Il mercato non è sempre una strategia fallimentare quando si parla di ambiente: Europa insegna ad America 1 a 0

1 04 2010

è quello che ho imparato  alla conferenza a Duke University per la presentazione del nuovo libro di Ellerman (MIT), Convery (University College Dublin) e De Perthuis (University Paris-Dauphine) sul mercato delle emissioni in Europa.

Può sembrare strano aver fatto tanta strada per venire in America, per sentire parlare della situazione di casa. Ma il contributo più interessante del libro non è una mera analisi della funzionalità dello strumento messo a punto dalla comunità Europea per ridurre le emissioni e stimolare le produzioni più green, ma piuttosto l’averlo reso un mezzo di paragone per gli altri stati, USA in primis, che faticano a riconoscere i benefici di un’economia verde.

Il libro e la presentazione, partono giustamente da un’analisi storica, individuando tra le ceneri delle iniziative riguardanti la carbon tax o il raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto il punto di partenza di quello che diventerà il più efficiente sistema di riduzione delle emissioni al mondo. La maggiorata attenzione ai cambiamenti climatici, un clima favorevole a livello politico e di industria, forti pressioni da parte di NGO e associazioni di consumatori hanno sostenuto l’approvazione della direttiva che, a partire dal 2005, ha previsto limiti alle emissioni degli stabilimenti europei nei settori dell’energia, industria siderurgica, dei prodotti minerali, ceramica e della carta. Il meccanismo sottostante il sistema ibrida forme di regolazione pura -attraverso l’individuazione dei settori che per legge devono rispettare queste norme – con quelle di mercato – permettendo un mercato dei diritti di emissione con prezzi determinati dal libero mercato, in pieno stile Chicago School.

Gli autori del libro sottolineano l’efficacia del sistema: in 3 anni si è assistito ad una riduzione delle emissioni compresa tra il 2 e il 6% del totale. Cifra molto al di sotto degli obbiettivi del 20% fissati per il 2020, ma che rappresentano il miglior risultato di sempre in termini di politiche atte a ridurre le emissioni. Vantaggi interessanti sono stati rilevati anche dal lato economico, con lo sbocciare di nuovi intermediari e con il coinvolgimento di molti più siti di quelli strettamente previsti dalla legge. Il libro non prende in analisi gli impatti della crisi, ma gli autori sono convincenti nello spiegare che il mercato delle emissioni pur non essendone immune, resiste alla congiuntura negativa, soprattutto grazie alla presenza di reali vantaggi economici di cui hanno beneficiato molti soggetti avvallando le richieste di questo mercato “artificiale”.

Un sistema con difetti e risultati non sempre strabilianti, ma che, a detta degli autori, finora è il migliore esempio di accordo sovra-nazionale in termini di risultati ambientali e impatti a livello economico. Interessante notare il fervore con cui professori americani superavano il tradizionale orgoglio nazionale per documentare un successo d’oltreoceano. L’obbiettivo del libro, e della relativa conferenza, erano proprio quelli di capire per imparare e replicare. In un congresso che ha appena faticato ad approvare la riforma sanitaria non è pensare chiedere in tempi brevi di legiferare su un altrettanto discusso argomento. Tuttavia gli autori sono convinti che applicare in America o in altre zone del mondo un modello simile sia non solo auspicabile ma anche fattibile, seppure con grandi difficoltà. Un modello che come quello europeo possa funzionare nonostante l’eterogeneità degli stati membri e nonostante gli ineludibili svantaggi cui alcune aziende incorreranno nel breve-medio termine, grazie all’azione di un attore centrale che gestisca il sistema e che garantisca anche vantaggi “compensatori” agli stati partecipanti.



I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina



Attenti al lupo

23 09 2009

Al summit delle nazioni unite a New York sul clima vanno di scena le sorprese.

Ad apertura di lavori, il presidente dell’Onu Ban Ki Moon ha attirato l’attenzione sull’importanza del raggiungimento di un nuovo accordo globale sui livelli di emissioni da raggiungere: dopo il mezzo fallimento del trattato di Kyoto, si vuole evitare che il summit di Dicembre a Copenhagen si traduca in grandi slogan ma con un nulla di fatto; “un falllimento sarebbe moralmente senza scuse, economicamente miope e politicamente folle”. Non usa mezzi termini Ban Ki Moon: il rischio del fallimento del summit è molto molto vicino e, dati alla mano, potrebbe causare una catastrofe ambientale non reversibile.

