Attenti al lupo

23 09 2009

Al summit delle nazioni unite a New York sul clima vanno di scena le sorprese.

Ad apertura di lavori, il presidente dell’Onu Ban Ki Moon ha attirato l’attenzione sull’importanza del raggiungimento di un nuovo accordo globale sui livelli di emissioni da raggiungere: dopo il mezzo fallimento del trattato di Kyoto, si vuole evitare che il summit di Dicembre a Copenhagen si traduca in grandi slogan ma con un nulla di fatto; “un falllimento sarebbe moralmente senza scuse, economicamente miope e politicamente folle”. Non usa mezzi termini Ban Ki Moon: il rischio del fallimento del summit è molto molto vicino e, dati alla mano, potrebbe causare una catastrofe ambientale non reversibile.

Come reagiscono le nazioni a questo appello? Al vertice, non mancano le sorprese. Le nazioni infatti che più si sono esposte in questo summit sono proprio gli Stati Uniti e la Cina, che come si ricorderà sono state finora le più restie ad impegnarsi su questi fronti, non aderendo al trattato di Kyoto e continuando a favorire politiche energetiche basate sui carburanti fossili. Rappresentando quindi a tutt’oggi due tra le nazioni più inquinanti in assoluto, il 24% del totale mondiale (del 2007) di emissioni di CO2 la Cina, il 21% l’America. Obama ha parlato di una svolta rispetto all’amministrazione Bush, sottolineando la gravità della situazione e prospettano un ruolo per l’America da paese leader nella green economy. Hu Jintao non è stato da meno, annunciando “tagli notevoli” alle emissioni entro il 2020. Posizioni impensabili anche solo due anni fa, con l’amministrazione Bush che negava l’evidenza dell’incombenza del disastro e la Cina che si nascondeva alle sue responsabilità di inquinatore dietro alla motivazione di essere un’ economia emergente.

Ma che fatti aspettarsi dietro a questi slogan altisonanti? A livello concreto sembra che le buone volontà dei due leader si trasformino in pochi progetti concreti e si scontrino con una effettiva resistenza nei loro paesi. A Washington le lobby del petrolio sono riuscite a fare arenare una legge sul risparmio energetico e anche nella Cina della crescita miracolosa molte aziende sono contrarie alla regolamentazione delle emissioni produttive, a favore di un liberismo selvaggio in materia di metodi di produzione e livelli di inquinamento permessi. Ma paradossalmente, queste problematiche sono le stesse che caratterizzano i cosiddetti “paesi virtuosi” in cui teoricamente dovrebbe rientrare anche l’Italia come parte dell’Unione Europea, first mover e aspirante leader nell’impegno di ridurre le emissioni e riconvertire l’apparato produttivo verso la green economy delle rinnovabili e dei prodotti e ridotto impatto ambientale. Nonostante i proclami e gli impegni fissati, sembra che non tutti gli stati europei saranno in grado di raggiungere gli obbiettivi fissati per il 2020. (Ogni riferimento all’Italia è, ovviamente, puramente casuale). Alle difficoltà effettive di riconvertire un apparato produttivo ancorato da decenni all’utilizzo di energie fossili e allo sfruttamento incontrollato delle risorse si aggiunge il problema dell’importanza di un cambiamento sinergico, in cui siano coinvolte tutte le nazioni. Che senso ha che noi investiamo tanto nella purificazione dei nostri impianti se poi in Cina, India e Russia vengono usati ancora impianti a carbone, utilizzati materiali tossici e sfruttate completamente le risorse naturali?

Il problema è che se uno stato inquina anche gli altri ne patiranno le conseguenze, e se non tutti partecipano alla lotta alla riduzione del buco sull’ozono e al fermare l’innalzamento della temperatura terrestre, i risultati saranno dimezzati: gli economisti parlerebbero di esternalità negative e di conseguenti comportamenti da free rider. Con le nazioni “virtuose” che si nascondono dietro i ritardi delle ultime della classe, e quest’ultimo dietro lo status di paesi emergenti.

Come uscire da quest’empasse? Affinchè tutti gli stati facciano la loro parte, è indispensabile il ruolo degli accordi internazionali. Grandi attese dunque, per il summit di Dicembre a Copenhagen. Soprattutto è necessario che quanto viene deciso sia poi effettivamente rispettato da tutti. Senza aspettative di condoni.

