E se fosse proprio il territorio il laboratorio di una rivoluzione energetica incentrata sulle rinnovabili?

23 03 2010

Per evitare di essere accusata di plagio, lo dico già nelle prime righe. La frase del titolo non è mia ma è ripresa dall’ interessante introduzione di Edoardo Zanchini an un altrettanto interessante rapporto di Legambiente sul rapporto dei comuni italiani con le fonti di energia alternativa.

Fonti amientaliste e politiche stanno da anni cercando di spingere un modello di produzione di energia distribuita puntando sui singoli individui, nella speranza che un condizionamento culturale e qualche incentivo in ordine sparso possa convincere grandi masse di cittadini a sostenere investimenti a medio lungo termine per installare impianti di energia alternative. Un approccio bottom up che coinvolga il maggior numero di cittadini è sicuramente auspicabile, intendiamoci. Forse però non sempre efficace, visto il ridotto numero di impianti installati dalle famiglie italiane, soprattutto rispetto ai risultati ottenuti in altre nazioni (e.g., Germania) che pure non godono come noi delle fonti di energia rinnovabile, sole in primis. Il problema, è che da un lato lo Stato non può o non riesce a farsi carico di una ristrutturazione completa del sistema di approviggionamento energetico, dall’altro la singola famiglia fatica a superare le logiche di breve termine per installare un impianto che garantirà da subito vantaggi ambientali e sociali in genere, ma economici solo nel medio-lungo termine. Il quadro legislativo ed economico incerto non contribuisce certo a favorire la situazione.

Il recente rapporto “Comuni Rinnovabili 2010” curato da Legambiente ci ricorda che c’è un attore, tra la politica politicante e le scelte del singolo cittadino, che può facilitare il passaggio alle energie pulite: l’ente locale. Un ruolo che non è solo potenziale ma è già realtà in molte zone d’Italia. I dati parlano chiaro; sempre più comuni, un po’ per far cassa in periodi di ridotti finanziamenti nazionali, un po’ per contribuire a rivitalizzare l’economia locale e migliorare le condizioni ambientali, hanno investito in pannelli solari o impianti di energia geotermica, che in alcuni casi riescono a soddisfare interamente il fabbisogno dei loro cittadini. 6.993 hanno già installato almeno un impianto e il trend rispetto agli anni scorsi sembra molti incoraggiante: solo un paio di anni fa erano meno della metà. Il fotovoltaico è quello che va per la maggiore, ma alcuni comuni si sono cimentati anche nell’istallazione di impianti eolici (297), geotermia (181) o idroelettrici (799). Già 15 comuni sono riusciti a coprire l’intero fabbisogno energetico, in termini sia di elettricità che di riscaldamento dei propri cittadini.

Non stupisce che il caso più emblematico sia in provincia di Bolzano, che dispone di più di 960 metri quadri di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli fotovoltaici (per 1800 abitanti, ndr) diffusi sui tetti di case e aziende, ma farà piacere sapere che, almeno in questo caso, non sono solo le regioni del Nord ad aver colto la sfida economica ancora prima che ambientale, delle rinnovabili. La mappa della diffusione degli impianti rinnovabili mostra un interessante coinvolgimento di comuni e provincia in tutto il territorio nazionale, pur scontando comprensibili differenze riguardo le singole tecnologie:Biomasse, Idroelettrico e Solare Termico sono più diffuse nel centro-nord, mentre solare ma soprattutto eolico sembrano punti di forza soprattutto del centro-sud.

Al di là dei dati sulle singole tecnologie mi sembra interessante rilevare il ruolo emergente del territorio come attore principale del cambiamento verso un modello ad energia pulita. Gli enti locali possono rappresentare l’anello mancante per implementare questo modello virtuoso, superando i limiti cui incorre il singolo – permettendo vantaggi di scala e una migliore gestione della burocrazia legata ai nuovi impianti – e il regolatore – grazie alle più gestibili dimensioni e alla maggiore conoscenza del territorio, del suo potenziale e delle sue necessità.

Valentina



Ma quanto valgono le tecnologie rinnovabili?

9 10 2009

Si parla molto del valore di impianti per la produzione di energia rinnovabile: ma come valutarlo?

