I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina



Attenti al lupo

23 09 2009

Al summit delle nazioni unite a New York sul clima vanno di scena le sorprese.

Ad apertura di lavori, il presidente dell’Onu Ban Ki Moon ha attirato l’attenzione sull’importanza del raggiungimento di un nuovo accordo globale sui livelli di emissioni da raggiungere: dopo il mezzo fallimento del trattato di Kyoto, si vuole evitare che il summit di Dicembre a Copenhagen si traduca in grandi slogan ma con un nulla di fatto; “un falllimento sarebbe moralmente senza scuse, economicamente miope e politicamente folle”. Non usa mezzi termini Ban Ki Moon: il rischio del fallimento del summit è molto molto vicino e, dati alla mano, potrebbe causare una catastrofe ambientale non reversibile.

Come reagiscono le nazioni a questo appello? Al vertice, non mancano le sorprese. Le nazioni infatti che più si sono esposte in questo summit sono proprio gli Stati Uniti e la Cina, che come si ricorderà sono state finora le più restie ad impegnarsi su questi fronti, non aderendo al trattato di Kyoto e continuando a favorire politiche energetiche basate sui carburanti fossili. Rappresentando quindi a tutt’oggi due tra le nazioni più inquinanti in assoluto, il 24% del totale mondiale (del 2007) di emissioni di CO2 la Cina, il 21% l’America. Obama ha parlato di una svolta rispetto all’amministrazione Bush, sottolineando la gravità della situazione e prospettano un ruolo per l’America da paese leader nella green economy. Hu Jintao non è stato da meno, annunciando “tagli notevoli” alle emissioni entro il 2020. Posizioni impensabili anche solo due anni fa, con l’amministrazione Bush che negava l’evidenza dell’incombenza del disastro e la Cina che si nascondeva alle sue responsabilità di inquinatore dietro alla motivazione di essere un’ economia emergente.

Ma che fatti aspettarsi dietro a questi slogan altisonanti? A livello concreto sembra che le buone volontà dei due leader si trasformino in pochi progetti concreti e si scontrino con una effettiva resistenza nei loro paesi. A Washington le lobby del petrolio sono riuscite a fare arenare una legge sul risparmio energetico e anche nella Cina della crescita miracolosa molte aziende sono contrarie alla regolamentazione delle emissioni produttive, a favore di un liberismo selvaggio in materia di metodi di produzione e livelli di inquinamento permessi. Ma paradossalmente, queste problematiche sono le stesse che caratterizzano i cosiddetti “paesi virtuosi” in cui teoricamente dovrebbe rientrare anche l’Italia come parte dell’Unione Europea, first mover e aspirante leader nell’impegno di ridurre le emissioni e riconvertire l’apparato produttivo verso la green economy delle rinnovabili e dei prodotti e ridotto impatto ambientale. Nonostante i proclami e gli impegni fissati, sembra che non tutti gli stati europei saranno in grado di raggiungere gli obbiettivi fissati per il 2020. (Ogni riferimento all’Italia è, ovviamente, puramente casuale). Alle difficoltà effettive di riconvertire un apparato produttivo ancorato da decenni all’utilizzo di energie fossili e allo sfruttamento incontrollato delle risorse si aggiunge il problema dell’importanza di un cambiamento sinergico, in cui siano coinvolte tutte le nazioni. Che senso ha che noi investiamo tanto nella purificazione dei nostri impianti se poi in Cina, India e Russia vengono usati ancora impianti a carbone, utilizzati materiali tossici e sfruttate completamente le risorse naturali?

Il problema è che se uno stato inquina anche gli altri ne patiranno le conseguenze, e se non tutti partecipano alla lotta alla riduzione del buco sull’ozono e al fermare l’innalzamento della temperatura terrestre, i risultati saranno dimezzati: gli economisti parlerebbero di esternalità negative e di conseguenti comportamenti da free rider. Con le nazioni “virtuose” che si nascondono dietro i ritardi delle ultime della classe, e quest’ultimo dietro lo status di paesi emergenti.

Come uscire da quest’empasse? Affinchè tutti gli stati facciano la loro parte, è indispensabile il ruolo degli accordi internazionali. Grandi attese dunque, per il summit di Dicembre a Copenhagen. Soprattutto è necessario che quanto viene deciso sia poi effettivamente rispettato da tutti. Senza aspettative di condoni.