Come reagiscono le nazioni a questo appello? Al vertice, non mancano le sorprese. Le nazioni infatti che più si sono esposte in questo summit sono proprio gli Stati Uniti e la Cina, che come si ricorderà sono state finora le più restie ad impegnarsi su questi fronti, non aderendo al trattato di Kyoto e continuando a favorire politiche energetiche basate sui carburanti fossili. Rappresentando quindi a tutt’oggi due tra le nazioni più inquinanti in assoluto, il 24% del totale mondiale (del 2007) di emissioni di CO2 la Cina, il 21% l’America. Obama ha parlato di una svolta rispetto all’amministrazione Bush, sottolineando la gravità della situazione e prospettano un ruolo per l’America da paese leader nella green economy. Hu Jintao non è stato da meno, annunciando “tagli notevoli” alle emissioni entro il 2020. Posizioni impensabili anche solo due anni fa, con l’amministrazione Bush che negava l’evidenza dell’incombenza del disastro e la Cina che si nascondeva alle sue responsabilità di inquinatore dietro alla motivazione di essere un’ economia emergente.

Ma che fatti aspettarsi dietro a questi slogan altisonanti? A livello concreto sembra che le buone volontà dei due leader si trasformino in pochi progetti concreti e si scontrino con una effettiva resistenza nei loro paesi. A Washington le lobby del petrolio sono riuscite a fare arenare una legge sul risparmio energetico e anche nella Cina della crescita miracolosa molte aziende sono contrarie alla regolamentazione delle emissioni produttive, a favore di un liberismo selvaggio in materia di metodi di produzione e livelli di inquinamento permessi. Ma paradossalmente, queste problematiche sono le stesse che caratterizzano i cosiddetti “paesi virtuosi” in cui teoricamente dovrebbe rientrare anche l’Italia come parte dell’Unione Europea, first mover e aspirante leader nell’impegno di ridurre le emissioni e riconvertire l’apparato produttivo verso la green economy delle rinnovabili e dei prodotti e ridotto impatto ambientale. Nonostante i proclami e gli impegni fissati, sembra che non tutti gli stati europei saranno in grado di raggiungere gli obbiettivi fissati per il 2020. (Ogni riferimento all’Italia è, ovviamente, puramente casuale). Alle difficoltà effettive di riconvertire un apparato produttivo ancorato da decenni all’utilizzo di energie fossili e allo sfruttamento incontrollato delle risorse si aggiunge il problema dell’importanza di un cambiamento sinergico, in cui siano coinvolte tutte le nazioni. Che senso ha che noi investiamo tanto nella purificazione dei nostri impianti se poi in Cina, India e Russia vengono usati ancora impianti a carbone, utilizzati materiali tossici e sfruttate completamente le risorse naturali?

Il problema è che se uno stato inquina anche gli altri ne patiranno le conseguenze, e se non tutti partecipano alla lotta alla riduzione del buco sull’ozono e al fermare l’innalzamento della temperatura terrestre, i risultati saranno dimezzati: gli economisti parlerebbero di esternalità negative e di conseguenti comportamenti da free rider. Con le nazioni “virtuose” che si nascondono dietro i ritardi delle ultime della classe, e quest’ultimo dietro lo status di paesi emergenti.

Come uscire da quest’empasse? Affinchè tutti gli stati facciano la loro parte, è indispensabile il ruolo degli accordi internazionali. Grandi attese dunque, per il summit di Dicembre a Copenhagen. Soprattutto è necessario che quanto viene deciso sia poi effettivamente rispettato da tutti. Senza aspettative di condoni.

Valentina



Quanto peso?

1 07 2009

Domanda legittima in tempi d’estate e vacanze al mare. Ma non è la ricerca del peso forma di cui vi voglio parlare oggi. O meglio, non delle tecniche per riuscire a strizzarsi di nuovo nei vestitini dell’anno scorso. Piuttosto di una simpatica iniziativa che calcola le emissioni di anidride carbonica.