I favorevoli alle installazioni di pannelli solari e impianti eolici suggeriscono di considerarli come investimenti di lungo termine, sottolineando i risparmi in bolletta e gli eventuali guadagni per la rivendita dell’energia al sistema centrale. I puristi dell’ecologia ne sottolineano soprattutto il valore in termini di tonnellate di emissioni risparmiate, in centimetri di buco dell’ozono evitati, in milligradi centigradi di surriscaldamento terrestre in meno. Imprenditori e privati attenti al portafoglio ne considerano soprattutto il prezzo di listino, scoraggiandosi di fronte agli elevati costi di acquisto di impianti fotovoltaici e al lontano break-even-point dei pannelli solari.

Tutti sono interessati a capirne il vero valore, per avere un mezzo per promuovere queste forme di produzione di energia più sostenibile ma anche per comprenderne il potenziale economico, d’investimento, lo sviluppo futuro. Ma quanto valgono veramente queste tecnologie?

A quanto pare, un nuovo interessante indicatore può aggiungersi alla lista di cui sopra. Sembra infatti esserci una nuova categoria di appassionati del pannello: i ladri. E a guardare l’ammontare della refurtiva, cento milioni di euro nel solo 2008 e il trend in crescita per il 2009 si direbbe che il prodotto il valore del prodotto non sia da poco. A leggere le cronache locali, il furto di strutture destinate alla produzione di energia rinnovabile è diventato un tormentone in tutta italia, un degno avversario di Rolex e dei gioielli della nonna per il premio miglior refurtiva dell’anno, soprattutto nelle zone più isolate dove gli eco-ladri possono agire indisturbati.

Sembra che le gang dei ladri di pannelli stiano diventando più temibili dei ladri delle ville. O che i pannelli siano diventati più redditizi delle cassaforti dei signorotti locali. Tanto che è stato messo a punto un dispositivo antifurto apposta per proteggere i panneli solari, con tanto di localizzatore Gps incorporato.

Al termine dell’operazione chiamata, con gran fantasia, Operazione Kyoto, la squadra mobile di Matera ha inchiodato una banda che operava con gran efficienza, riuscendo a smontare in una sola notte un centinaio di moduli. Niente male per un bottino che non si può certo trasportare nelle tradizionali sacche da ginnastica. La banda del pannello (che con un nome così potrebbe diventare un indimenticabile soggetto cinematografico…) che per mesi ha terrorizzato gli eco-investitori del Sud Italia aveva trovato anche gli acquirenti: i pannelli venivano infatti spediti via furgone nel Nord Africa, a un terzo del prezzo italiano. Dei Robin Hood moderni, insomma.

Chi l’ha detto che i paesi più poveri non sono eco-sensibili?

Valentina



Il Grande Fratello si tinge di verde

21 11 2008

La sostenibilità ambientale è ormai diventata una questione di costume. Lo so con certezza, dopo aver scoperto che esiste un Grande Fratello versione eco-sostenibile, con tanto di gruppo su YouTube che ne raccoglie “il meglio di”. Il programma in questione si chiama the Human Network Live Effect, ed è un programma, tutto on-line, che raccoglie le dirette su una casa ad emissioni zero e la vita dei suoi cinque abitanti, blogger, giornalisti, professori e una Perego di turno, a fare da presentatore e mediatore delle varie discussioni e interviste che hanno luogo nella casa. Il posto di Endemol è stato coperto da Cisco che ha fornito anche avanzate tecnologie di comunicazione e di rete, insieme ad altre aziende attive nel campo della sostenibilità come il Gruppo Loccioni, Enel e Whirpool. L’idea del format è originale: mettere in onda un esempio di come si possa vivere (almeno per una settimana) in modo assolutamente sostenibile. A partire dalla casa, tecnologicamente innovativa, fornita di pannelli solari termici e fotovoltaici, con soluzioni di building automation e dotata di monitoraggio continuo della qualità dell’aria interna e di ventilazione meccanica con recupero di calore. La casa è addirittura dotata di una micro centrale elettrica nonchè di sistema di produzione, stoccaggio e riutilizzo di idrogeno per la generazione elettrica. Ma nella Leaf Community non si vive solo in una casa a zero emissioni di CO2: ci si sposta con mezzi elettrici o ad idrogeno, si portano i bambini in una scuola ad energia solare e si lavora in edifici ecocompatibili che funzionano grazie all’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili.

