azione costante del legislatore. La scorsa settimana ho assistito ad un convegno in cui si è affrontato il tema della crisi che sta colpendo il sistema industriale italiano e alcuni comparti, come il meccanico, in particolare. Il rapporto IEFE suggerisce che una valorizzazione mirata delle competenze esistente, mescolata con una coraggiosa “distruzione creativa” possono portare anche l’Italia low tech a competere con successo in un mercato, quello delle green tecnology, che si presenta come altamente redditizio.

Valentina



E luce fu!

18 05 2009

Tra le mille attrazioni che la fantastica Copenhagen offre, non mi sono lasciata sfuggire la possibilità di visitare la mostra “Future Lights” ospitata dal Danish Design Centre.

La Danimarca è famosa per il suo design e tra gli oggetti in cui eccelle lampade e lampadari sono sicuramente i più importanti. Negli anni, vari designer danesi si sono succeduti nel trasformare un oggetto di uso comune in un puro oggetto del desiderio. E d’altronde non c’è da stupirsi che in un paese dove durante la maggiorparte dell’anno la luce non c’è, ci sia una grande attenzione al sistema d’illuminazione. Recentemente, l’attenzione all’estetica si è incrociata sempre di più con l’attenzione all’ambiente, come dimostra l’esposizione allestita nel più importante centro del design danese.

L’oggetto della mostra era la luce e l’illuminazione, con il preciso scopo di raccontare attraverso la voce e le creazioni dei designer danesi come sia possibile unire l’utile al dilettevole, l’innovazione con la sostenibilità ambientale. La mostra vale sicuramente la visita: oltre a raccogliere i prodotti innovativi del settore è anche un bel modo per capire appieno il potenziale di utilizzare sistemi innovativi di illuminazione che riducano l’impatto ambientale.

Tecnologia. Un primo semplice passaggio ad un illuminazione più pulita parte da una semplice sostituzione delle lampadine utilizzate. Passare dalla lampadina ad incandescenza a lampade alogene o a led riduce di moltissimo l’energia impiegata (soprattutto, quella sprecata) e aumenta anche gli effetti positivi della luce sull’umore e la produttività dell’uomo.

Gestione. Ma rendere l’illuminazione sostenibile non si completa semplicemente nello svitare tutte le lampadine esistenti per sostituirle. C’è un potenziale di energia risparmiata ancora maggiore nella gestione più efficiente della luce, una gestione intelligente che gestisca al meglio non solo il quando ma anche il quanto e il cosa illuminare, in base alle reali esigenze. Ogni lampada rivolta a illuminare uno spazio inutile è una grande bacino potenziale di energia che viene sprecato ogni giorno, soprattutto nell’arredo degli spazi urbani e nei locali pubblici, dove chi preme l’interruttore non è chi paga la bolletta.

Interazione. Ma la gestione sostenibile della luce non è solo questo. Può essere molto più che semplice reazione, riduzione degli sprechi e perfezionamento delle tecnologie. Quello che la rende materia interessante per designer e aziende è il fatto che il sistema d’illuminaizone può diventare un fantastico strumento di innovazione. E il modo più interessante, da quanto ho visto, è quello di renderlo interattivo. Le potenzialità in questo senso sono immense quanto la fantasia di designer ingegniosi e orientati alle vendite. Le cose più intriganti che ho visto alla mostra sono state la possibilità di cambiare colori, intensità e movimento delle luci con il passaggio delle persone o in base ai differenti suoni. Oppure il fatto che la luce si accende appena ti siedi sulla poltrona, cambia colore in base al colore delle cose che appoggi sulla sedia, si diffonde gradatamente a simulare l’aurora per un risveglio soft.

Insomma, nel connubio design – sostenibilità c’è molto più che un semplice risparmio, un adattamento alle nuove tecnologie. Il vero potenziale, soprattutto economico, sta invece nelle innovazioni che rende possibile, sinergie che possono trasformare e arredare spazi urbani rendendoli interattivi e divertenti risparmiando allo stesso tempo sui costi.