La potenza di internet: cosa non si può trovare girando un po’ per le pagine del web. Mi riferisco all’iniziativa realizzata dalla regione Toscana insieme ad altri enti e associazioni che combattono i cambiamenti climatici per sensibilizzare i consumatori del futuro a comportamenti più ambientalmente sostenibili. DimagrisCO2 è un iniziativa e un concorso per stimolare e valorizzare scelte di consumo più consapevoli e a minor impatto ambientale tra studenti delle scuole della Toscana.

E se ti dicessi che pesi ben 8.000 kg? La domanda iniziale della campagna colpisce subito al cuore l’adolescente in crisi di fiducia in se stesso. E stimola il concorso, che consiste nella realizzazione di appositi comportamenti dietetici, dalla sostituzione delle lampadine a incandescenza al riciclo, con tanto di schedina dove annotare i risultati ottenuti nel mese. Il risultato dovrebbe essere la riduzione deli 8.000 kg procapite di emissioni di Co2 emesse all’anno (pari sembra, al peso di due elefanti di media grandezza)  ma soprattutto la sensibilizzazione del singoli consumatore sull’importanza del suo ruolo nella battaglia contro l’inquinamento e i cambiamenti climatici.

La proposta lanciata da questa iniziativa è un po’ vecchiotta (i vincitori hanno già goduto delle gite organizzate in Toscana come premi per le classi che dimagrivano di più) ma non è certo la sola che punta alla riduzione delle emissioni di Co2 grazie al ruolo attivo del consumatore.

Come ad esempio l’iniziativa “Quanto pesa?” realizzata da Valcucine in collaborazione con Zona Tortona ed il politecnico di Milano. Con una serie di messaggi, volantini e cartellonistica vengono comunicati l’impatto in termini di emissioni di anidride carbonica di semplici azioni quotidiane (notevoli il calcolo del peso del raffreddore e dell’aspettare il verde…). O il percorso di AzzeroCO2 che ha creato un interessante modello di business nel supportare cittadini, imprese e enti pubblici nel contrastare attivamente i cambiamenti climatici. Tramite il loro sito è possibile calcolare le emissioni di azioni quotidiane per poi, spaventati dagli alti valori di inquinanti emessi, individuare interventi diretti finalizzati a ridurre i consumi di energia e emissioni e neutralizzare le emissioni residue attraverso interventi indiretti.

Su internet le più varie iniziative impazzano: il punto interessante è analizzare il ruolo che internet può avere nella diffusione di comportamenti d’acquisto e di consumo più responsabili e rispettosi delll’ambiente. Il problema che da più parti viene sottolineato è l’ignoranza del consumatore sull’impatto delle proprie azioni e sulle alternative disponibili. Che internet possa avere un ruolo positivo in questo senso? In effetti, da sempre si è caratterizzato per rendere possibile la più ampia diffusione di conoscenze e informazioni e rendere possibile iniziative e progetti altrimenti impossibili (serve riferirsi all’open source?)

Nelle prossime puntate più riflessioni dall’esempio della piattaforma americana Carbonrally.

Valentina



Dalla crisi allo sviluppo (sostenibile): c’è posto per l’Italia?

8 06 2009

Sempre di più si sente parlare del potenziale economico dei green jobs. Per alcuni sembrano essere gli unici lavori che riusciranno a tenere anche in tempo di crisi. Per altri rappresentano un maquillaque definitorio per ottenere finanziamenti da enti pubblici, avidi di investire in progetti etico-buonisti per rabbonire la folla di elettori inbufaliti dalla disastrata situazione economica e dalle scarse prospettive future.

In un altro post abbiamo già cercato di capire cosa si nascondesse dietro a questo nome intuitivo quanto generico e ci siamo stupiti a commentare gli elevati posti di lavoro che il settore delle rinnovabili, della gestione dei rifiuti e legati al raggiungimento dell’efficienza energetica impiegano e impiegheranno a livello mondiale.

Ma quale ruolo gioca l’Italia in questo nuovo scenario?