Valentina



Come trasformare una landa desolata (in una gallina dalle uova d’oro)

3 03 2009

Durante una pausa caffè il mio occhio distratto è caduto sull’ultimo numero del magazine del Financial Times, che questa settimana offriva uno special issue dedicato completamente all’ambiente. La mia attenzione è stata attratta da una foto molto significativa: un bel primo piano di un ciuchino con sullo sfondo una pala eolica. Capite che non potevo che prendere in mano il magazine per interpretare questo insolito soggetto. Incuriosita, ho scoperto che quello non era un asino qualunque, ma un asino dell’Alto Mihno, una delle più desolate zone del portogallo, caratterizzata solo da lande sperdute battute dal vento, poche fattorie ma tante pecore. E asini, ovviamente.

Ma negli ultimi cinque anni il panorama è decisamente cambiato. Assolutamente coinvolta nella lettura, ho scoperto infatti che recentemente, a far compagnia a ciuchino, sono state installate anche 120 turbine eoliche che, con i loro 530GWh di elettricità prodotta all’anno, riescono coprire il 53% dei bisogni della popolazione locale. E per il futuro l’ambizione è ancora più grande: per il 2020 il ministro dell’economia Pihno, ideatore del nuovo green deal portoghese, promette (e i dati di crescita della produzione attuali sembrano confermare in pieno le sue parole) che il Portogallo produrra più del 60% della sua elettricità e il 31% dela sua energia da fonti rinnovabili.

Insomma, in pochi anni il Portogallo è passato da fanalino di coda dell’economia europea a paese leader per quanto riguarda le enrgie rinnovabili.

Perchè? Il ministro Pinho, prestato alla politica dal mondo della finanza, ha dichiarato di “essere stato convinto che un paese piccolo come il Portogallo non poteva essere grande in tutto, ma sapeva che -per non rimanere definitivamente tagliato fuori- doveva essere molto grande in qualcosa”. E dove investire quindi? Per un paese povero di risorse naturali, così come di tradizioni industriali, la via dell’energie rinnovabili ha rappresentato un lampo di genio. Risolvendo da un lato la dipendenza energetica, dall’altro stimolando un settore innovativo quanto lucrativo.

Come? Secondo Pinho, il trucco perchè le rinnovabili diventino un vero business sta nel “raggiungere i minimi di scala, rafforzare la competizione tra produttori e creare i giusti incentivi per attirare investimenti privati”. I portoghesi lo hanno fatto con un sistema di fee-in-tariffs, che consiste in una promessa di acquisto di energia da produttori di energia pulita a prezzi più alti del mercato per un periodo, il che asicura una stabilità negli incentivi nel medio-lungo termine. E sembra che questo meccanismo abbia davvero funzionato, accellerando il tasso di innovazione così come la capacità installata, tanto che ora i prezzi dell’energia eolica sono praticamente allo stesso livello di quelli dell’energia da fonti fossili.

Installare questa capacità produttiva non è stato certamente semplice, tra problemi logistici e finanziari. Ma l’ottica di investimento nelle rinnovabili di medio termine ha sicuramente pagato. Secondo i calcoli del ministero, per il 2020 gli investimenti in energie rinnovabili -il Portogallo ha investito pesantemente anche nel solare, costruendo il parco solare più grande al mondo, n.d.r.- porteranno a un risparmio di 440 milioni di euro in costi di carburante nonchè un aggiuntivo risparmio di 100 milioni in emissioni di Co2 risparmiate, agli attuali prezzi del mercato europeo delle emissioni di gas serra.

Quali sono le lezioni per l’Italia? Primo, che attraverso le rinnovabili  è possibile guadagnare e valorizzare aree altrimenti spopolate e industrialmente povere. Secondo, che per supportare tali industrie è necessario un adeguato business model, che acconti anche di incentivi di medio-lungo termine per il settore privato. Terzo, che non possiamo più guardare al Portogallo come fanalino di coda, per consolarci delle nostre magre performance. Guardando meglio la foto, mi sembra che il ciuchino portoghese mi strizzi l’occhio.