Il programma sembra davvero completo, ed è stato arricchito dalla presenza di varie guest star, da Federico Moccia a Jovanotti, che sono state intervistate dagli inquilini sulle tematiche della sostenibilità.

Un piccolo esperimento, sicuramente a basso impatto non solo sull’ambiente ma anche sull’opinione pubblica, ma di certo un caso interessante di come si possano comunicare e realizzare, in maniera innovativa, i concetti dell’eco-sostenibilità.

Valentina



Obama, McCain e il fattore ambiente

3 11 2008

Ormai manca un giorno alle elezioni americane. Dopo mesi di spot e dibattiti televisivi stiamo giungendo alla fine della campagna elettorale più discussa del mondo. Ma su che cosa i due candidati si giocheranno la vittoria per la Casa Bianca? Molto si è parlato sulle loro posizioni sulla guerra in Iraq, sull’economia e sull’immigrazione.
Ma c’è un altro importante argomento su cui si gioca la vittoria del prossimo inquilino alla Casa Bianca: la politica energetica e ambientale. Dopo mesi di rialzi del costo del petrolio (prezzi da sogno per noi europei, ma mai così alti nella storia per i colleghi d’oltreoceano) e allarmanti notizie sui cambiamenti climatici, per l’americano medio la questione energia sta diventando un argomento importante, per cui esige delle risposte chiare e forti dalla classe politica.
Navigando nei siti di Obama e McCain la prima cosa che salta all’occhio è già un interessante conclusione: le politiche energetiche proposte dai due senatori sono simili. Emerge chiara una necessità bipartisan: ridurre la dipendenza dalle fonti fossili di paesi instabili e potenzialmente canaglia. Ed entrambi indicano l’utilizzo di fonti energetiche alternative come un passaggio obbligato verso questa direzione, molto più che un recente sondaggio ha dimostrato come i supporter di entrambi i candidati siano fortemente favorevoli ad una maggiore efficienza energetica e a politiche che riducano l’impiego di petrolio e nucleare.
La diversità tra i due leader sta nel come raggiungere questi obiettivi.
La ricetta McCain per alleggerire la bolletta energetica in capo ai già provati capi famiglia americani è un incremento dello sfruttamento petrolifero sul suolo americano nonchè un nuovo sviluppo del nucleare, mentre Obama è più cauto su questi due fronti. Per quanto riguarda le rinnovabili l’obiettivo comune è ridurre entro il 2020 le emissioni ai livelli del 1990. Ma se McCain, da bravo repubblicano, propone un modello basato sul mercato, in cui lo sviluppo di fonti rinnovabili debba essere determinato dal mercato, per Obama tax subsidies sono necessari per accelerare l’entrata nel mercato di solare e eolico (in cui ha dichiarato di voler investire 150 miliardi di dollari nel prossimo decennio). Insomma, anche se entrambi i programmi propongono solo strategie di lungo termine, Obama sembra rispondere meglio alle istanze dell’elettorato sensibile all’ambiente.

Ma quanto possono pesare queste differenze sul risultato del voto? Una buona politica energetica e ambientale può rivelarsi più importante per gli esiti del voto di quello che può sembrare a prima vista. Non coinvolge, infatti, soltanto i sostenitori di un modello di sviluppo pi sostenibile, o coloro che credono che possa essere una via d’uscita all’attuale crisi economica. Come sottolinea il professor Peter Haas dall’Hiffington Post, il suo effetto è anche più sottile: la tutela dell’ambiente, infatti, basandosi sul richiamo a valori universali, è una discussione che colpisce l’emotività di un elettorato trasversale, emotività che da sempre ha dimostrato giocare un ruolo importante nella nomina di leader politici.

Non resta che aspettare domani per capire se il differente approccio alla politica energetico-ambientale può rivelarsi una carta in più per guadagnare la residenza alla Casa Bianca.