La domanda è più che legittima. Lo sviluppo green sembra essere infatti maggiormente uno sviluppo hi-tech, legato alla produzione di nuove sofisticate tecnologie o, anche se legate a tecnologie ormai consolidate come quella del fotovoltaico, in cui non abbiamo competenze nelle lavorazioni principali (silicio in primis). L’Italia, si sa, non è mai stata famosa per le innovazioni hi-tech: le competenze che per anni hanno fatto brillare la nostra stella nel mondo sono competenze manifatturiere, al limite dell’artigianale, in settori low-tech. Ovviamente questa è una fotografia statica, che guardando all’aggregrato dimentica i vari casi di successo legati al settore del multimediale, le innovazioni in nano tecnologie e le aziende italiane che si sono affermate con innovazioni hi-tech radicali. Ma questi casi di successo sono ancora in minoranza, soprattutto se confrontati con realtà come quella tedesca e americana.

Dobbiamo quindi dedurre che l’Italia sia fuori da questo possibile miracolo economico verde?

Uno studio recentemente realizzato del centro IEFE dell’università Bocconi per il Gestore dei Servizi Elettrici ha analizzato il potenziale occupazionale ed economico legato allo sviluppo e alla produzione delle rinnovabili in Italia. Lo studio individua tre possibili scenari, in base alla capacità del tessuto industriale nazionale di accettare la sfida tecnologica e concorrenziale.
Nel peggiore degli scenari gli studiosi dello IEFE prevedono un livello occupazionale che non potrà superare le 100.000 unità in 12 anni, con un alta dipenenza dall’estero per la tecnologia, importata per il 70% del fabbisogno interno.

Nello scenario di mezzo invece i ricercatori IEFE prevedono una situazione in cui gli imprenditori italiani accolgano la sfida in modo parziale. L’idea è che il fabbisogno di tecnologie pulite sia coperto specialmente da aziende specializzate in tecnologie “convenzionali” che diversificano il portafoglio prodotti con nuove tecnologie rinnovabili, andando a coprire quindi il 50% del mercato con la produzione nazionale.

Nel migliore dei casi invece è fatta la previsione di uno spostamento del manifatturiero italiano verso la filiera produttiva delle tecnologie rinnovabili, coprendo fino al 70% del mercato nazionale. Il fatturato previsto nei 12 anni, tempo soglia per raggiungere gli obbiettivi fissati dalla direttiva europea 20-20-20, toccherebbero soglia 70 miliardi, attraverso l’impiego di 175.000 occupati.

Il passaggio ad un economia pulita non può avvenire di colpo, con una ristrutturazione istantanea ed indolore del tessuto manifatturiero esistente. Riconoscere i costi e i tempi di questo passaggio è un primo passo essenziale per intraprendere una strada concreta in questa direzione. E tuttavia, in un’ottica di medio-lungo termine, quello che anche lo stuio IEFE ci suggerisce è che è possibile contare su una sinergia tra le competenze e la base produttiva esistente e le nuove tecnologie che sempre di più il mercato richiederà, spinto dall’azione costante del legislatore. La scorsa settimana ho assistito ad un convegno in cui si è affrontato il tema della crisi che sta colpendo il sistema industriale italiano e alcuni comparti, come il meccanico, in particolare. Il rapporto IEFE suggerisce che una valorizzazione mirata delle competenze esistente, mescolata con una coraggiosa “distruzione creativa” possono portare anche l’Italia low tech a competere con successo in un mercato, quello delle green tecnology, che si presenta come altamente redditizio.

Valentina



Un tuffo nel porto

31 03 2009

Sebbene sia arrivata la primavera, le temperature danesi sono ancora ben lontane dall’essere da permettere le mezze maniche. E mentre fuori piove il pensiero viaggia verso lidi tropicali e il caldo tepore delle spiagge. Ma oggi ho scoperto che non serve che vada tanto lontano per fare un bagno. La spiaggia più vicina è proprio in centro città. Di più, la spiaggia più vicina è proprio davanti al porto.

Per capire la portata di questa notizia bisogna fare qualche passo indietro nel tempo. Per molto tempo gli scarichi industriali, i saltuari sversamenti di petrolio dal porto e le acque reflue delle fogne hanno inquinato le acque del porto della capitale danese, situato molto molto vicino al centro città, proprio come succede in quasi tutti gli altri porti del mondo. Più di 93 canali riversavano acque di scarico nel porto e delle zone costiere vicine, specialmente in situazioni di alte precipitazioni, che qui, mi sento di poter dire con abbastanza sicurezza ormai, non è certo un evento raro.