Valentina



Il Grande Fratello si tinge di verde

21 11 2008

La sostenibilità ambientale è ormai diventata una questione di costume. Lo so con certezza, dopo aver scoperto che esiste un Grande Fratello versione eco-sostenibile, con tanto di gruppo su YouTube che ne raccoglie “il meglio di”. Il programma in questione si chiama the Human Network Live Effect, ed è un programma, tutto on-line, che raccoglie le dirette su una casa ad emissioni zero e la vita dei suoi cinque abitanti, blogger, giornalisti, professori e una Perego di turno, a fare da presentatore e mediatore delle varie discussioni e interviste che hanno luogo nella casa. Il posto di Endemol è stato coperto da Cisco che ha fornito anche avanzate tecnologie di comunicazione e di rete, insieme ad altre aziende attive nel campo della sostenibilità come il Gruppo Loccioni, Enel e Whirpool. L’idea del format è originale: mettere in onda un esempio di come si possa vivere (almeno per una settimana) in modo assolutamente sostenibile. A partire dalla casa, tecnologicamente innovativa, fornita di pannelli solari termici e fotovoltaici, con soluzioni di building automation e dotata di monitoraggio continuo della qualità dell’aria interna e di ventilazione meccanica con recupero di calore. La casa è addirittura dotata di una micro centrale elettrica nonchè di sistema di produzione, stoccaggio e riutilizzo di idrogeno per la generazione elettrica. Ma nella Leaf Community non si vive solo in una casa a zero emissioni di CO2: ci si sposta con mezzi elettrici o ad idrogeno, si portano i bambini in una scuola ad energia solare e si lavora in edifici ecocompatibili che funzionano grazie all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili.

Il programma sembra davvero completo, ed è stato arricchito dalla presenza di varie guest star, da Federico Moccia a Jovanotti, che sono state intervistate dagli inquilini sulle tematiche della sostenibilità.

Un piccolo esperimento, sicuramente a basso impatto non solo sull’ambiente ma anche sull’opinione pubblica, ma di certo un caso interessante di come si possano comunicare e realizzare, in maniera innovativa, i concetti dell’eco-sostenibilità.

Valentina



Se un giorno, a Venezia, la mobilità sostenibile…

27 09 2008

Sono venuta a sapere per caso surfando in internet quello che sta per accadere nella mia città di adozione, Venezia. Le magie dell’informatica.

A quanto pare, sono rimasta finora all’oscuro della rivoluzione del momento, che stravolgerà la locomozione in città e in tutte le municipalità che compongono il comune dell’acqua alta e del campanile di San Marco. Il progetto in questione si chiama Ticket Mobilità ed è stato realizzato dall’assessorato alla mobilità del trafficatissimo comune insieme ad alcune aziende di servizi. L’idea di base è semplice quanto ambiziosa: utilizzando i Ticket, che avranno un valore da 1 a 258 euro, i dipendenti delle aziende aderenti  potranno acquistare, presso gli esercizi convenzionati, auto bifuel e biciclette, biglietti per il trasporto pubblico collettivo o individuale o servizi quali il Car Sharing. Insomma, uno stratagemma per stimolare cittadinanza e imprenditori verso l’adozione di misure di mobilità sostenibile che possano aumentare l’efficienza del trasporto e ridurre le emissioni inquinanti sul territorio.

Una risposta, tutta veneziana, ad un problema che caratterizza moltissime delle città moderne: l’inquinamento e della congestione da traffico, alla quale altre grandi città stanno cercando una soluzione. La Spagna di Zapatero ha già destinato dei fondi per raggiungere nel 2014 l’obbiettivo di un milione di auto elettriche in circolazione, mentre Berlino risponde con E-mobility Berlin che prevede dei punti di ricarica veloce per auto elettriche e ibride, e la diffusione di auto a batteria di nuova generazione. Riuscirà Ticket Mobilità a centrare l’ambizioso obbiettivo di creare un sistema di mobilità sostenibile, proponendosi da esempio per altre amministrazioni locali italiane?

Valentina



La tecnologia salverà il mondo

5 07 2008

Siamo stati abituati a pensarlo per gran parte della nostra storia di umanità: la tecnologia, forma attraverso la quale si materializza il progresso, apporta dei miglioramenti indispensabili e utili alla vita dell’uomo. Ora molti scienziati ed imprenditori stanno scommettendo sul fatto che la tecnologia potrà salvare anche la terra dagli effetti negativi e dalle trasformazioni, secondo alcuni irreversibili, che l’attività umana sta apportando nell’ecosistema.
Effetto serra, cataclismi climatici, innalzamento delle temperature e del livello delle acque sono ormai minacce la cui veridicità è presa ormai per assodata.
Ma nonostante i molti allarmisti, i documentari d’autore, i rapporti scientifici di stimati istituti di ricerca e ministeri di mezzo mondo, che dimostrano come la colpa di questi cambiamenti dipenda dall’attività dell’uomo, gli inquilini del pianeta sembrano non volerne sapere di cambiare il proprio stile di vita.