Valentina



L’Italia in prima fila sul clima

20 10 2008

Siamo abituati a leggere le notizie che riguardano la tutela dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile nell’appedice dei giornali, affiancate alle pagine che recensiscono gli ultimi best-seller usciti in libreria o le prodezze di Ronaldinho. Da una settimana, invece, l’argomento ha guadagnato stabilmente le prime pagine dei giornali grazie alle vicende legate all’approvazione del pacchetto clima europeo. L’Italia in particolare sta tenendo banco ai vari vertici europei, mantenendo un clima di incertezza su quelli che saranno gli esiti del pacchetto che dovrebbe perpetuare gli impegni assunti già a Kyoto, prevedendo una riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020. Ma per capire il perchè di tanto fermento e dell’incertezza sugli esiti del consiglio dei ministri dell’ambiente di oggi e degli altri meeting europei dovuti alle politiche italiane, una breve cronistoria della vicenda può essere utile.

Il primo segnale risale già al 14 settembre, quando la presidentessa di confindustria ha dichiarato guerra aperta a questo pacchetto, che produce “danni enormi alle economie in cambio di benefici infinitesimali per l’ambiente”. La seconda tappa di questa breve cronistoria riguarda l’eco di questa polemica riportato in sede europea dal Presidente del Consiglio italiano, che ha invocato una riduzione degli oneri in capo alle imprese in vista della grave crisi economico-finanziaria che stanno attraversando i paesi, che è sfociato negli ultimi giorni nella scelta di guidare un quantomeno eterogeneo fronte del no, che mira ad un rinvio e/o a delle modifiche. Il fatto è che gli altri paesi, o almeno le economie europee più avanzate, nonostante vivano nella stessa epoca storica, non sono affatto dello stesso parere, anzi.

Molti leader europei si sono esposti chiaramente a riguardo: la tutela dell’ambiente non è necessariamente solo un costo. Parte della querelle innescata dalle posizioni italiane in sede europea riguarda proprio anche la questione numeri. Secondo alcuni i dati presentati da industriali e governo sui costi del pacchetto per le aziende non tengono conto dei vantaggi che questo pacchetto può apportare, che alleggerirebbero quindi il conto totale a carico delle aziende. Non solo. E non tanto perchè, come concorda tutta la comunità scientifica, la lotta ai cambiamenti climatici non è più rinviabile, tanto per un motivo prettamente economico. La carta della leadership nell’economia pulita potrebbe rappresentare infatti uno (dei pochi possibili) assi nella manica per le economie europee, posizionandole su un business in grado di proiettarle nel futuro prossimo con un vantaggio economico da giocarsi contro gli agguerriti competitor internazionali. L’economia pulita è considerata secondo molte autorevoli voci la bolla che può salvarci dalle bolle (finanziarie,…) subite finora, il mezzo per rialzare l’economia mondiale insieme alle sorti del pianeta. Per concludere con Zapatero: “la crisi internazionale non deve portarci a fare passi indietro: ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e ridurre l’inquinamento non è un problema ma una via d’uscita, una soluzione”.

Quello che questa vicenda ci segnala è che la tutela dell’ambiente non è un argomento né secondario né slegato dalle sorti economiche degli stati. Vedremo se l’Unione Europea sarà in grado di raccogliere questa opportunità, sfidando le inerzie per proiettarsi nel futuro.

Valentina



La tecnologia salverà il mondo

5 07 2008

Siamo stati abituati a pensarlo per gran parte della nostra storia di umanità: la tecnologia, forma attraverso la quale si materializza il progresso, apporta dei miglioramenti indispensabili e utili alla vita dell’uomo. Ora molti scienziati ed imprenditori stanno scommettendo sul fatto che la tecnologia potrà salvare anche la terra dagli effetti negativi e dalle trasformazioni, secondo alcuni irreversibili, che l’attività umana sta apportando nell’ecosistema.
Effetto serra, cataclismi climatici, innalzamento delle temperature e del livello delle acque sono ormai minacce la cui veridicità è presa ormai per assodata.
Ma nonostante i molti allarmisti, i documentari d’autore, i rapporti scientifici di stimati istituti di ricerca e ministeri di mezzo mondo, che dimostrano come la colpa di questi cambiamenti dipenda dall’attività dell’uomo, gli inquilini del pianeta sembrano non volerne sapere di cambiare il proprio stile di vita.

