è possibile trovare un lavoro in tempo di crisi? se è verde sì. Forse.

19 02 2009

Nelle ultime ricette proclamate da politici ed economisti per combattere la recessione, un ingrediente che sembra non mancare mai, a livello mondiale, è quello di investire nelle tecnologie verdi per risollevare l’economia e soprattutto creare posti di lavoro. Obama in campagna elettorale ha parlato di 5 milioni di green collar jobs, l’UE con Barroso di un milione di nuovi posti di lavoro entro il 2020 e perfino la Cgil recentemente ha presentato a Roma il suo piano per uscire dalla crisi economica che potrebbe dare lavoro a 350 mila persone.

A guardare a queste cifre, sembrerebbe che la recessione sia semplicemente l’ennesima esagerazione di giornalisti faziosi.
Per capire cosa si nasconde dentro la black-box di questi grandi numeri di posti di lavoro verdi, mi sono addentrata in un misto tra curiosità e malizia nella lettura del libro bianco dell’Onu sugli eco-lavori e dell’ultimo rapporto curato dall’autorevole World Watch Institute.

Una prima interessante considerazione da questa lettura riguarda il tipo di settori coinvolti. A livello internazionale molta attenzione è riposta nelle nuove industrie verdi. Prime fra tutte le rinnovabili che, a livello mondiale, si stima occupino già più di 2,3 milioni di lavoratori, con alti potenziali di crescita, soprattutto nel comparto dell’eolico e del solare. Ma molto importanti sono anche tutta una serie di posti di lavoro creati dalla realizzazione di macchinari e/o applicazioni a maggiore efficienza energetica e ambientale in generale, considerazione che allarga di molto lo spettro dei settori in analisi. In Germania ad esempio, tra il 2002 e il 2004, in piena crisi edilizia, sono stati creati 25.000 nuovi posti di lavoro grazie ai lavori di ristrutturazione per aumentare l’efficienza energetica e la resa ambientale.
Ad alto potenziale è anche la macro area del riciclo, che negli US si stima occupi più di 1 milione di lavoratori, in Brasile 500.000 e in Cina addirittura 10 milioni.

Per non parlare poi di tutti quei posti di lavoro legati ai servizi ambientali, un eterogeneo gruppo che spazia dall’architettura alla consulenza per la gestione dei certificati verdi, difficilmente rendicontabili così come i posti di lavoro in settori manifatturieri tradizionali, dove alcune aziende si sono re-inventate in versione green per andare incontro alla esigenze di nuove nicchie di mercato consapevoli.
Tuttavia bisogna considerare che i posti di lavoro verdi di cui si parla non sono nuovi posti creati, ma anche lavori trasformati e ridefiniti, per soddisfare la nuova domanda di servizi e prodotti ambientali, o semplicemente rinominati, senza cambiare di sostanza, per ricevere uno specifico sussidio o migliorare la propria immagine sul mercato. Perché poi se si inseriscono lavori tradizionali come quello del netturbino, dell’idraulico e dell’ingegnere nella conta dei lavori verdi, si raggiungono presto le cifre promesse ma senza aver in effetti cambiato la natura del panorama occupazionale nè la sua numerosità.

Insomma, il panorama dei posti di lavoro che ruotano intorno a tematiche ambientali è davvero ampio e sembra poter supportare le stime proposte dagli ambiziosi progetti americani ed europei, ma restano comunque degli interrogativi aperti a rallentare l’entusiasmo nel leggere i progetti di Obama e Barroso, che riguardano da un lato la correttezza delle cifre, dall’altro le modalità di gestione della transizione verso questo ampio ventaglio di occupazioni green, con relativa (ri)-qualificazione del capitale umano.
Insomma, il potenziale c’è, vedremo se le varie amministrazioni riusciranno a concretizzarlo, realizzando la promessa che la green economy diventi il nuovo volano per risollevare l’economia internazionale.

Valentina



L’eco sostenibilità di Philips

9 02 2009

La responsabilità sociale d’impresa è associata da sempre all’idea di grande azienda, che stila un rapporto annuale sulle sue attività pseudo-sostenibili, a livello sociale o ambientale, per purificare la sua immagine agli occhi di consumatori sempre più sospettosi sulla attività produttive delle multinazionali.