E allora se non si possono eliminare le cause, perchè non agire sugli effetti? Questa almeno sembra essere la visione di molti scienziati, e, ancora più interessante di molti imprenditori. Secondo un recente articolo pubblicato da repubblica, solo in America sono almeno 400 le aziende private la cui missione societaria è la riduzione della CO2 emessa. E ancora più interessante, è sapere che la società di consulenza Point Carbon stima che in soli 2 anni il numero di queste aziende di Geo-engineering sarà tre volte più grande, forse anche di più, se la prossima amministrazione americana introdurrà dei tetti più stringenti all’inquinamento industriale.

Le proposte avanzate da queste società sono le più disparate e alcune ricordano delle soluzioni da fumetti Marvel. Come quella proposta dalla Global Research Technologies che produce aspiratori giganti in grado di assorbire l’anidride carbonica dall’aria e, attraverso una serie di reazioni chimiche, trasformarla in materiali inerti da seppellire in località isolate.
O quella proposta dal premio nobel Paul Crutzen di spruzzare delle specie di mega-aerosol di zolfo nella stratosfera per schermare la luce del sole e raffreddare la Terra. O quella proposta da Climos e Planktos, che propongono un simile approccio ma nel profondo dei mari, disseminando gli oceani con polvere di ferro per aumentare la presenza di fitoplancton, che è in grado di assorbire CO2.

Efficaci soluzioni o progetti allampanati? Difficile dirlo. Sicuramente però, un business interessante, se perfino l’influente think tank dell’American Enterprise Institute gli ha dedicato un convegno e se il numero di aziende che scelgono si scommettere su questo settore è in aumento esponenziale.

Valentina



E se l’insostenibilità invertisse la globalizzazione?

28 06 2008

Il mondo si sta allargando: dopo anni di frenesia delocalizzativa in Cina e in altri paesi del lontano oriente, le aziende cominciano a riavvicinare la produzione, a livello nazionale o locale.
E il motivo sembra essere non tanto un ritorno a politiche autarchiche o questioni finanziarie, sociali o culturali. Il motivo è il persistente, costante aumento del prezzo del petrolio.

Siamo abituati a pensare alle tematiche legate alla sostenibilità ambientale come ad argomenti per aziende visionarie o gruppi di consumatori più sensibili di altri, problematiche legate a determinate classi di prodotti e destinate ad impattare solo per alcune strategie aziendali. Un recente rapporto per la maggiore banca di investimenti canadese, la CIBC, curato da Jeff Rubin e Benjamin Tal ci stimola a rivedere questa idea. La globalizzazione, affermano, è reversibile. Il problema è legato al fatto che la maggior parte di questo commercio internazionale, quasi il 90% in tonnellate, si sposta via mare, mezzo per il quale, soprattutto per prodotti di grandi volumi, l’incidenza del costo del petrolio è molto alta, tale da annullare molti dei vantaggi che si erano creati con la riduzione dei dazi doganali o il differenziale nei costi di manodopera.
Lo studio di Rubin e Tal fa un interessante raffronto tra il costo di trasporto e i dazi: ai prezzi attuali, è come se ci fosse un dazio del 9% sulle importazioni, che, se il petrolio raggiungesse i 200$ a barile, salirebbe all’11% tariffa media durante i lontani anni ’70. Se il petrolio mantenesse i prezzi attuali, alcuni studiosi hanno valutato che il commercio mondiale potrebbe ridursi addirittura del 17%.

In America hanno già cominciato a raccontare le prime storie di imprese che sono tornate a produrre in patria, dall’azienda di divani alla produttrice di batterie elettriche dell’Ohio, e importanti consulting agency come Deloitte hanno già cominciato a produrre rapporti su come le aziende possono trarre il meglio dalla neo-coniata de-globalizzazione.
In Italia, mi sembra che ancora poca attenzione è stata posta su questa conseguenza secondaria dell’aumento della bolletta energetica, che pure ha il potenziale di stravolgere i principali assetti economici ed organizzativi degli ultimi dieci anni. Sicuramente molte delle aziende italiane stanno prendendo in seria considerazione questo cambiamento, pensando magari di spostare le proprie rotte dalla lontana Cina a più vicine ma sempre economiche mete dell’Europa dell’est.
Luci puntate sulle aziende italiane che hanno fatto dell’internazionalizzazione il loro principale vantaggio competitivo, dunque, e in primis su quelle imprese che avevano spedivano e ri-importavano semi-lavorati, per far produrre alcune fasi della produzione nel lontano oriente.
Un’altra sfida che i nostri imprenditori italiani devono trasformare in opportunità.

