Il mercato non è sempre una strategia fallimentare quando si parla di ambiente: Europa insegna ad America 1 a 0

1 04 2010

è quello che ho imparato  alla conferenza a Duke University per la presentazione del nuovo libro di Ellerman (MIT), Convery (University College Dublin) e De Perthuis (University Paris-Dauphine) sul mercato delle emissioni in Europa.

Può sembrare strano aver fatto tanta strada per venire in America, per sentire parlare della situazione di casa. Ma il contributo più interessante del libro non è una mera analisi della funzionalità dello strumento messo a punto dalla comunità Europea per ridurre le emissioni e stimolare le produzioni più green, ma piuttosto l’averlo reso un mezzo di paragone per gli altri stati, USA in primis, che faticano a riconoscere i benefici di un’economia verde.

Il libro e la presentazione, partono giustamente da un’analisi storica, individuando tra le ceneri delle iniziative riguardanti la carbon tax o il raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto il punto di partenza di quello che diventerà il più efficiente sistema di riduzione delle emissioni al mondo. La maggiorata attenzione ai cambiamenti climatici, un clima favorevole a livello politico e di industria, forti pressioni da parte di NGO e associazioni di consumatori hanno sostenuto l’approvazione della direttiva che, a partire dal 2005, ha previsto limiti alle emissioni degli stabilimenti europei nei settori dell’energia, industria siderurgica, dei prodotti minerali, ceramica e della carta. Il meccanismo sottostante il sistema ibrida forme di regolazione pura -attraverso l’individuazione dei settori che per legge devono rispettare queste norme – con quelle di mercato – permettendo un mercato dei diritti di emissione con prezzi determinati dal libero mercato, in pieno stile Chicago School.

Gli autori del libro sottolineano l’efficacia del sistema: in 3 anni si è assistito ad una riduzione delle emissioni compresa tra il 2 e il 6% del totale. Cifra molto al di sotto degli obbiettivi del 20% fissati per il 2020, ma che rappresentano il miglior risultato di sempre in termini di politiche atte a ridurre le emissioni. Vantaggi interessanti sono stati rilevati anche dal lato economico, con lo sbocciare di nuovi intermediari e con il coinvolgimento di molti più siti di quelli strettamente previsti dalla legge. Il libro non prende in analisi gli impatti della crisi, ma gli autori sono convincenti nello spiegare che il mercato delle emissioni pur non essendone immune, resiste alla congiuntura negativa, soprattutto grazie alla presenza di reali vantaggi economici di cui hanno beneficiato molti soggetti avvallando le richieste di questo mercato “artificiale”.

Un sistema con difetti e risultati non sempre strabilianti, ma che, a detta degli autori, finora è il migliore esempio di accordo sovra-nazionale in termini di risultati ambientali e impatti a livello economico. Interessante notare il fervore con cui professori americani superavano il tradizionale orgoglio nazionale per documentare un successo d’oltreoceano. L’obbiettivo del libro, e della relativa conferenza, erano proprio quelli di capire per imparare e replicare. In un congresso che ha appena faticato ad approvare la riforma sanitaria non è pensare chiedere in tempi brevi di legiferare su un altrettanto discusso argomento. Tuttavia gli autori sono convinti che applicare in America o in altre zone del mondo un modello simile sia non solo auspicabile ma anche fattibile, seppure con grandi difficoltà. Un modello che come quello europeo possa funzionare nonostante l’eterogeneità degli stati membri e nonostante gli ineludibili svantaggi cui alcune aziende incorreranno nel breve-medio termine, grazie all’azione di un attore centrale che gestisca il sistema e che garantisca anche vantaggi “compensatori” agli stati partecipanti.



I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina



Come sopravvivere a Serge Latouche

5 11 2009

La scorsa settimana a Padova ho avuto l’onore di partecipare ad un seminario di uno dei più conosciuti e influenti pensatori fautori dello sviluppo sostenibile. Serge Latouche, professore, filosofo, autore di bestseller sul tema tra cui L’occidentalizzazione del Mondo, Farewell to Growth e Come Sopravvivere allo Sviluppo, è stato tra i primi a portare alla ribalta a livello internazionale la necessità di perseguire modelli di sviluppo più sostenibili e in particolare di un modello di decrescita felice.