Cronache dal XXII CleanTech Forum

7 05 2009

La scorsa settimana a Copenhagen si è tenuto la ventiduesima edizione del Clean Tech Forum, l’unica tappa europea dell’evento organizzato da CleanTech, un gruppo ocn base negli US che si occupa di promuovere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie verdi, offrendo servizi informativi, ricerche ad hoc e soprattutto, fornendo un link tra il mondo delle imprese green e Venture Capitalist pronti a investire in tecnologie ad alto potenziale.
Il gruppo è in attività fin dal non sospetto 2002 e in sette anni si vanta, tra l’altro, di aver lanciato centinaia di cleantech investment funds e raccolto 1,5 billion USD$ per aziende lanciate ai forum. I dati raccolti dalle loro brochure possono essere sicuramente messi in dubbio, ma se l’evento è riuscito a catalizzare più di 400 partecipanti nonostante i 2000 dollari richiesti per l’ingresso, sicuramente qualcosa di vero deve pur esserci.
L’imponente prezzo all’entrata non mi ha scoraggiata dal partecipare all’evento, e da brava italiana ho trovato il modo di non perdere questa interessante occasione. Posso così condividere con voi le impressioni vissute da dentro l’organizzazione su un’intensa tre giorni di presentazioni di nuove tecnologie e seminari sullo stato dell’arte delle tecnologie pulite su prospettive future e problematiche in tempo di crisi.

In generale, il forum è stato molto interessante, grazie al fatto che ha messo insieme il mondo della ricerca, personaggi di spicco della politica (c’era perfino la ministra dell’economia danese), ma soprattutto del mondo della finanza (rappresentati da varie banche europee e da dozzine di interessatissimi VCs) o della consulenza (McKinsey e Deloitte, per esempio, che si stanno dando molto da fare recentemente in termini di servizi per la sostenibilità) e dell’imprenditoria. Tra le aziende accreditate a presentarsi all’evento, moltissime start-up, ma anche aziende avviate in cerca di finanziamenti per nuovi progetti per lo sviluppo di nuove marchingegni per sfruttare l’energia di fonti rinnovabili o realizzare nuovi incredibili materiali da materie prime seconde. Tra le varie presentazioni, la cosa che mi ha appassionato di più ascoltare sono state proprio le idee aziendali, Un po’ perché alcune erano davvero divertenti (come quella dell’azienda che crea mattoni decorativi, riciclabili, dalle bottiglie di plastica che non possono essere altrimenti riciclate, o i vari rivestimenti o vernici nanotecnologici dalle miracolose proprietà) un po’ perché credo che, anche se spesso sottovalutate, le imprese siano le vere protagoniste di questa possibile rivoluzione verde, i mattoni Lego dell’economia pulita.

E le innovazioni verdi, davvero, non mancano. Così come sono in crescita gli investimenti in rinnovabili&C. (alla faccia della crisi). A sedere in quelle stanze la vera domanda che sorge è perché, nonostante le moltissime soluzioni green esistenti, il mercato attuale siano ancora per lo più tutt’altro che pulito. Una prima risposta riguarda le performance (finanziarie) di queste tecnologie (ahimè, nessuna delle rinnovabili sembra ancora in grado di essere redditizia in assenza di sussidi), così come merita una menzione il mercato finale, ancora poco attento. Tuttavia, il grande sforzo che i policy maker stanno facendo per spostare la produzione verso standard più green (serve ricordare il fiume di dollari previsti dal green stimulus plan di Obama?), unito agli altri, molti, driver che spingono le aziende verso un’economia più pulita, dovrebbe aver raggiunto risultati migliori.
Il fatto che questi risultati non siano, ancora, raggiunti ci dice che questa domanda è alla ricerca della sua risposta. E come ricercatori, ci dice che c’è bisogno di restare su questa domanda, per trovare una risposta più completa e articolata del semplice “non è vietato per legge” o “non paga”, una risposta che sia in grado di indicare quali sono i colli di bottiglia e le difficoltà che impediscono alle tante invenzioni che ho visto in questi giorni di diventare delle innovazioni di successo.

Valentina



che fare?

23 04 2009

Questa settimana sono stata ad un interessante convegno sui cambiamenti climatici e il loro effetto sulle strategie aziendali. Qui a Copenhagen queste cose le prendono davvero sul serio, anche grazie all’imminente COP15 , il meeting annuale tra i rappresentanti delle nazioni che hanno ratificato l’UN climate convention, che la città ospiterà a fine anno.