Eppure qualche caso positivo di azienda che si muove oltre il “greenwashing” c’è. Prendiamo ad esempio Philips. Multinazionale, produttrice di prodotti ad alto consumo e ad alto consumo energetico, ha il profilo perfetto per il ruolo della “cattivo”. Ma negli ultimi anni ha lanciato una campagna con cui ha completamente ri-disegnato la propria immagine, e si è lanciata anche in una serie di iniziative a livello ambientale che la rendono uno dei casi più interessanti sul panorama internazionale. Ciò che rende interessante, secondo me, il caso Philips è il fatto che è riuscita nell’arduo compito di conciliare rispetto per l’ambiente e profittabilità, aumentando la propria capacità competitiva tanto da contribuire a risolevarla dalle cattive acque in cui ha navigato. E il tutto grazie anche a una campagna pubblicitaria intensiva e soprattutto coerente con la nuova strategia aziendale.

Ma cosa ha fatto di concreto Philips per meritarsi tanta attenzione (e anche successo di mercato)? La storia ambientale di Philips inizia nel 1994, con i primi miglioramenti ambientali che ora si sono evoluti nel quarto EcoVision program, lanciato nel 2007; una sorta di dichiarazione d’intenti che punta a generare il 30% dei profitti dell’azienda grazie proprio ai prodotti verdi, raddoppiare gli investimenti green e migliorare l’efficienza ambientale dei propri processi produttivi. E fin qui niente di nuovo. Ma la parte che mi ha interessato di più, da markettara, è stato la lettura del Green Flagship Project, che assegna un marchio, il Philips Green Logo, ai (propri) prodotti che hanno delle peformance ambientali superiori agli altri prodotti nel mercato. L’idea è che mentre ci possono essere molti prodotti green, solo i migliori possono ricevere il Green Flagship status. Grazie a questo logo, e alla campagna di comunicazione che lo supporta, ad ogni consumatore è assolutamente chiaro, quando entra in un ferramenta o in un Euronics, quale sia il prodotto che ha migliori performance ambientali, anche se magari era partito da casa senza nemmeno pensare a questa caratteristica come a una variabile del suo processo d’acquisto.
Un’idea originale, quella di apporre un proprio marchio ai prodotti per segnalarne la posizione relativa, più che un risultato assoluto, che dà comunque un fortissimo ritorno di immagine per i prodotti, senza aver necessariamente “sconvolto” il proprio processo produttivo.

Un po’ di furbizia, un po’ di marketing, un po’ di sana coscienza ambientale e il logo è fatto! C’è da dire che comunque questo marchio è (abbastanza) affidabile, visto che è certificato da parti terze, e soprattutto è uno stimolo verso un eco-design di prodotto per l’azienda. Le aree in cui viene misurata la performance ambientale del prodotto sono sei: l’efficienza energetica, la riciclabilità, la durata del prodotto, il packaging, i materiali (pericolosi) utilizzati/contenuti e il peso del prodotto. Il prodotto con il Green Logo deve avere performance superiori del 10% o più rispetto ai concorrenti in almeno una di queste sei categorie e nelle altre deve garantire almeno lo stesso livello. Questo progetto, in coerenza con gli obiettivi aziendali, ha portato a delle innovazioni di prodotto molto avanzate in Philips, specialmente nel settore illuminazione, dove possiede la leadership a livello mondiale, settore in cui ha realizzato interessanti prodotti che raggiungono un risparmio energetico della metà rispetto ai sistemi di illuminazione tradizionali (con prodotti per l’illuminazione pubblica) o addirittura dell’80% (con le lampade a LED).

La bella notizia che impariamo da Philips è che realizzare innovazioni eco-sostenibili non solo si può, ma anche può rappresentare un settore ad ampi profitti. Di più, che affinché questo sia possibile questo sforzo di eco-design deve essere sviluppato coerentemente e in concomitanza con attività di comunicazione e più in generale con la strategia aziendale a livello più ampio, in modo da poter beneficiare anche dei ritorni d’immagine relativi, oltre che dall’eco-efficienza in produzione.

Valentina



Soffia il vento della Danimarca

28 01 2009

In questi giorni mi trovo in Danimarca, nel bel mezzo del paradiso del cittadino modello. Unico fattore negativo in una città, Copenhagen, altrimenti perfetta, sono le fastidiose raffiche di vento che ti investono mentre passaggi tranquillo per lo Strøget o mentre bevi una birra in un dei tanti locali nella tipica atmosfera Hygge.

Ma quello che per un turista o per uno straniero trapiantato nel paese delle birre può rappresentare un inconveniente, rappresenta invece un grande vantaggio per l’economia del paese nonchè per le sue performance ambientali. Già camminando per le vie centrali della capitale si può notare una delle caratteristiche del paese: le pale eoliche. Non deturpando per niente lo Skyline cittadino, le pale eoliche rappresentano una presenza costante in quasi tutte le zone del paese, soprattutto nelle ventose lande del nord, dove nelle notti d’inverno, la produzione eolica arriva a coprire addirittura la metà del fabbisogno complessivo nazionale.