Dal 1995 l’amministrazione comunale ha però deciso di risanare la zona, costruendo tra l’altro dei canali e delle cisterne che agiscono a mo’ di riserva, per compensare il sistema fognario “ordinario” quando è sotto pressione. In più, la zona costiera è stata attrezzata con impianti di trattamento delle acque reflue che rimuovono dalle acque di scarto gli eventuali elementi nocivi e inquinanti. Grazie alla realizzazione di questi progetti di rimodernamento e riprogettazione delle fognature cittadine molti dei canali preesistenti sono stati chiusi e il riverso in mare delle acque reflue, assicurano compiaciuti i copenaghensi, avviene ormai solo in caso di nubifragi o cataclismi climatici.

L’acqua è diventata così pulita da essere stata paragonata a quella delle spiaggie più rinomate del sud dello stato. Pulita, ma così pulita, che è stato deciso di costruirci pure una spiaggia. Una spiaggia pubblica, che da quando è entrata in funzione nel 2002 è diventata uno dei luoghi di ritrovo cult della Copenhagen giovane e trendy. Vedere per credere. Una spiaggia artificiale realizzata da architetti di fama che permette ai cittadini  di tuffarsi nelle acque del porto, a due passi dalle strade pedonali del centro. E nel caso, per qualche strana congiuntura astrale le condizioni dell’acqua non fossero buone, niente paura. Un sistema di monitoraggio on-line controlla in tempo reale la qualità dell’acqua e se a sogila di sicurezza è raggiunta il bagno si chiude in un battibaleno.

La temperatura dell’acqua resterà sempre fredda, ma almeno la qualità è di un livello strabiliante, considerando che il porto nel 2008 ha ospitato più di 310 crociere che hanno scaricato in città 560.000 passeggeri.

Chiudo gli occhi e sogno di un giorno in cui potrò fare Porto Marghera – Venezia a nuoto.

Valentina



Come trasformare una landa desolata (in una gallina dalle uova d’oro)

3 03 2009

Durante una pausa caffè il mio occhio distratto è caduto sull’ultimo numero del magazine del Financial Times, che questa settimana offriva uno special issue dedicato completamente all’ambiente. La mia attenzione è stata attratta da una foto molto significativa: un bel primo piano di un ciuchino con sullo sfondo una pala eolica. Capite che non potevo che prendere in mano il magazine per interpretare questo insolito soggetto. Incuriosita, ho scoperto che quello non era un asino qualunque, ma un asino dell’Alto Mihno, una delle più desolate zone del portogallo, caratterizzata solo da lande sperdute battute dal vento, poche fattorie ma tante pecore. E asini, ovviamente.

Ma negli ultimi cinque anni il panorama è decisamente cambiato. Assolutamente coinvolta nella lettura, ho scoperto infatti che recentemente, a far compagnia a ciuchino, sono state installate anche 120 turbine eoliche che, con i loro 530GWh di elettricità prodotta all’anno, riescono coprire il 53% dei bisogni della popolazione locale. E per il futuro l’ambizione è ancora più grande: per il 2020 il ministro dell’economia Pihno, ideatore del nuovo green deal portoghese, promette (e i dati di crescita della produzione attuali sembrano confermare in pieno le sue parole) che il Portogallo produrra più del 60% della sua elettricità e il 31% dela sua energia da fonti rinnovabili.

Insomma, in pochi anni il Portogallo è passato da fanalino di coda dell’economia europea a paese leader per quanto riguarda le enrgie rinnovabili.

Perchè? Il ministro Pinho, prestato alla politica dal mondo della finanza, ha dichiarato di “essere stato convinto che un paese piccolo come il Portogallo non poteva essere grande in tutto, ma sapeva che -per non rimanere definitivamente tagliato fuori- doveva essere molto grande in qualcosa”. E dove investire quindi? Per un paese povero di risorse naturali, così come di tradizioni industriali, la via dell’energie rinnovabili ha rappresentato un lampo di genio. Risolvendo da un lato la dipendenza energetica, dall’altro stimolando un settore innovativo quanto lucrativo.