E allora se non si possono eliminare le cause, perchè non agire sugli effetti? Questa almeno sembra essere la visione di molti scienziati, e, ancora più interessante di molti imprenditori. Secondo un recente articolo pubblicato da repubblica, solo in America sono almeno 400 le aziende private la cui missione societaria è la riduzione della CO2 emessa. E ancora più interessante, è sapere che la società di consulenza Point Carbon stima che in soli 2 anni il numero di queste aziende di Geo-engineering sarà tre volte più grande, forse anche di più, se la prossima amministrazione americana introdurrà dei tetti più stringenti all’inquinamento industriale.

Le proposte avanzate da queste società sono le più disparate e alcune ricordano delle soluzioni da fumetti Marvel. Come quella proposta dalla Global Research Technologies che produce aspiratori giganti in grado di assorbire l’anidride carbonica dall’aria e, attraverso una serie di reazioni chimiche, trasformarla in materiali inerti da seppellire in località isolate.
O quella proposta dal premio nobel Paul Crutzen di spruzzare delle specie di mega-aerosol di zolfo nella stratosfera per schermare la luce del sole e raffreddare la Terra. O quella proposta da Climos e Planktos, che propongono un simile approccio ma nel profondo dei mari, disseminando gli oceani con polvere di ferro per aumentare la presenza di fitoplancton, che è in grado di assorbire CO2.

Efficaci soluzioni o progetti allampanati? Difficile dirlo. Sicuramente però, un business interessante, se perfino l’influente think tank dell’American Enterprise Institute gli ha dedicato un convegno e se il numero di aziende che scelgono si scommettere su questo settore è in aumento esponenziale.

Valentina



E se l’insostenibilità invertisse la globalizzazione?

28 06 2008

Il mondo si sta allargando: dopo anni di frenesia delocalizzativa in Cina e in altri paesi del lontano oriente, le aziende cominciano a riavvicinare la produzione, a livello nazionale o locale.
E il motivo sembra essere non tanto un ritorno a politiche autarchiche o questioni finanziarie, sociali o culturali. Il motivo è il persistente, costante aumento del prezzo del petrolio.

Siamo abituati a pensare alle tematiche legate alla sostenibilità ambientale come ad argomenti per aziende visionarie o gruppi di consumatori più sensibili di altri, problematiche legate a determinate classi di prodotti e destinate ad impattare solo per alcune strategie aziendali. Un recente rapporto per la maggiore banca di investimenti canadese, la CIBC, curato da Jeff Rubin e Benjamin Tal ci stimola a rivedere questa idea. La globalizzazione, affermano, è reversibile. Il problema è legato al fatto che la maggior parte di questo commercio internazionale, quasi il 90% in tonnellate, si sposta via mare, mezzo per il quale, soprattutto per prodotti di grandi volumi, l’incidenza del costo del petrolio è molto alta, tale da annullare molti dei vantaggi che si erano creati con la riduzione dei dazi doganali o il differenziale nei costi di manodopera.
Lo studio di Rubin e Tal fa un interessante raffronto tra il costo di trasporto e i dazi: ai prezzi attuali, è come se ci fosse un dazio del 9% sulle importazioni, che, se il petrolio raggiungesse i 200$ a barile, salirebbe all’11% tariffa media durante i lontani anni ’70. Se il petrolio mantenesse i prezzi attuali, alcuni studiosi hanno valutato che il commercio mondiale potrebbe ridursi addirittura del 17%.

In America hanno già cominciato a raccontare le prime storie di imprese che sono tornate a produrre in patria, dall’azienda di divani alla produttrice di batterie elettriche dell’Ohio, e importanti consulting agency come Deloitte hanno già cominciato a produrre rapporti su come le aziende possono trarre il meglio dalla neo-coniata de-globalizzazione.
In Italia, mi sembra che ancora poca attenzione è stata posta su questa conseguenza secondaria dell’aumento della bolletta energetica, che pure ha il potenziale di stravolgere i principali assetti economici ed organizzativi degli ultimi dieci anni. Sicuramente molte delle aziende italiane stanno prendendo in seria considerazione questo cambiamento, pensando magari di spostare le proprie rotte dalla lontana Cina a più vicine ma sempre economiche mete dell’Europa dell’est.
Luci puntate sulle aziende italiane che hanno fatto dell’internazionalizzazione il loro principale vantaggio competitivo, dunque, e in primis su quelle imprese che avevano spedivano e ri-importavano semi-lavorati, per far produrre alcune fasi della produzione nel lontano oriente.
Un’altra sfida che i nostri imprenditori italiani devono trasformare in opportunità.