La Danimarca è infatti uno dei primi paesi al mondo per produzione eolica, nonchè uno dei maggiori paesi al mondo per la produzione di pale eoliche, con aziende che vendono in tutto il mondo, come la grande Vestas, che occupa più di 15 mila dipendenti e ha installato turbine eoliche in più di 60 paesi al mondo. In media, la produzione di energia attraverso l’eolico in Danimarca si aggira attorno al 23% del fabbisogno nazionale. Al di là delle evidenti condizioni atmosferiche favorevoli, l’eolico nella penisola danese è stato sostenuto da un favorevole contesto sociale, legislativo e anche, cosa di non poca rilevanza, finanziario. Contesto, che non solo ha sospinto la crescita in passato, ma anche quella futura. L’intenzione della Danimarca è di soddisfare entro il 2015 il 75% del fabbisogno di produzione elettrica con gli impianti eolici, anche grazie ad impianti come quello realizzato 12 miglia al largo del porto di Esbjerg, nel Mare del Nord, che, con le sue 80 pale, rappresenta il parco del vento offshore più grande del Paese.

E l’Italia? Il confronto con la Danimarca risulta sicuramente svilente, anche se consola il fatto che in effetti essa rappresenta un benchmark irraggiungibile non solo per noi italiani; un’eccezione anche nel panorama europeo. La Spagna è uno dei pochi stati che si sta muovendo decisamente in questa direzione, comprendo nello scorso anno l’11% del proprio fabbisogno nazionale grazie solamente a questa fonte di energia rinnovabile.

In Italia, dove i 3.640 aerogeneratori installati hanno prodotto un mesto 2% del consumo elettrico nazionale, non ci resta che consolarci con le cifre sui trend. Nel 2008 infatti, il numero di kilowattora installati ha raggiunto un insperato aumento del 37% rispetto all’anno precedente.

Valentina

Più di mille megawatt aggiuntivi, pari a una crescita record del 37%. Nel corso del 2008, i 3.640 aerogeneratori installati nel nostro Paese, hanno prodotto oltre 6 miliardi di kilowattora, cioè il 2% dei consumi elettrici, e alimentato i bisogni di 6,5 milioni di italian



Non solo rose e fiori dal fronte sostenibilità

9 01 2009

In queste pagine abbiamo raccontato spesso le potenzialità e i risultati positivi raggiunti da alcune imprese o settori grazie al connubio produzione&sostenibilità ambientale. Ma i segnali lanciati dal mercato non sono solo positivi. Stiamo parlando della drastica diminuzione degli affari nel settore dei pannelli solari e delle energie rinnovabili più in generale, dovute all’imprevista riduzione del costo del greggio e alla crisi finanziaria che non favorisce certo investimenti con ritorni a medio termine.

I primi, consistenti segnali di questa controtendenza ci arrivano dal lontano oriente. Federico Rampini ci racconta che metà delle fabbriche di Suntech, leader globale del settore, sono state chiuse, e in molti degli altri stabilimenti ai dipendenti è stato chiesto di presentarsi un giorno alla settimana. E Suntech non è sola. Sembra che l’unico settore in costante calo nelle oscillazioni frenetiche della borsa cinese sia stato proprio il solare. Dei sedici maggiori fabbricanti mondiali di pannelli fotovoltaici, sei battono bandiera cinese, con un dietro le quinte composto da molti altri produttori di componenti basati sempre nella repubblica popolare cinese. Ma molti di queste, Sunpower, JA Solar, LDK Solar, Trina Solar, sono crollate inesorabilmente proprio come il colosso del settore.

Il crollo è tanto più sentito tanto più che le prospettive di crescita erano di tutt’altro segno. A fine 2007 le imprese cinesi nel business ambientale erano trentamila, con tre milioni di dipendenti e un fatturato di 700 miliardi di yuan. E il solare era uno dei maggiori traini di questo sviluppo, che l’anno scorso aveva attirato anche molti fondi esteri di investimento. Che avevano portato anche a innovazioni tecnologiche interessanti, a un più ampio utilizzo delle rinnovabili anche sul suolo cinese, e a grandi progetti per sviluppo di monumentali centrali solari.