Valentina



Aziende e ambiente secondo il rapporto ISTAT

13 06 2008

Per la prima volta nella storia del rapporto annuale ISTAT, il capitolo che analizza le imprese prende in considerazione alcuni aspetti ambientali delle attività produttive, dedicando un approfondimento focalizzato sull’evoluzione quantitativa e qualitativa della spesa delle imprese per i servizi ambientali. Il rapporto parte da una prima distinzione di base tra le aziende il cui business è proprio la produzione e la vendita di servizi ambientali e le aziende che, invece, auto-producono servizi ambientali nel senso che svolgono attività per ridurre emissioni e inquinamento generate dalle proprie attività produttive specifiche. Un punto di vista interessante che guarda sia allo sviluppo di un nuovo settore, che all’evoluzione verso atteggiamenti più sostenibili di aziende fino a qualche anno fa totalmente straniere a queste materie e che rappresentano il tessuto produttivo italiano, dal tipico Made in Italy a, e soprattutto, l’industria pesante.

Per quanto riguarda il primo gruppo, cresce soprattutto il comparto della gestione dei rifiuti (che rappresenta il 0,33% del PIL, con un aumento del 32,7% del valore aggiunto in termini di PIL dal 1997 al 2006). Ancora più interessante è notare come, a differenza di quanto accadeva 10 anni fa, più dell’80% di questi soggetti sono aziende private, non utilities legate alle pubbliche amministrazioni. Insomma, scommettere nell’ambientale paga, e sempre più aziende si stanno ricavando uno spazio in questo settore.

Ma non per tutti i servizi ambientali specializzati sono rose e fiori. Il comparto delle imprese fornitrici di servizi idrici ha subito, dal 1997, una flessione del 4,5% di valore aggiunto in termini di PIL. Perchè questa controtendenza?
Perchè sempre di più le aziende italiane, le concerie di Arzignano o i produttori di piastrelle di Sassuolo hanno cominciato ad internalizzare i servizi ambientali, spendendo sempre di più in attività per la protezione dell’aria e del clima.

Chi sono dunque le aziende che si occupano di eco-sostenibilità in Italia? Secondo il quadro che ci fornisce ISTAT, il panorama italiano è più variegato di quello che ci si potrebbe aspettare: i servizi per la protezione dell’ambiente non sono più puro appannaggio di specialisti, pubblici o privati. Sempre di più, chi investe nella tutela dell’ambiente sono le aziende che compongono il tessuto produttivo tipico italiano, che sviluppano competenze interne per ridurre l’impronta ecologica della loro produzione.



Non ci sono più le stagioni

30 04 2008

Almeno per quanto riguarda il cibo fresco.
Negli Stati Uniti, FreshDirect ha proclamato che la stagione dei kiwi si è estesa a tutto l’anno, grazie all’ingresso prepotente dei produttori italiani nel settore, che si sostituiscono alla produzione neozelandese nella stagione invernale dell’emisfero australe.
Da sempre il cibo ha viaggiato da una parte all’altra del globo (basta ritornare indietro con la memoria alle importazioni di te attraverso la via della seta o di mais e cioccolato dalle Americhe Colombiane); la novità è semmai l’entità di questo traffico. E, stando a quanto riportato in un recente articolo del NYT, i principali destinatari di questo traffico siamo proprio noi Europei, con un aumento dell’import di cibarie varie del 20% negli ultimi 5 anni. Negli Stati Uniti la crescita è stata ancora più forte, raddoppiando dal 2000 al 2006.

Che c’è di strano in questo esempio di globalizzazione dei mercati? C’è che questo commercio ha dei costi ambientali spaventosi. Il principale problema di questo business è legato ai costi ambientali derivanti dal trasporto di frutta e verdura da una parte all’altra del globo. Si è gia discusso, in questo stesso blog, di quanto forte sia il ruolo dei trasporti nell’inquinamento globale, sia in Italia che all’estero.
La diversità nei costi del lavoro tra diverse nazioni genera dei flussi logistici bizzarri. Il merluzzo norvegese che arriva sulle nostre tavole è in realtà stato filettato in Cina, per essere poi riportato in Norvegia per la vendita. La Gran Bretagna importa ed esporta 15.000 tonnellate di waffles all’anno e scambia 20 tonnellate di bottiglie di acqua con l’Australia. Inoltre, importa oltre il 95% della frutta e più della metà della verdura che viene venduta nei banchi dei supermercati britannici.