Il punto di partenza delle sua riflessione parte dalla considerazione che il periodo di crisi attuale, che motiva la riflessione sulla sostenibilità di questo modello di sviluppo, affonda le radici ben più lontano delle attuali e pur importanti crisi dei sub prime e dei mercati economico-finanziari.  La crisi che famiglie e imprese stanno affrontando in questo periodo, secondo un interpretazione che mi ha ricordato un po’ un intervento di Enzo Rullani di qualche tempo fa, rappresentano infatti solo la punta di un iceberg di una crisi più ampia, che riguarda l’intero sistema produttivo. Una crisi economica, una crisi culturale, una crisi antropologica. Insomma, una crisi della civiltà della crescita e del consumo, che aveva nel Fordismo il suo cavallo di battaglia.

In relazione a queste diverse anime della crisi nella crisi, Latouche ha guidato il pubblico curioso di studenti e professori nell’analisi di tre diverse prospettive di sviluppo.

La prima prospettiva è quella della società della crescita, protagonista delle economie occidentali a partire dalla rivoluzione industriale, e ben rappresentata dalle demonizzate multinazionali e dall’esasperazione del consumo, che si basa su uno sfruttamento sconsiderato di risorse, considerate illimitate. A questo modello, criticato dai suoi indicatori di benessere (PIL) alla sua considerazione delle risorse fisiche (illimitate) o ai suoi metodi (marketing aggressivo), Latouche, in relazione alla crisi, associa il termine catastrofismo.

La seconda via allo sviluppo è invece quella della crescita negativa, cui Latouche affibbia il termine disperazione , visto che non risolverebbe la crisi e porterebbe a un evidente peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei più.

La terza via, il modello di sviluppo promosso da Latouche, è invece quello della decrescita (felice), un modello di sviluppo tutto da inventare, in rottura con il passato, che si faccia carico di affrontare i problemi della scarsità delle risorse, dell’inquinamento, dell’aumento della popolazione e delle disuguaglianze sociali. Con un linguaggio straordinariamente forbito per uno straniero e con una serie di affascinanti accenti improbabili, Latouche ha infiammato la sala inanellando una serie propositi per raggiungere questo modello di sviluppo. Linee guida che dovrebbero dirottare la società moderna, quella del consumismo sfrenato e della produzione in-consapevole, verso un modello di sviluppo sostenibile in termini ambientali, riducendone l’impronta ecologica, e sociali, sanando le disuguaglianze tra il nord e il sud del mondo. Latouche ha propugnato l’importanza della ri-localizzazione, della ri-distribuzione, di un consumo e una produzione più consapevoli, di orientare la ricerca verso nuovi obbiettivi socio-economici. Salvo poi non specificare come si possano raggiungere questi punti, trasformando completamente una sistema produttivo che è ormai radicato nella società. Il programma di Latouche mi è sembrato un po’ la lista dei buoni propositi: un insieme di punti su cui nessuno può dissentire ma senza alcuna indicazione su come raggiungerli. Lo stesso Latouche, messo alle strette su domande che chiedevano concretezza, ha detto che il suo è più uno slogan che un vero programma.

Apprezzo molto l’opera di Latouche che, coniugando filosofia e spirito rivoluzionario ha portato alla ribalta l’importanza e l’urgenza del cambiare il modello di sviluppo attuale, per evitare che la riduzione di combustibili fossili o gli effetti dell’inquinamento portino presto a una società del catastrofismo o della disperazione.  Tuttavia, credo che lo sforzo vero da fare in questo momento, a livello intellettuale e politico, sia quello di fare un passo in più e, prendendo in considerazione la società e l’economia esistente, pensare a obbiettivi concreti e realizzabili per traghettarle verso un modello di sviluppo.

A.A.A. intellettuali con proposte concretizzabili per una riconversione cercasi.