Ma lo spettro della recessione mondiale ha fermato questo processo virtuoso. I cinesi erano leader indiscussi nell’export del solare: il 95% della produzione era destinata all’export, e questo certo non fa favorito SunTech e compagne. Ma anche altri colossi mondiali delle rinnovabili hanno incassato lo stop, come la britannica Centrica, che ha bloccato piani per la creazione di nuove centrali eoliche o la francese Theolia che ha cambiato idea sull’apertura di nuovi impianti per la produzione del pale eoliche.

La situazione non è delle migliori. Il presidente di Solar Enertech, un altra importante azienda del solare, lo ha detto nei toni più cupi: “Per il solare è giunto il giorno del giudizio come accadde per la bolla di internet”. Forse la situazione non è così tragica, ma l’esempio del solare cinese ci insegna che la convenienza economica di un prodotto sostenibile è necessaria affinché sia preferito ai sostituti più inquinanti, anche in periodi di crisi. La nicchia di consumatori duri e puri, che vogliono e possono rinunciare a prodotti più low cost per tener fede alle loro convinzioni su un consumo consapevole non sarà mai sufficientemente grande da rendere economicamente sostenibile quelle produzioni eco-compatibili.

Insomma, la lezione che imparo da questo esempio è che per raggiungere un modello di sviluppo sostenibile sia a livello ambientale che economico è necessario un raffinamento delle tecnologie produttive disponibili, che abbassino i costi di produzione.  In altre parole, della necessità di un maggior investimento in ricerca e sviluppo, sullo stile dei sussidi all’ambiente proposti da Obama in campagna elettorale.

Valentina



Ambiente fa rima con Economia

30 12 2008

Perché sostenere un tipo di produzione eco-sostenibile? Climatologi, scienziati e ambientalisti hanno cominciato da tempo ad esporre le loro ragioni, evocando la necessità di un cambiamento nei modi di vita e nei sistemi produttivi per evitare conseguenze climatiche catastrofiche. Queste previsioni hanno lo stesso tono e gli stessi agghiaccianti pronostici da molto, molto tempo, ma sembrano riscuotere poco successo, sul piano concreto. Forse perché l’uomo non è programmato per vivere immaginando la catastrofe imminente, forse perché le leve dei cambiamenti hanno altri nomi, che, magari, fanno rima con Economia.
E infatti anche qualche economista si è posto la domanda del perché produrre eco-sostenibile. E le risposte sono molto interessanti, perché dimostrano che sviluppo economico e sviluppo sostenibile possono crescere contemporaneamente nella stessa direzione. Soprattutto per quanto riguarda i posti di lavoro e il rilancio di alcuni settori dell’economia che più stanno patendo le recenti vicissitudini economico-finanziarie.
Un recente studio condotto da un gruppo di ricerca della Duke University, per l’Environmental Defense Fund, l’Industrial Union Council e altri partner istituzionali di tutto rispetto, ha riportato come molti comparti manifatturieri americani potrebbero beneficiare grandemente da una produzione di tipo sostenibile. Utilizzando la metodologia delle Global Value Chain, i ricercatori hanno analizzato approfonditamente alcune tra le tecnologie che possono ridurre le emissioni aumentando considerevolmente i posti di lavoro, lo stesso obiettivo che si è posto Obama in campagna elettorale. I ricercatori di Duke si sono focalizzati su tecnologie come l’illuminazione a LED, la creazione di energia solare, tecnologie per il trattamento di rifiuti e finestre ad alto valore isolante.
Tutti i dati riguardanti questi settori sono più che incoraggianti. Prendiamo ad esempio l’azienda Cree, produttrice di tecnologie LED, che ha base in quella North Carolina specializzata in tessile e mobile che sta pagando la concorrenza cinese con un aumento della disoccupazione e la chiusura di molti stabilimenti specializzati in quei settori. In quella stessa zona, Cree ha cavalcato invece con successo l’onda verde, quadruplicando il numero di occupati dal 2002 e passando dai 228 milioni di dollari di fatturato del 2003 ai 493 del 2008, guadagnando una posizione di leadership a livello mondiale.
Ma i settori interessati da questa nuova filosofia del produrre e dai relativi vantaggi sono molto più numerosi. Basti pensare che in ognuna di queste speciali finestre ad alte performance ambientali, ad esempio, ci sono almeno 10 componenti, che provengono da fornitori che non possono che beneficiare della crescita di questo settore, che secondo il rapporto, rappresenta già il 60% del mercato totale americano.