Oltre a dei ridotti costi del lavoro, altro fattore che ha stimolato la globalizzazione del cibo è una contestuale drastica riduzione dei costi di trasporto. Il fatto è che, tra questi costi, non vengono considerati i costi ambientali di questo trasporto, che rimangono un’esternalità negativa, non contabilizzata dalle aziende trasportatrici ma subita dall’ambiente.
Ma il problema, legato al trasporto del cibo fresco non si esaurisce nella contabilizzazione dei costi ambientali legati alle emissioni del trasporto. Molte delle catena di supermercati incriminate, infatti, si difendono sottolineando, per certi versi a ragione, come in alcuni casi l’importazione implichi minori emissioni in atmosfera, evitando infatti in questo modo l’utilizzo energetico legato alla coltivazione in serre o alla refrigerazione.

La gravità della situazione ha spinto l’Unione Europea a proporre di incorporare i costi ambientali nel prezzo finale dei prodotti. La Svizzera ha già imposto delle tasse sui camion che attraversano i propri confini.
Il fatto è che il consumatore europeo, svizzero o americano è stato abituato a trovare qualsiasi tipo di frutta e verdura fresca ogni volta che lo voglia a prezzi relativamente convenienti. Alcune delle maggiori catene di supermercati, come il leader britannico Tesco propongono un sistema di etichettatura che permetta al consumatore di conoscere l’impronta ecologica di ogni prodotto.
Ma sarà davvero lo scaricare l’onere della scelta al consumatore finale la soluzione ad un problema ecologico di tale portata?

Valentina



Earth Day e emissioni all’italiana

22 04 2008

Il 22 aprile del 1970 in America nasceva il “giorno della terra”. A quasi quarant’anni dalla sua fondazione, 174 paesi ospitano eventi, concerti e manifestazioni varie per richiamare l’attenzione sulla necessità di combattere i cambiamenti climatici, nella settimana in cui anche il Time dedica un articolo di copertina al global warming (abbandonando, per la seconda volta in 85 anni, lo storico bordo rosso della copertina per un verde ambientalista).

E in Italia come siamo presi in termini di inquinamento ed emissioni? E’ recente un rapporto dell’Istat che punta l’indice contro le attività produttive come le principali responsabili delle emissioni atmosferiche nocive. Secondo questo studio, nel 2005 ben l’80% delle emissioni responsabili dell’effetto serra erano state prodotte dall’industria. E le accuse contro il sistema produttivo italiano non si fermano qui: secondo Istat sono da annoverare a questi soggetti anche il 90% delle emissioni che sono all’origine del fenomeno dell’acidificazione e più del 60% delle emissioni di gas responsabili della formazione dell’ozono troposferico. Quanto al resto, gran parte dell’inquinamento è dovuto al trasposto privato, ai SUV o alle cinquecento che ogni giorno cercano di aprirsi un varco nel traffico cittadino e, anche se in misura minore, al riscaldamento domestico e agli usi di cucina. I dati, che si riferiscono al periodo 1990-2005, provengono dagli aggregati Namea (National accounting matrix including environmental accounts) e identificano un ruolo importante anche per il settore del trasporto. Il trasporto in conto proprio, cita il rapporto, rappresenta la causa principale delle emissioni per la maggior parte degli inquinanti (CO, COVNM, NOx) di tali emissioni, la parte dovuta alla funzione trasporto è pari rispettivamente all’84% circa, al 67% circa e a oltre il 75%. La seconda funzione di consumo in ordine di importanza è rappresentata dal riscaldamento, che per la CO2 incide per oltre il 50%.

Mentre in tutto il mondo si festeggia la sensibilità ambientale di massa con l’Earth Day, (a Roma si stanno spegnendo ora le luci di un concerto in piazza Campidoglio…), in Italia si accendono i riflettori su un nuovo governo, al quale, questi dati e le considerazioni portate alla ribalta in questo giorno di coscienza ambientalista collettiva, lanciano molti appelli.

Valentina