Valentina



A New York sfila la moda sostenibile

26 10 2009

Dal 10 al 19 settembre si è tenuta a New York la consueta settimana della moda. In quanto appassionata ed impiegata del settore cerco sempre di tenermi aggiornata sulle novità ed i cambiamenti in atto nel sistema ed è così che sono venuta a conoscenza di alcuni eventi sulla moda sostenibile ospitati proprio in occasione della kermesse.  Ho fatto ciò che era nelle mie possibilità per potervi partecipare, ed ora sono qui a trasmettervi le sensazioni che ne ho ricavato.

Attraverso Twitter sono venuta in contatto con il progetto di Tara St. James, una giovane newyorkese che attualmente dirige Study NY, un’agenzia che si occupa di supportare e lanciare stilisti emergenti nel campo della moda sostenibile. Il suo progetto consisteva nel dar vita ad una piccola collezione di capi versatili e modellati a partire dalla forma più semplice di tutte: il quadrato. Pezze di stoffa quadrate cucite, drappeggiate, riprese e attorcigliate, ma mai tagliate. Questo per dimostrare come si possano creare abiti splendidi senza sprecare tessuto in ritagli. Tessuto, peraltro, non convenzionale: cotoni organici, tinti senza utilizzare sostanze inquinanti, e materiali di recupero, a creare splendide gonne e stole intrecciate a mano. La determinazione e la simpatia di Tara hanno fatto sì che lei riuscisse a raccogliere su Internet tramite donazioni spontanee quasi 7.000 dollari, che le hanno permesso di mettere in piedi una piccola sfilata durante la settimana della moda, proprio a New York, dimostrando quanto sia efficace e vincente il connubio eco-chic.

Sono stata, poi, ad una preview di moda etica: uno spazio espositivo, una sorta di fiera in cui numerosi stilisti ed artisti presentano ai visitatori le loro creazioni ad impatto zero: freschi ed eleganti abiti in tessuti naturali (Emesha); gioielli in oro, argento ed acciaio di recupero e pietre dure di scarto o estratte nel rispetto dell’ambiente e della salute dei lavoratori (Moonlight Jewelry by Alluryn, ma anche Castaway Design by Nick Vaverco, Alberto Parada ed Ana Gutierrez); deliziose clutch ricavate da gomma di pneumatici usurati (Passchal) o eleganti borse in pelle rivitalizzata e trattata (Redhanded Bags); caldi pullover ottenuti dalla filatura di …Bottiglie di plastica colorata . Opere d’arte di una moda che è consapevole del suo costo per il pianeta e che, proprio per questo, dall’alto delle passerelle abbassa lo sguardo sulla Terra e si serve di quello che è già stato prodotto, piuttosto che produrre dell’altro costoso Nuovo.

Negli States fioriscono sempre più spesso organizzazioni come quella di Tara St. James: non posso dimenticare di citare Bel Esprit (Debora Pokallus ne è la brillante presidentessa) che insieme a Nolcha ha organizzato gli eventi sulla moda sostenibile e che funge da vera e propria incubatrice per stilisti che vogliano intraprendere una carriera in questo ambito.

La moda che ho visto a New York mi è sembrata divertente, fresca. Sa di nuovo, di adesso, dei problemi dell’oggi e del domani. Soddisfa la necessità di reinvenzione originale propria di questi artisti contemporanei, che dispongono di materiali non convenzionali e di un nuovo stimolo a creare: la sfida dell’era moderna, salvare il pianeta dal riscaldamento globale. Il mercato della moda sostenibile è in costante crescita (stando ad un rilevamento di ICEA, Istituto di Certificazione Etica e Ambientale, esso attualmente genera un fatturato complessivo di 370 milioni di euro) e si auspica che possa prendere  sempre più piede, soprattutto tra le giovani generazioni. Non viene chiesto, tuttavia, a questa moda, di ridurre drasticamente l’impatto ecologico dell’uomo sulla Terra, né di risolvere in toto il problema dei rifiuti o di avere un ruolo chiave nella riduzione delle emissioni inquinanti. Certo, anche il settore tessile fa la sua parte nel quadro generale, ma la moda è moda, fa quello che sa fare: è un veicolo di espressione, di informazione e di cambiamento. Ecco, ci aspettiamo questo, che cambi i comportamenti e introduca una nuova sensibilità. Uno nuovo stile di vita ecocompatibile… Che vada di moda.

Silvia