Lo scopo del meeting era molto ambizioso: preparare le basi per lanciare un programma in cui Copenhagen Business School, l’università che ha organizzato e ospitato l’evento, si pone in prima linea nella ricerca in tema di sfide ambientali per il mondo aziendale. Progetto ambizioso, ma molto promettente, soprattutto grazie alle collaborazioni importanti su cui può contare. Come ad esempio Dong energy, azienda leader nello stato per la gestione integrata dell’energia, che si occupa dell’intera catena del valore energetico, se così la possiamo chiamare, dalla produzione di energia fino alla distribuzione e al servizio al cliente. Anche se al momento l’azienda è legata principalmente alla produzione da fonti fossili, i progetti sono ambiziosi: creare un sistema integrato che utilizzi principalmente energia da fonti rinnovabili, mantenendo comunue costante l’affidabilità nella distribuzione energetica.

Altro partner interessante dell’iniziativa, che ha avuto modo di presentare la sua via per una produzione sostenibile è novozymes, leader mondiale in quella che loro definiscono bio-innovazione. Per dirla spiccia, l’azienda è specializzata nella creazione per i loro clienti, dei più svariati settori, di soluzioni innovative a base di enzimi, che migliorino le performance dei prodotti o processi dei clienti riducendo l’impiego di energia e di materie prime. Consiglio un passaggio nella parte del sito in cui pubblicizzano le soluzioni che hanno già creato: dal dentifrico non inquinante anti-batteri al cibo processato di migliorata qualità.

Dopo una breve presentazione delle esperienze di queste ad altre aziende in termini di sostenibilità ambientale, la discussione si è spostata ad un livello più intimo, in cui imprenditori, professori e ricercatori hanno discusso vis a vis di quelli che sono sentiti come i maggiori ostacoli o le migliori possibilità per stimolare il passaggio a una produzione più sostenibile, con lo scopo di identificare e definire quali siano le priorità per il mondo della ricerca.

Nessuna decisione è stata presa, nessuna tonnellata di Co2 è stata ridotta come immediata conseguenza del meeting. Ma sicuramente sono state poste delle buone basi per lo sviluppo di azioni congiunte tra il mondo della ricerca e quello aziendale, per illuminare la strada che porti in quella direzione.

Valentina



Un tuffo nel porto

31 03 2009

Sebbene sia arrivata la primavera, le temperature danesi sono ancora ben lontane dall’essere da permettere le mezze maniche. E mentre fuori piove il pensiero viaggia verso lidi tropicali e il caldo tepore delle spiagge. Ma oggi ho scoperto che non serve che vada tanto lontano per fare un bagno. La spiaggia più vicina è proprio in centro città. Di più, la spiaggia più vicina è proprio davanti al porto.

Per capire la portata di questa notizia bisogna fare qualche passo indietro nel tempo. Per molto tempo gli scarichi industriali, i saltuari sversamenti di petrolio dal porto e le acque reflue delle fogne hanno inquinato le acque del porto della capitale danese, situato molto molto vicino al centro città, proprio come succede in quasi tutti gli altri porti del mondo. Più di 93 canali riversavano acque di scarico nel porto e delle zone costiere vicine, specialmente in situazioni di alte precipitazioni, che qui, mi sento di poter dire con abbastanza sicurezza ormai, non è certo un evento raro.

Dal 1995 l’amministrazione comunale ha però deciso di risanare la zona, costruendo tra l’altro dei canali e delle cisterne che agiscono a mo’ di riserva, per compensare il sistema fognario “ordinario” quando è sotto pressione. In più, la zona costiera è stata attrezzata con impianti di trattamento delle acque reflue che rimuovono dalle acque di scarto gli eventuali elementi nocivi e inquinanti. Grazie alla realizzazione di questi progetti di rimodernamento e riprogettazione delle fognature cittadine molti dei canali preesistenti sono stati chiusi e il riverso in mare delle acque reflue, assicurano compiaciuti i copenaghensi, avviene ormai solo in caso di nubifragi o cataclismi climatici.

L’acqua è diventata così pulita da essere stata paragonata a quella delle spiaggie più rinomate del sud dello stato. Pulita, ma così pulita, che è stato deciso di costruirci pure una spiaggia. Una spiaggia pubblica, che da quando è entrata in funzione nel 2002 è diventata uno dei luoghi di ritrovo cult della Copenhagen giovane e trendy. Vedere per credere. Una spiaggia artificiale realizzata da architetti di fama che permette ai cittadini  di tuffarsi nelle acque del porto, a due passi dalle strade pedonali del centro. E nel caso, per qualche strana congiuntura astrale le condizioni dell’acqua non fossero buone, niente paura. Un sistema di monitoraggio on-line controlla in tempo reale la qualità dell’acqua e se a sogila di sicurezza è raggiunta il bagno si chiude in un battibaleno.

