I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina


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6 responses to “I perchè del fallimento del COP15”

28 12 2009
Francesco (22:39:18) :

Analisi molto interessante e ben riassunta.

Credo che in tema di “climate change” si dica molto, forse troppo. Le analisi più catastrofiche
sono in genere le più pubblicizzate e anche quelle che più spesso vengono smentite.

L’unico punto certo sembra essere che del clima ce ne dobbiamo preoccupare molto per il nostro
futuro. Ma convincenti politiche di sviluppo sostenibile non ci sono ancora. Basti pensare agli
scenari di fine imminente delle scorte di petrolio o al tanto discusso surriscaldamento globale
se è vero che negli ultimi dieci anni la temperatura media è diminuita e non aumentata.

Per rimanere a Copenhagen è molto interessante una breve intervista ad un esperto del clima
italiano
(questo il link). In
sostanza l’esperto indica come se ne sappia pochissimo sul clima ed in particolare sul reale
contributo dell’uomo ai danni climatici. Ovviamente ciò non significa che possiamo disinteressarci
delle sorti del pianeta, al contrario, ma diffidare delle soluzioni facili.

Ultima notizia curiosa che ho letto nei giorni scorso è quella relativa al
Canada. Il Canada pur
avendo firmato il protocollo di Kyoto non lo ha rispettato e prosegue nell’estrazione di petrolio
dalle miniere dell’Alberta.

Insomma, non solo i soliti noti ma anche i paesi considerati più virtuosi abbandonano facilmente
le politiche di sviluppo sostenibile. Forse l’idea che una grande conferenza ONU armata di solo
buona volontà potesse mettere d’accordo oltre 100 paesi su una dura linea di rigore per una
riduzione di emissioni dai risultati incerti… Era forse un po’ troppo.

Francesco

29 12 2009
I perchè del fallimento del COP15 | Politica Italiana (01:45:13) :

[...] via http://sustainability.viublogs.org/2009/12/28/i-perche-del-flop-di-copenhagen/ Posted by admin on dicembre 29th, 2009 Tags: America, Estero Share | [...]

29 12 2009
valentina (10:00:19) :

Francesco, grazie per i link e l’interessante discussione.
Hai ragione a sottolineare come si sappia ancora poco sul tema e non ci sia accordo neanche in campo scientifico sugli effetti dell’azione dell’uomo sull’ambiente. A volte sembra che le previsioni scientifiche sugli scenari climatici siano un po’ come i sondaggi elettorali (almeno quelli italiani): diversi sondaggi diversi risultati o stessi risultati interpretazioni diametralmente opposte!
Dal canto mio, da poco esperta in materia non posso che affidarmi a dichiarazioni di geofisici e meteorologi e notare che, il numero di specialisti allarmati per gli effetti delle attività dell’uomo è maggiore di quelli che ritengono si possa prender tempo.

Anche se, per restare in tema di misure, mi sembra un po’ riduttivo fermarsi solo sull’analisi della Co2 emessa, che invece sembra essere l’unico aspetto di sostenibilità al cuore del dibattito politico (se di vero dibattito si può parlare…). Devo ancora trovare qualcuno che mi dissuada dalla convinzione che le emissioni siano l’indicatore più utilizzato per sviluppare politiche solo perchè sono facilmente misurabili e traducibili in indicatori. Ma sostenibilità significa anche scarsità delle risorse come acqua e generi alimentari, non riproducibilità delle premesse del sistema produttivo, per usare un lessico Rullaniano.

In ogni caso, concordo sul fatto che l’incertezza scientifica sugli effetti e sugli obbiettivi da raggiungere così come la difficoltà di misurazione degli stessi sono un tema trascurato ma importante per comprendere i delicati equilibri degli accordi internazionali per uno sviluppo sostenibile.

La domanda quindi ora resta: come progettare un framework internazionale economico prima ancora che politico che permetta una soluzione win-win, che stimoli la partecipazione a un modello produttivo sostenibile per ogni stato membro nonostante le incertezze di cui sopra?