Valentina



Aziende e ambiente secondo il rapporto ISTAT

13 06 2008

Per la prima volta nella storia del rapporto annuale ISTAT, il capitolo che analizza le imprese prende in considerazione alcuni aspetti ambientali delle attività produttive, dedicando un approfondimento focalizzato sull’evoluzione quantitativa e qualitativa della spesa delle imprese per i servizi ambientali. Il rapporto parte da una prima distinzione di base tra le aziende il cui business è proprio la produzione e la vendita di servizi ambientali e le aziende che, invece, auto-producono servizi ambientali nel senso che svolgono attività per ridurre emissioni e inquinamento generate dalle proprie attività produttive specifiche. Un punto di vista interessante che guarda sia allo sviluppo di un nuovo settore, che all’evoluzione verso atteggiamenti più sostenibili di aziende fino a qualche anno fa totalmente straniere a queste materie e che rappresentano il tessuto produttivo italiano, dal tipico Made in Italy a, e soprattutto, l’industria pesante.

Per quanto riguarda il primo gruppo, cresce soprattutto il comparto della gestione dei rifiuti (che rappresenta il 0,33% del PIL, con un aumento del 32,7% del valore aggiunto in termini di PIL dal 1997 al 2006). Ancora più interessante è notare come, a differenza di quanto accadeva 10 anni fa, più dell’80% di questi soggetti sono aziende private, non utilities legate alle pubbliche amministrazioni. Insomma, scommettere nell’ambientale paga, e sempre più aziende si stanno ricavando uno spazio in questo settore.

Ma non per tutti i servizi ambientali specializzati sono rose e fiori. Il comparto delle imprese fornitrici di servizi idrici ha subito, dal 1997, una flessione del 4,5% di valore aggiunto in termini di PIL. Perchè questa controtendenza?
Perchè sempre di più le aziende italiane, le concerie di Arzignano o i produttori di piastrelle di Sassuolo hanno cominciato ad internalizzare i servizi ambientali, spendendo sempre di più in attività per la protezione dell’aria e del clima.

Chi sono dunque le aziende che si occupano di eco-sostenibilità in Italia? Secondo il quadro che ci fornisce ISTAT, il panorama italiano è più variegato di quello che ci si potrebbe aspettare: i servizi per la protezione dell’ambiente non sono più puro appannaggio di specialisti, pubblici o privati. Sempre di più, chi investe nella tutela dell’ambiente sono le aziende che compongono il tessuto produttivo tipico italiano, che sviluppano competenze interne per ridurre l’impronta ecologica della loro produzione.



Non ci sono più le stagioni

30 04 2008

Almeno per quanto riguarda il cibo fresco.
Negli Stati Uniti, FreshDirect ha proclamato che la stagione dei kiwi si è estesa a tutto l’anno, grazie all’ingresso prepotente dei produttori italiani nel settore, che si sostituiscono alla produzione neozelandese nella stagione invernale dell’emisfero australe.
Da sempre il cibo ha viaggiato da una parte all’altra del globo (basta ritornare indietro con la memoria alle importazioni di te attraverso la via della seta o di mais e cioccolato dalle Americhe Colombiane); la novità è semmai l’entità di questo traffico. E, stando a quanto riportato in un recente articolo del NYT, i principali destinatari di questo traffico siamo proprio noi Europei, con un aumento dell’import di cibarie varie del 20% negli ultimi 5 anni. Negli Stati Uniti la crescita è stata ancora più forte, raddoppiando dal 2000 al 2006.

Che c’è di strano in questo esempio di globalizzazione dei mercati? C’è che questo commercio ha dei costi ambientali spaventosi. Il principale problema di questo business è legato ai costi ambientali derivanti dal trasporto di frutta e verdura da una parte all’altra del globo. Si è gia discusso, in questo stesso blog, di quanto forte sia il ruolo dei trasporti nell’inquinamento globale, sia in Italia che all’estero.
La diversità nei costi del lavoro tra diverse nazioni genera dei flussi logistici bizzarri. Il merluzzo norvegese che arriva sulle nostre tavole è in realtà stato filettato in Cina, per essere poi riportato in Norvegia per la vendita. La Gran Bretagna importa ed esporta 15.000 tonnellate di waffles all’anno e scambia 20 tonnellate di bottiglie di acqua con l’Australia. Inoltre, importa oltre il 95% della frutta e più della metà della verdura che viene venduta nei banchi dei supermercati britannici.