Ma oltre ai ricercatori di Duke, molti altri studiosi e non solo si sono posti la stessa domanda, e trovando le stesse risposte, hanno cominciato ad investire in questa direzione. Come ad esempio è avvenuto in Gran Bretagna, dove nel piano governativo di rilancio economico è compreso un programma di miglioramento dell’efficienza energetica dell’edilizia pubblica e privata, settore da tempo in difficoltà, che porterebbe, oltre alla riduzione della bolletta energetica di migliaia di cittadini, anche alla creazione di oltre 10.000 nuovi posti di lavoro. O nella Germania di Audi e Bmw, dove ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto.

Insomma, produrre in modo ecologicamente sostenibile può significare anche produrre economicamente sostenibile.

Valentina



La sostenibilità sotto l’albero di Natale

15 12 2008

E’ Natale. E’ tempo di festa, vacanze, luci. E regali.

Nell’attesa di lanciarmi nelle maratone natalizie in centri commerciali e centri città per riuscire nell’ingrato compito di trovare un regalo giusto per ciascuno, mi sono lanciata in un tour di shopping on-line, incappando in un simpatico catalogo di regali per tutti i gusti. In questo periodo di crisi ogni azienda o  negoziante si sta prodigando in mille modi per far arrivare i propri prodotti sotto l’albero, reclamizzando le speciali caratteristiche del proprio prodotto. Ma i prodotti di questo catalogo hanno delle caratteristiche particolari. Sono tutti green: fatti di materiali riciclati, super minimalist o ipo energetici.
Un catalogo insomma, per chi, anche a Natale, vuole essere coerente con il proprio stile di vita eco-sostenibile, ma anche per chi vuole fare un regalo originale, che possa far contenti chi lo riceve rispettando l’ambiente ma anche i limiti del portafoglio.

Tra i regali per lei quello che mi è piaciuto di più è sicuramente la Escama Socorro Bag una borsetta da sera fatta interamente di linguette di lattine in alluminio. E poi intimo, vestiario, accessori, tutti fatti in materiali rigorosamente organici, certificati e/o riciclati. O ancora borsa in pelle riciclata, o pelle vegetale, oppure con incorporato un piccolo pannello solare, come le borse, pure fashion di Noon, che permettono di ricaricare l’i-pod o il cellulare mentre si passeggia per le vie per il centro.

Ma trovare un regalo interessante per una donna non è così difficile quanto un regalo originale da uomo. Così Inhabitat, il sito che propone questo originale catalogo natalizio, ha proposto anche un catalogo maschile, pieno di interessanti soluzioni, che mixano il design alla sostenibilità ambientale. Come la borsa porta portatile di Timbuk2 costruita in materiali chimici ma eco-intelligenti e tinta con vernici non tossiche, che tra l’altro permette una completa personalizzazione se creata attraverso il sito web. O, per gli sportivi, le tavole da snowboard fatte interamente con materiali a basso impatto ambientale e attraverso stabilimenti che usano 100% energia pulita. O le scarpe Terra Plana Aqua, fatte con una serie di diversi materiali riciclati. Ma il top secondo me sono i gemelli fatti con i tasti di vecchie macchine da scrivere, con la possibilità di personalizzarli con le proprie iniziali. Menzione speciale per la simpatia a quello che è definito il compagno ideale di un uomo: un improbabile gadget che funziona da pila e da radio insieme, che si alimenta con l’energia solare o… a manovella!

Chi l’ha detto che ci sono pochi prodotti eco-sostenibili, o che non sono già commercializzati?

Secondo le guide del blog Inhabitant, Babbo Natale quest’anno potrà scegliere tra moltissimi regali che rispettano l’ambiente, e anche senza strapazzare troppo il portafoglio. Per chi fosse interessato, suggerisco una lettura del catalogo dei prodotti eco sotto i 20$: vedere per credere. Insomma, la sostenibilità ambientale nei prodotti di tutti i giorni è ormai una realtà diffusa: anche Babbo Natale è avvisato.