Valentina



Si cambia luce

8 09 2009

Dopo tante discussioni e progetti il giorno è arrivato. Dal primo di settembre comincia il cambio generazionale delle lampadine, che vedrà sostituite tutte le lampadine ad incandescenza con le nuove ad alta efficienza energetica.

Il cambiamento, dovuto a un regolamento europeo, prevede una sostituzione graduale, da ultimarsi entro il 2012. La decisione non è un fulmine a ciel sereno: la discussione del progetto di legge è iniziate nel parlamento europeo molti anni fa, spinta dalle considerazioni sull’incidenza dei consumi elettrici sul totale delle emissioni e sullo spreco energetico. Che le lampadine a incandescenza fossero dei mostri ecologici, poco efficienti e pure inquinanti (trasformano solo il 5% dell’energia in entrata in luce) era risaputo da tempo. Eppure il minor costo rispetto alle rivali green come le lampadine fluorescenti, alogene o LED, e le diverse prestazioni le hanno finora date per favorite nel mercato finale. Anche se, assicurano in europa, il passaggio a queste lampade può permettere il risparmio di 50 euro in bolletta ad ogni famiglia. Colpa della poca lungimiranza e di una scarsa disponibilità dei nuovi prodotti, nelle vetrine mediatiche per le loro migliori performance ma più difficili da trovare nel ferramenta di quartiere o negli scaffali dei grandi magazzini.

Per porre fine a questo circolo vizioso in cui le aziende producevano prodotti di conclamata inefficienza per soddisfare le esigenze di consumatori pigri al cambiamento e attenti ai costi di breve, ci è voluto l’intervento del terzo soggetto del mercato, lo Stato. La commissione europea si è presa infatti carico di risolvere questa inefficienza e ha scelto questo settore quasi a mascotte per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica e riduzione delle emissioni del pacchetto 20-20-20. Il policy maker si è quindi preso la briga di selezionare le tecnologie efficienti, o meglio, quelle più inefficienti, sostituendosi al libero mercato ingabbiato in un circolo vizioso che non avrebbe, da solo, raggiunto gli obiettivi di sostenibilità ambientale. Con il risultato che, a livello europeo il risparmio in elettricità che si dovrebbe raggiungere sarebbe pari a 10 miliardi di euro con una riduzione di CO di 38 milioni di tonnellate, pari alla produzione di 52 centrali elettriche o a 156 milioni di barili di petrolio in un anno.

E la sostenibilità economica? L’imposto cambiamento di tecnologia non è stato certo indolore per le aziende del settore. Inutile nascondersi che molte aziende hanno sofferto nel sostenere i costi di una riconversione della propria offerta produttiva (che comunque, vedranno bene di spartire con il mercato finale). Ma per alcune questo cambiamento è diventato fonte di un vantaggio competitivo. Come Philips, che grazie alla virata vero una produzione di eco-lampadine è ora leader indiscussa del mercato. Fiutando l’ineluttabilità del cambiamento, si è lanciata, prima dell’effettiva entrata in vigore della legge, nelle nuove tecnologie, riconfigurando il suo brand, ponendo attenzione a ogni aspetto di inquinamento e consumo dei suoi prodotti e processi produttivi, e comunicando in grande stile il tutto ai consumatori. Cominciando con largo anticipo il cambiamento, si è risollevata e guadagnata, ora, il ruolo di leader nel mercato, e non solo europeo. Vantaggio da first mover, direbbero gli economisti, strategia di medio-lungo termine, i più saggi.

L’esempio della lampadina, mascotte delle nuove produzioni sostenibili europee, ci insegna che a volte il mercato, da solo, non ce la fa a tenere insieme i tre assi della sostenibilità, ambientale, energetica e sociale e che in questi casi l’intervento dello stato può essere utile per aumentare il welfare totale, uscendo dai meccanismi inceppati delle inerzie e delle path dependencies tecnologiche. E tuttavia Philips ci conforta, confermando che c’è spazio nei nuovi scenari verdi per aziende che decidono di investire nel design, nei processi, nella comunicazione in sostenibilità. La necessità di migliorare le performance ambientali prodotti e processi produttivi sembra ormai ineludibile: la differenza tra chi vince e chi perde alla fine si giocherà anche sulla capacità di essere pro-attivi rispetto al cambiamento.

Valentina