Oltre a dei ridotti costi del lavoro, altro fattore che ha stimolato la globalizzazione del cibo è una contestuale drastica riduzione dei costi di trasporto. Il fatto è che, tra questi costi, non vengono considerati i costi ambientali di questo trasporto, che rimangono un’esternalità negativa, non contabilizzata dalle aziende trasportatrici ma subita dall’ambiente.
Ma il problema, legato al trasporto del cibo fresco non si esaurisce nella contabilizzazione dei costi ambientali legati alle emissioni del trasporto. Molte delle catena di supermercati incriminate, infatti, si difendono sottolineando, per certi versi a ragione, come in alcuni casi l’importazione implichi minori emissioni in atmosfera, evitando infatti in questo modo l’utilizzo energetico legato alla coltivazione in serre o alla refrigerazione.

La gravità della situazione ha spinto l’Unione Europea a proporre di incorporare i costi ambientali nel prezzo finale dei prodotti. La Svizzera ha già imposto delle tasse sui camion che attraversano i propri confini.
Il fatto è che il consumatore europeo, svizzero o americano è stato abituato a trovare qualsiasi tipo di frutta e verdura fresca ogni volta che lo voglia a prezzi relativamente convenienti. Alcune delle maggiori catene di supermercati, come il leader britannico Tesco propongono un sistema di etichettatura che permetta al consumatore di conoscere l’impronta ecologica di ogni prodotto.
Ma sarà davvero lo scaricare l’onere della scelta al consumatore finale la soluzione ad un problema ecologico di tale portata?

Valentina



Earth Day e emissioni all’italiana

22 04 2008

Il 22 aprile del 1970 in America nasceva il “giorno della terra”. A quasi quarant’anni dalla sua fondazione, 174 paesi ospitano eventi, concerti e manifestazioni varie per richiamare l’attenzione sulla necessità di combattere i cambiamenti climatici, nella settimana in cui anche il Time dedica un articolo di copertina al global warming (abbandonando, per la seconda volta in 85 anni, lo storico bordo rosso della copertina per un verde ambientalista).

E in Italia come siamo presi in termini di inquinamento ed emissioni? E’ recente un rapporto dell’Istat che punta l’indice contro le attività produttive come le principali responsabili delle emissioni atmosferiche nocive. Secondo questo studio, nel 2005 ben l’80% delle emissioni responsabili dell’effetto serra erano state prodotte dall’industria. E le accuse contro il sistema produttivo italiano non si fermano qui: secondo Istat sono da annoverare a questi soggetti anche il 90% delle emissioni che sono all’origine del fenomeno dell’acidificazione e più del 60% delle emissioni di gas responsabili della formazione dell’ozono troposferico. Quanto al resto, gran parte dell’inquinamento è dovuto al trasposto privato, ai SUV o alle cinquecento che ogni giorno cercano di aprirsi un varco nel traffico cittadino e, anche se in misura minore, al riscaldamento domestico e agli usi di cucina. I dati, che si riferiscono al periodo 1990-2005, provengono dagli aggregati Namea (National accounting matrix including environmental accounts) e identificano un ruolo importante anche per il settore del trasporto. Il trasporto in conto proprio, cita il rapporto, rappresenta la causa principale delle emissioni per la maggior parte degli inquinanti (CO, COVNM, NOx) di tali emissioni, la parte dovuta alla funzione trasporto è pari rispettivamente all’84% circa, al 67% circa e a oltre il 75%. La seconda funzione di consumo in ordine di importanza è rappresentata dal riscaldamento, che per la CO2 incide per oltre il 50%.

Mentre in tutto il mondo si festeggia la sensibilità ambientale di massa con l’Earth Day, (a Roma si stanno spegnendo ora le luci di un concerto in piazza Campidoglio…), in Italia si accendono i riflettori su un nuovo governo, al quale, questi dati e le considerazioni portate alla ribalta in questo giorno di coscienza ambientalista collettiva, lanciano molti appelli.

Valentina