Valentina



L’Italia della tecnologia verde: parliamo di cogenerazione

9 12 2008

In temi di tecnologie energetiche e del risparmio energetico uno dei settori più interessanti per il mercato italiano è quello della cogenerazione energetica, tecnologia che prevede la produzione combinata e simultanea, in un unico sistema integrato, di energia elettrica e termica in esercizio continuo, partendo da un’unica fonte (fossile o rinnovabile).
I vantaggi forniti da questo tipo di tecnologia sono molteplici, a partire dal significativo risparmio energetico (circa il 30%) rispetto alla produzione separata di energia elettrica e termica di sistemi centralizzati; dal ridotto inquinamento e dalla diminuzione delle  emissioni di CO²) nonché una riduzione degli sprechi delle risorse energetiche tradizionali attraverso un loro utilizzo più efficiente e un annullamento delle perdite di trasmissione lungo la rete di distribuzione.
Una visita presso l’azienda Spark Energy S.p.A. con sede a Possagno (TV), operante da vent’anni nel settore dell’energia e del risparmio energetico, ci ha permesso di approfondire ulteriormente le caratteristiche di questa tecnologia nonché lo stato del mercato italiano. La società è di piccole dimensioni –ha un organico di 23 persone- ma detiene una buona quota del mercato nazionale, quasi l’8%, che in un mercato altamente frammentato e artigianale come quello della cogenerazione è una cifra di tutto rispetto. L’azienda è sicuramente un’esempio di successo imprenditoriale, che ha avuto riscontro anche dal proprio mercato, se consideriamo che il fatturato dell’azienda nell’ultimo anno è più che triplicato, grazie soprattutto alla diffusione della cogenerazione energetica nel settore terziario. La società dal 2006 è parte del Gruppo Riello S.p.A. che ha deciso di entrare nel mercato dell’energia acquisendo Coge Engineering, l’area commerciale, R&D e industriale della cogenerazione e trigenerazione (tecnologia che prevede la produzione di elettricità, riscaldamento e condizionamento) di Spark Energy, istituendo così la Coge Engineering S.r.l., diventata nel 2008 RielloEway, centro di eccellenza di sistemi ad alta efficienza. L’appartenenza a questo grande gruppo industriale è stata sicuramente molto positiva per RielloEway, garantendo sinergie sia dal punto di vista della progettazione e del know how che dal punto di vista commerciale, grazie alla presenza capillare di installatori del gruppo nel territorio italiano. L’azienda è forte anche di know how e competenze tecniche ventennali che le hanno permesso di specializzarsi nella produzione di soluzioni tecnologiche personalizzate che, a differenza dei grandi concorrenti tedeschi e inglesi, permettono flessibilità e modularità degli impianti realizzati.
In Italia, paese ad elevato fabbisogno energetico e fortemente dipendente dall’importazione di energia, solo l’8% della produzione energetica è generato mediante cogenerazione, contro il 53% della Danimarca, il 38% dell’Olanda e il 35% della Finlandia, per citare solo alcuni tra i più virtuosi esempi europei. Naturalmente le lacune – non solo legislative- della politica energetica nazionale italiana, non aiutano di certo lo sviluppo e la diffusione di questa tecnologia nel nostro paese.
Ma il mercato potenziale di questo tipo di tecnologia è molto ampio, soprattutto in prospettiva delle nuove direttive europee in termini di risparmio energetico e riduzione delle emissioni. Infatti, a trarre vantaggio dall’applicazione della tecnologia cogenerativa possono essere attività appartenenti tanto al settore industriale (specialmente industrie alimentari, tessili, conciarie, farmaceutiche, della ceramica, della gomma e delle materie plastiche,…), quanto a quello terziario (ospedali, case di cura, strutture alberghiere e residenziali, uffici e centri sportivi, ecc). E’ proprio a questo secondo settore che RielloEway vuole maggiormente rivolgersi, per fare leva sul potenziale inespresso del mercato dei cogeneratori di più piccole dimensioni, a coprire le necessità di strutture residenziali e di servizi.

RielloEway è il classico esempio di azienda all’italiana, che ha maturato un esperienza ventennale nella realizzazione su commessa e si differenzia dai concorrenti, le grandi straniere Vaillant o Baxi, proprio per la sua capacità di customizzare il prodotto e realizzare impianti flessibili e modulari. Ma ha sviluppato queste caratteristiche tipiche del Made in Italy in un comparto a forte contenuto tecnologico e con un alto impatto a livello ambientale, a ricordarci che il nostro tessuto industriale può avere importanti carte da giocarsi anche in questi settori.

Scila



Scenari energetici in Italia al 2020

2 12 2008

Qualche giorno fa a Padova si è svolto un convegno sugli scenari energetici al 2020 con uno sguardo particolare alla situazione italiana e al suo possibile ruolo all’interno dello ambito europeo. Il convegno, che ha visto una numerosa partecipazione oltre che di studiosi e accademici da tutto il Nord Italia anche di esponenti del mondo aziendale, ha indirizzato il delicato tema degli scenari energetici che si aprono per l’Italia all’indomani del molto discusso pacchetto 20-20-20 proposto dall’Unione Europea. Il convegno si poneva l’ambizioso obbiettivo di delineare una possibile proposta per una strategia nazionale per il raggiungimento degli obbiettivi – di riduzione delle emissioni, dell’incremento di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica- assegnati dall’UE all’Italia, che al momento non esiste ancora.