29 12 2009
marco (11:52:56) :

Grazie per i link, sono stati molto utili per ricostruire il dibattito. Mi sento di aggiungere una valutazione a quelle che sono state segnalate su questo blog. La mancanza di un accordo generale al COP15 è anche dovuta alla profonda divergenza di interessi in campo tra paesi sviluppati (USA in testa) e paesi in via di sviluppo (China, India, ecc.). I primi non vogliono riduzioni per non appesantire ulteriormente le proprie industrie provate dalla crisi globale. I secondi vogliono continuare a crescere e per raggiungere questo obiettivo non vogliono avere le mani legate da accordi ambientali che potrebbero tarpare le ali allo sviluppo industriale (che richiede maggior inquinamento per essere raggiunto).
Se proprio vogliamo trovare un terreno comune ai negoziati lo dobbiamo cercare nel modo di interpretare lo sviluppo sostenibile. Entrambi i fronti lo vedono di fatto come un costo e non come un investimento. I tanto sbandierati milioni di posti di lavoro dei green collars rischiano di essere soltanto un’abile manovra di comunicazione, perchè quando si arriva al dunque le posizioni politiche cambiano e di molto.
Mi domando se a questo punto non sia necessario cambiare anche il dibattito nel mondo dello sviluppo sostenibile. Invece di parlare delle sorti progressive della nuova industria verde che risolverà magicamente i problemi del pianeta senza penalizzare il PIL perchè non confrontarsi più pragmaticamente con il problema dei costi? Sì, lo sviluppo sostenibile non è un’opportunità economica: è un costo, diciamolo! E’ un costo di cui dobbiamo farci carico con tutte le conseguenze che esso comporta (aumento dei prezzi, nuovi processi produttivi; diminuzione delle vendite, ecc.). Il consumatore finale già dimostra oggi di essere molto attento a questo aspetti tanto da riconoscere un premium price ai prodotti più verdi. Perchè non partire da qui?

Marco

29 12 2009
Francesco (14:58:19) :

Concordo pienamente.
Primo riconoscere che nel breve e medio periodo lo sviluppo sostenibile può comportare maggiori costi. Secondo, parte della soluzione può venire dal “mercato”. Se i consumatori premiano il prodotto “green” e non il “vecchio” metodo produttivo non necessitiamo di imposizioni dall’alto per la sostenibilità economica.

Per un accordo internazionale… Forse la soluzione può avvenire ancora dal basso. Per i governi supportare soluzioni “green” che sono già preferite rispetto a quelle più inquinanti sarà più facile e soprattutto sarà più facile mantenere l’impegno dato.

9 01 2010
Valentina (10:25:09) :

Marco, fai bene a ricordare le difficoltà degli accordi sul clima. Presi dalla volontà di stimolare un nuovo modello produttivo ci si dimentica spesso di prendere in considerazione i costi che comporta. Gli stessi milioni di green collar job, a spulciare tra i dati, riguardano, almeno in parte, un cambiamento di nome più che la creazione di fatto di posti di lavoro.

Forse una prima considerazione post-Copenhange è che il modello per cui i policy maker calano dall’alto un modello produttivo che sana tutti i problemi è definitivamente da abbandonare. Presa consapevolezza che i grandi summit internazionali non possono trovare soluzioni convincenti, non veicolando nessuna effettiva volontà visti i costi che comportano, bisogna comunque pensare a come poter risolvere o almeno mitigare il “problema ambientale” che, ci piaccia o no, è destinato a influenzare pesantemente le nostre economie e le nostre vite in generale. Scienziati di tutto il mondo docet.

Come fare? La risposta secondo me sta nel guardare non più, solo, ai policy maker ma alle aziende da un lato, e al consumatore dall’altro, come suggerivate anche voi come protagonisti del cambiamento. Le prime, che in un ottica di medio-lungo termine possano rafforzare il proprio vantaggio competitivo garantendosi la sopravvivenza del proprio business e delle risorse che lo rendono possibile, guadagnando allo stesso tempo “green rents” sui mercati.
I secondi, che con le loro scelte possano orientare la transizione verso modelli di produzione a minor impatto ambientale.

Di nuovo, come fare? Domanda difficile, specialmente in tempi di crisi. Ma in questo campo sì, i policy maker potrebbero giocare un ruolo fondamentale. Non tanto imponendo tasse e limiti quanto piuttosto creando le condizioni perchè questo cambiamento “bottom-up”, che passa attraverso le strategie delle aziende e le scelte dei consumatori, possa realizzarsi.
Ad esempio, pensando a degli standard, validi a livello internazionale, che possano misurare e quindi segnalare i comportamenti “virtuosi”, in modo da rendere possibile alla aziende chiedere un premium price per i propri sforzi, e ai consumatori premiare con nozione di causa le alternative più sostenibili.

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