Come? Secondo Pinho, il trucco perchè le rinnovabili diventino un vero business sta nel “raggiungere i minimi di scala, rafforzare la competizione tra produttori e creare i giusti incentivi per attirare investimenti privati”. I portoghesi lo hanno fatto con un sistema di fee-in-tariffs, che consiste in una promessa di acquisto di energia da produttori di energia pulita a prezzi più alti del mercato per un periodo, il che asicura una stabilità negli incentivi nel medio-lungo termine. E sembra che questo meccanismo abbia davvero funzionato, accellerando il tasso di innovazione così come la capacità installata, tanto che ora i prezzi dell’energia eolica sono praticamente allo stesso livello di quelli dell’energia da fonti fossili.

Installare questa capacità produttiva non è stato certamente semplice, tra problemi logistici e finanziari. Ma l’ottica di investimento nelle rinnovabili di medio termine ha sicuramente pagato. Secondo i calcoli del ministero, per il 2020 gli investimenti in energie rinnovabili -il Portogallo ha investito pesantemente anche nel solare, costruendo il parco solare più grande al mondo, n.d.r.- porteranno a un risparmio di 440 milioni di euro in costi di carburante nonchè un aggiuntivo risparmio di 100 milioni in emissioni di Co2 risparmiate, agli attuali prezzi del mercato europeo delle emissioni di gas serra.

Quali sono le lezioni per l’Italia? Primo, che attraverso le rinnovabili  è possibile guadagnare e valorizzare aree altrimenti spopolate e industrialmente povere. Secondo, che per supportare tali industrie è necessario un adeguato business model, che acconti anche di incentivi di medio-lungo termine per il settore privato. Terzo, che non possiamo più guardare al Portogallo come fanalino di coda, per consolarci delle nostre magre performance. Guardando meglio la foto, mi sembra che il ciuchino portoghese mi strizzi l’occhio.

Valentina



è possibile trovare un lavoro in tempo di crisi? se è verde sì. Forse.

19 02 2009

Nelle ultime ricette proclamate da politici ed economisti per combattere la recessione, un ingrediente che sembra non mancare mai, a livello mondiale, è quello di investire nelle tecnologie verdi per risollevare l’economia e soprattutto creare posti di lavoro. Obama in campagna elettorale ha parlato di 5 milioni di green collar jobs, l’UE con Barroso di un milione di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e perfino la Cgil recentemente ha presentato a Roma il suo piano per uscire dalla crisi economica che potrebbe dare lavoro a 350 mila persone.

A guardare a queste cifre, sembrerebbe che la recessione sia semplicemente l’ennesima esagerazione di giornalisti faziosi.
Per capire cosa si nasconde dentro la black-box di questi grandi numeri di posti di lavoro verdi, mi sono addentrata in un misto tra curiosità e malizia nella lettura del libro bianco dell’Onu sugli eco-lavori e dell’ultimo rapporto curato dall’autorevole World Watch Institute.

Una prima interessante considerazione da questa lettura riguarda il tipo di settori coinvolti. A livello internazionale molta attenzione è riposta nelle nuove industrie verdi. Prime fra tutte le rinnovabili che, a livello mondiale, si stima occupino già più di 2,3 milioni di lavoratori, con alti potenziali di crescita, soprattutto nel comparto dell’eolico e del solare. Ma molto importanti sono anche tutta una serie di posti di lavoro creati dalla realizzazione di macchinari e/o applicazioni a maggiore efficienza energetica e ambientale in generale, considerazione che allarga di molto lo spettro dei settori in analisi. In Germania ad esempio, tra il 2002 e il 2004, in piena crisi edilizia, sono stati creati 25.000 nuovi posti di lavoro grazie ai lavori di ristrutturazione per aumentare l’efficienza energetica e la resa ambientale.
Ad alto potenziale è anche la macro area del riciclo, che negli US si stima occupi più di 1 milione di lavoratori, in Brasile 500.000 e in Cina addirittura 10 milioni.

Per non parlare poi di tutti quei posti di lavoro legati ai servizi ambientali, un eterogeneo gruppo che spazia dall’architettura alla consulenza per la gestione dei certificati verdi, difficilmente rendicontabili così come i posti di lavoro in settori manifatturieri tradizionali, dove alcune aziende si sono re-inventate in versione green per andare incontro alla esigenze di nuove nicchie di mercato consapevoli.
Tuttavia bisogna considerare che i posti di lavoro verdi di cui si parla non sono nuovi posti creati, ma anche lavori trasformati e ridefiniti, per soddisfare la nuova domanda di servizi e prodotti ambientali, o semplicemente rinominati, senza cambiare di sostanza, per ricevere uno specifico sussidio o migliorare la propria immagine sul mercato. Perché poi se si inseriscono lavori tradizionali come quello del netturbino, dell’idraulico e dell’ingegnere nella conta dei lavori verdi, si raggiungono presto le cifre promesse ma senza aver in effetti cambiato la natura del panorama occupazionale nè la sua numerosità.