Il tema è decisamente scottante tanto che i moderatori a tratti hanno dovuto calmare le acque come Floris in un dibattito tra Di Pietro e Castelli. Il motivo di tanto contendere sono stati soprattutto i numeri, relativi sia ai costi dell’effettuazione del pacchetto, che per molti degli studiosi presenti viaggiano decisamente al di sotto delle cifre su cui si basa l’attuale posizione del governo italiano sia ai benefici che deriverebbero da tali provvedimenti. Al di là della battaglia sulle cifre, il messaggio forte che ho colto dal vivissimo dibattito è stato un altro. E cioè che l’oggetto del contendere non è solo il combattere il global warming ma si sta discutendo della competitività del sistema economico italiano (ed europeo) nel prossimo futuro. È vero che la riduzione di Co2 a fronte dei provvedimenti obbiettivo sarebbe relativamente piccola – un taglio alle emissioni del 0,0015% secondo Confindustria. Ma quello di cui si discute in sede europea va oltre questo obbiettivo, prospettando un ambizioso piano strategico sulle tecnologie, tecnologie per una transizione ad un economia che segua un modello di sviluppo compatibile con l’ambiente. L’Europa non è certo l’unica che ha fiutato questa opportunità: anche la Cina, che non è nota basare i suoi piani industriali su scrupoli moralistici e ambientalisti, si è posta l’obbiettivo 19% di energia da rinnovabili al 2020. Energia prodotta, presumibilmente, da pannelli solari o pale eoliche made in China con un relativo indotto economico, che già si sta sviluppando, non indifferente. Se la Cina si è già mossa in questa direzione, anche l’America di Obama non tarderà a muoversi in questa direzione (forte dei 150 miliardi di dollari che il neo eletto ha promesso investirà nei prossimi 10 anni) e anche l’India si sta guadagnando un posto di tutto rispetto nel panorama mondiale per la produzione di pale eoliche. Insomma, non c’è tempo da perdere per non restare fuori dal mercato delle green technologies. Attualmente, nella Germania di Audi e Bmw ci sono più occupati nel comparto del solare che in quello dell’auto. Solo un indicatore tra i tanti che dimostra come l’obbiettivo della riduzione di emissioni e aumento dell’efficienza energetica sottende anche un mercato che potrà avere importanti riflessi non solo sull’ambiente ma anche sull’economia, in termini di occupazione che di fatturato sia in high tech – come quello per la produzione di tecnologie per le rinnovabili – che low tech -dai mobili alle ceramiche.

Alle prese con una delle peggiori tempeste per l’economia di sempre, investire in questa scommessa di economia sostenibile può rappresentare per l’economia italiana una delle poche scialuppe di salvataggio disponibili.

Valentina



Il Grande Fratello si tinge di verde

21 11 2008

La sostenibilità ambientale è ormai diventata una questione di costume. Lo so con certezza, dopo aver scoperto che esiste un Grande Fratello versione eco-sostenibile, con tanto di gruppo su YouTube che ne raccoglie “il meglio di”. Il programma in questione si chiama the Human Network Live Effect, ed è un programma, tutto on-line, che raccoglie le dirette su una casa ad emissioni zero e la vita dei suoi cinque abitanti, blogger, giornalisti, professori e una Perego di turno, a fare da presentatore e mediatore delle varie discussioni e interviste che hanno luogo nella casa. Il posto di Endemol è stato coperto da Cisco che ha fornito anche avanzate tecnologie di comunicazione e di rete, insieme ad altre aziende attive nel campo della sostenibilità come il Gruppo Loccioni, Enel e Whirpool. L’idea del format è originale: mettere in onda un esempio di come si possa vivere (almeno per una settimana) in modo assolutamente sostenibile. A partire dalla casa, tecnologicamente innovativa, fornita di pannelli solari termici e fotovoltaici, con soluzioni di building automation e dotata di monitoraggio continuo della qualità dell’aria interna e di ventilazione meccanica con recupero di calore. La casa è addirittura dotata di una micro centrale elettrica nonchè di sistema di produzione, stoccaggio e riutilizzo di idrogeno per la generazione elettrica. Ma nella Leaf Community non si vive solo in una casa a zero emissioni di CO2: ci si sposta con mezzi elettrici o ad idrogeno, si portano i bambini in una scuola ad energia solare e si lavora in edifici ecocompatibili che funzionano grazie all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili.