La temperatura dell’acqua resterà sempre fredda, ma almeno la qualità è di un livello strabiliante, considerando che il porto nel 2008 ha ospitato più di 310 crociere che hanno scaricato in città 560.000 passeggeri.

Chiudo gli occhi e sogno di un giorno in cui potrò fare Porto Marghera – Venezia a nuoto.

Valentina



L’Italia della tecnologia verde: parliamo di cogenerazione

9 12 2008

In temi di tecnologie energetiche e del risparmio energetico uno dei settori più interessanti per il mercato italiano è quello della cogenerazione energetica, tecnologia che prevede la produzione combinata e simultanea, in un unico sistema integrato, di energia elettrica e termica in esercizio continuo, partendo da un’unica fonte (fossile o rinnovabile).
I vantaggi forniti da questo tipo di tecnologia sono molteplici, a partire dal significativo risparmio energetico (circa il 30%) rispetto alla produzione separata di energia elettrica e termica di sistemi centralizzati; dal ridotto inquinamento e dalla diminuzione delle  emissioni di CO²) nonché una riduzione degli sprechi delle risorse energetiche tradizionali attraverso un loro utilizzo più efficiente e un annullamento delle perdite di trasmissione lungo la rete di distribuzione.
Una visita presso l’azienda Spark Energy S.p.A. con sede a Possagno (TV), operante da vent’anni nel settore dell’energia e del risparmio energetico, ci ha permesso di approfondire ulteriormente le caratteristiche di questa tecnologia nonché lo stato del mercato italiano. La società è di piccole dimensioni –ha un organico di 23 persone- ma detiene una buona quota del mercato nazionale, quasi l’8%, che in un mercato altamente frammentato e artigianale come quello della cogenerazione è una cifra di tutto rispetto. L’azienda è sicuramente un’esempio di successo imprenditoriale, che ha avuto riscontro anche dal proprio mercato, se consideriamo che il fatturato dell’azienda nell’ultimo anno è più che triplicato, grazie soprattutto alla diffusione della cogenerazione energetica nel settore terziario. La società dal 2006 è parte del Gruppo Riello S.p.A. che ha deciso di entrare nel mercato dell’energia acquisendo Coge Engineering, l’area commerciale, R&D e industriale della cogenerazione e trigenerazione (tecnologia che prevede la produzione di elettricità, riscaldamento e condizionamento) di Spark Energy, istituendo così la Coge Engineering S.r.l., diventata nel 2008 RielloEway, centro di eccellenza di sistemi ad alta efficienza. L’appartenenza a questo grande gruppo industriale è stata sicuramente molto positiva per RielloEway, garantendo sinergie sia dal punto di vista della progettazione e del know how che dal punto di vista commerciale, grazie alla presenza capillare di installatori del gruppo nel territorio italiano. L’azienda è forte anche di know how e competenze tecniche ventennali che le hanno permesso di specializzarsi nella produzione di soluzioni tecnologiche personalizzate che, a differenza dei grandi concorrenti tedeschi e inglesi, permettono flessibilità e modularità degli impianti realizzati.
In Italia, paese ad elevato fabbisogno energetico e fortemente dipendente dall’importazione di energia, solo l’8% della produzione energetica è generato mediante cogenerazione, contro il 53% della Danimarca, il 38% dell’Olanda e il 35% della Finlandia, per citare solo alcuni tra i più virtuosi esempi europei. Naturalmente le lacune – non solo legislative- della politica energetica nazionale italiana, non aiutano di certo lo sviluppo e la diffusione di questa tecnologia nel nostro paese.
Ma il mercato potenziale di questo tipo di tecnologia è molto ampio, soprattutto in prospettiva delle nuove direttive europee in termini di risparmio energetico e riduzione delle emissioni. Infatti, a trarre vantaggio dall’applicazione della tecnologia cogenerativa possono essere attività appartenenti tanto al settore industriale (specialmente industrie alimentari, tessili, conciarie, farmaceutiche, della ceramica, della gomma e delle materie plastiche,…), quanto a quello terziario (ospedali, case di cura, strutture alberghiere e residenziali, uffici e centri sportivi, ecc). E’ proprio a questo secondo settore che RielloEway vuole maggiormente rivolgersi, per fare leva sul potenziale inespresso del mercato dei cogeneratori di più piccole dimensioni, a coprire le necessità di strutture residenziali e di servizi.