Insomma, il panorama dei posti di lavoro che ruotano intorno a tematiche ambientali è davvero ampio e sembra poter supportare le stime proposte dagli ambiziosi progetti americani ed europei, ma restano comunque degli interrogativi aperti a rallentare l’entusiasmo nel leggere i progetti di Obama e Barroso, che riguardano da un lato la correttezza delle cifre, dall’altro le modalità di gestione della transizione verso questo ampio ventaglio di occupazioni green, con relativa (ri)-qualificazione del capitale umano.
Insomma, il potenziale c’è, vedremo se le varie amministrazioni riusciranno a concretizzarlo, realizzando la promessa che la green economy diventi il nuovo volano per risollevare l’economia internazionale.

Valentina



Soffia il vento della Danimarca

28 01 2009

In questi giorni mi trovo in Danimarca, nel bel mezzo del paradiso del cittadino modello. Unico fattore negativo in una città, Copenhagen, altrimenti perfetta, sono le fastidiose raffiche di vento che ti investono mentre passaggi tranquillo per lo Strøget o mentre bevi una birra in un dei tanti locali nella tipica atmosfera Hygge.

Ma quello che per un turista o per uno straniero trapiantato nel paese delle birre può rappresentare un inconveniente, rappresenta invece un grande vantaggio per l’economia del paese nonchè per le sue performance ambientali. Già camminando per le vie centrali della capitale si può notare una delle caratteristiche del paese: le pale eoliche. Non deturpando per niente lo Skyline cittadino, le pale eoliche rappresentano una presenza costante in quasi tutte le zone del paese, soprattutto nelle ventose lande del nord, dove nelle notti d’inverno, la produzione eolica arriva a coprire addirittura la metà del fabbisogno complessivo nazionale.

La Danimarca è infatti uno dei primi paesi al mondo per produzione eolica, nonchè uno dei maggiori paesi al mondo per la produzione di pale eoliche, con aziende che vendono in tutto il mondo, come la grande Vestas, che occupa più di 15 mila dipendenti e ha installato turbine eoliche in più di 60 paesi al mondo. In media, la produzione di energia attraverso l’eolico in Danimarca si aggira attorno al 23% del fabbisogno nazionale. Al di là delle evidenti condizioni atmosferiche favorevoli, l’eolico nella penisola danese è stato sostenuto da un favorevole contesto sociale, legislativo e anche, cosa di non poca rilevanza, finanziario. Contesto, che non solo ha sospinto la crescita in passato, ma anche quella futura. L’intenzione della Danimarca è di soddisfare entro il 2015 il 75% del fabbisogno di produzione elettrica con gli impianti eolici, anche grazie ad impianti come quello realizzato 12 miglia al largo del porto di Esbjerg, nel Mare del Nord, che, con le sue 80 pale, rappresenta il parco del vento offshore più grande del Paese.

E l’Italia? Il confronto con la Danimarca risulta sicuramente svilente, anche se consola il fatto che in effetti essa rappresenta un benchmark irraggiungibile non solo per noi italiani; un’eccezione anche nel panorama europeo. La Spagna è uno dei pochi stati che si sta muovendo decisamente in questa direzione, comprendo nello scorso anno l’11% del proprio fabbisogno nazionale grazie solamente a questa fonte di energia rinnovabile.

In Italia, dove i 3.640 aerogeneratori installati hanno prodotto un mesto 2% del consumo elettrico nazionale, non ci resta che consolarci con le cifre sui trend. Nel 2008 infatti, il numero di kilowattora installati ha raggiunto un insperato aumento del 37% rispetto all’anno precedente.

Valentina

Più di mille megawatt aggiuntivi, pari a una crescita record del 37%. Nel corso del 2008, i 3.640 aerogeneratori installati nel nostro Paese, hanno prodotto oltre 6 miliardi di kilowattora, cioè il 2% dei consumi elettrici, e alimentato i bisogni di 6,5 milioni di italian