Il programma sembra davvero completo, ed è stato arricchito dalla presenza di varie guest star, da Federico Moccia a Jovanotti, che sono state intervistate dagli inquilini sulle tematiche della sostenibilità.

Un piccolo esperimento, sicuramente a basso impatto non solo sull’ambiente ma anche sull’opinione pubblica, ma di certo un caso interessante di come si possano comunicare e realizzare, in maniera innovativa, i concetti dell’eco-sostenibilità.

Valentina



Un giorno a Ecomondo

11 11 2008

Venerdì, dopo un viaggio lungo e avventuroso, ho visitato Ecomondo, fiera internazionale del recupero della materia ed energia e dello sviluppo sostenibile, arrivata quest’anno alla dodicesima edizione. Ecomondo rappresenta il principale punto di incontro per operatori del settore dei rifiuti, delle energie rinnovabili, del riciclaggio e più in generale dei servizi per risolvere i complessi e specifici problemi ambientali.

Al di là delle immancabili novità tecnologiche, il primo dato che mi sono portata a casa sono stati i numeri dell’evento: a sentire gli organizzatori, il numero di espositori è addirittura raddoppiato dall’anno scorso e dalla coda alle casse, posso testimoniare che anche il numero di visitatori (non solo italiani) ha viaggiato su delle belle cifre (quasi 65.000 secondo i responsabili). Numerosi sono stati anche i convegni e i seminari, che hanno coinvolto il mondo accademico  quello industriale. Mi sembra questo possa essere già un indicatore interessante dello stato di salute del settore green (in questa fiera limitato alle aziende manifatturiere o di servizi specializzate prettamente nella getione di rifiuti, emissioni, energia,…) a conferma che è un settore che non solo “tiene”, risultato già ottimo in tempi di crisi finanziaria e recessione, ma che anche cresce, sia in termini di fatturato che di addetti.

Altro dato interessante, agli occhi di un ricercatore curioso, è il numero di nuovi settori e tipologie di aziende che sono nati, in risposta alle problematiche e opportunità legate alla gestione ambientale. Probabilmente moltissime delle aziende che esponevano, fanno parte di comparti industriali che fino ad una decina di anni fa nemmeno esistevano. Prediamo ad esempio il settore della gestione dei rifiuti. Ci sono moltissime e diverse aziende nella catena del valore del rifiuto, che comprende fasi di raccolta, differenziazione, estrazione e divisione dei singoli materiali, trasporto, vendita, fino al riutilizzo e riciclaggio del materiale stesso. Tutte fasi di produzione che spesso fanno capo ad aziende distinte che negli ultimi anni hanno saputo sviluppare le nuove competenze necessarie, trasformando un problema in un’occasione di business.

Una delle cose che mi aveva incuriosito di più all’ingresso della fiera sono stati l’isola degli acquisti e il supermarket ecologico, un ala della fiera allestita a supermercato, con tanti di scaffali, con esposti un gran numero di prodotti di largo consumo e non ecologici. Al di là dell’opportunità o meno di incollare questa etichetti ad alcuni dei prodotti esposti, questo eco-store è stato un interessante conferma del fatto che il “comparto ambientale” non riguarda solo tecnologie e prodotti specifici, ma abbraccia anche settori completamente lontani, da prodotti di largo consumo a settori più tradizionali come l’abbigliamento e l’arredamento. Adesso come adesso ci sono prodotti ecologici -per le materie prime che utilizzano, piuttosto che per il packaging, per la possibilità di ri-utilizzo o per la bio-degradabilità- per tutti i gusti. Dentifrici che sembrano scatole di majonese, penne usb in mater-bi, piatti e bicchieri di plastica biodegradabili, quaderni in carta riciclata. Ma anche distributori automatici di detersivo, alberghi eco-sostenibili e “arbre-magique” 100% naturali. La gamma di prodotti che rispettano l’ambiente e davvero ampia e, più interessante, in continuo aumento, segno che questo comparto è uno dei pochi a non patire la crisi, e non solo in settori alto di gamma.

Il sistema industriale italiano sembra avere tutte le carte in regola per primeggiare in questo comparto, facendo leva sulle sue notorie competenze manifatturiere, sulla capacità di innovare e la capacità di comprendere i mercati finali. Ad Ecomondo hanno esposto molte aziende italiane che hanno scommesso in questa direzione, vedremo se il mercato premierà la loro strategia.

Valentina