RielloEway è il classico esempio di azienda all’italiana, che ha maturato un esperienza ventennale nella realizzazione su commessa e si differenzia dai concorrenti, le grandi straniere Vaillant o Baxi, proprio per la sua capacità di customizzare il prodotto e realizzare impianti flessibili e modulari. Ma ha sviluppato queste caratteristiche tipiche del Made in Italy in un comparto a forte contenuto tecnologico e con un alto impatto a livello ambientale, a ricordarci che il nostro tessuto industriale può avere importanti carte da giocarsi anche in questi settori.

Scila



Spring Color, ovvero della vernice al latte

20 06 2008

Negli ultimi periodi si è assistito ad un proliferare di prodotti biologici, ecologici o presunti tali, di marchi e certificazioni e ad un allargamento trasversale del numero di produttori che si muovono in direzioni ecologiche e sostenibili. E una delle motivazioni principali che induce una domanda sempre più consistente a sostenere questi comparti è l’attenzione alla salute. Una sensazione di diffidenza e preoccupazione sulla salubrità dei prodotti di cui si circonda ogni giorno cresce tra i consumatori, giustificata ed alimentata da scandali quali quelli della mozzarella alla diossina o dei giocattoli tossici cinesi, che chiede a gran forza una maggiore trasparenza d’informazione e più sicurezza.

E’ a questi bisogni che Spring Color risponde. Produttrice marchigiana a conduzione familiare di vernici e pitture, ha riconvertito completamente la propria produzione al naturale dopo aver sperimentato sulla pelle degli stessi proprietari, quali siano gli effetti nocivi dell’utilizzo di componenti chimici nella produzione di pigmenti, calci e vernici, che colpiscono anche chi, come ognuno di noi, passa la maggior parte della vita circondato da muri ricoperti di vernici tossiche.
Il proprietario Roberto Mosca si è quindi tirato su le maniche e ha sviluppato, soprattutto attraverso attività di ricerca e sviluppo interne, una linea assolutamente innovativa di prodotti, spulciando tra manuali medici carbonari e manoscritti su tecniche di verniciatura antiche. La combinazione tra queste informazioni, l’esperienza professionale maturata in 4 generazioni e un continuo processo di adattamento ed esplorazione, ha portato alla creazione di una gamma completa di prodotti completamente naturali (coperti anche da brevetti), che non solo sono più salutari, ma si distinguono anche per migliori prestazioni tecniche (niente più problemi di muffe o di acidificazione del supporto) ed estetiche (sembra che ci riesca ad apprezzare ad occhio nudo la differenza!).

Gli ingredienti utilizzati da Spring Color sono cera d’api e propoli e anche gusci d’uovo e latte scaduto, scarti di produzione di aziende alimentari locali che vengono utilizzando dall’azienda che riesce così a contenere anche i propri costi. Perchè se voleste comprarvi un bidone di vernice per dipingere la vostra nuova casa, scoprireste che il sovrapprezzo per comprare vernici Spring Color (che, per onor del vero, bisogna sottolineare non sia comunque l’unica produttrice di vernici naturali, ndr) è praticamente irrisorio.

Un prodotto insomma che riesce a coniugare salubrità, estetica, rispetto per l’ambiente e convenienza. Il mercato dell’azienda (che vende un quarto dei propri prodotti tra Francia, Belgio e perfino Australia), è forte e in crescita, anche se c’è ancora tanto da fare sul fronte della consapevolezza dei consumatori.
Tanto forte da aver spinto l’imprenditore, sulla base anche di motivazioni etico-ambientaliste più alte, a pensare alla creazione di una rete di produttori, che utilizzino tecnologie e semilavorati Spring Color (coperti da brevetti) sotto proprio marchio, per allargare il mercato e rispondere così al crescente interesse da parte di bio-architetti o semplici privati.

Su FirstDraft si è parlato recentemente del successo di alcune aziende italiane che hanno puntato sulla sostenibilità, sottolineando comunque quanto irrisorio sia ancora il numero di aziende eco in Italia. Spring Color ci fornisce un altro esempio ed insieme una speranza, di quanto felice (e redditizio) possa essere uno sposalizio tra sostenibilità e industria.

Valentina