E se l’insostenibilità invertisse la globalizzazione?

28 06 2008

Il mondo si sta allargando: dopo anni di frenesia delocalizzativa in Cina e in altri paesi del lontano oriente, le aziende cominciano a riavvicinare la produzione, a livello nazionale o locale.
E il motivo sembra essere non tanto un ritorno a politiche autarchiche o questioni finanziarie, sociali o culturali. Il motivo è il persistente, costante aumento del prezzo del petrolio.

Siamo abituati a pensare alle tematiche legate alla sostenibilità ambientale come ad argomenti per aziende visionarie o gruppi di consumatori più sensibili di altri, problematiche legate a determinate classi di prodotti e destinate ad impattare solo per alcune strategie aziendali. Un recente rapporto per la maggiore banca di investimenti canadese, la CIBC, curato da Jeff Rubin e Benjamin Tal ci stimola a rivedere questa idea. La globalizzazione, affermano, è reversibile. Il problema è legato al fatto che la maggior parte di questo commercio internazionale, quasi il 90% in tonnellate, si sposta via mare, mezzo per il quale, soprattutto per prodotti di grandi volumi, l’incidenza del costo del petrolio è molto alta, tale da annullare molti dei vantaggi che si erano creati con la riduzione dei dazi doganali o il differenziale nei costi di manodopera.
Lo studio di Rubin e Tal fa un interessante raffronto tra il costo di trasporto e i dazi: ai prezzi attuali, è come se ci fosse un dazio del 9% sulle importazioni, che, se il petrolio raggiungesse i 200$ a barile, salirebbe all’11% tariffa media durante i lontani anni ’70. Se il petrolio mantenesse i prezzi attuali, alcuni studiosi hanno valutato che il commercio mondiale potrebbe ridursi addirittura del 17%.

In America hanno già cominciato a raccontare le prime storie di imprese che sono tornate a produrre in patria, dall’azienda di divani alla produttrice di batterie elettriche dell’Ohio, e importanti consulting agency come Deloitte hanno già cominciato a produrre rapporti su come le aziende possono trarre il meglio dalla neo-coniata de-globalizzazione.
In Italia, mi sembra che ancora poca attenzione è stata posta su questa conseguenza secondaria dell’aumento della bolletta energetica, che pure ha il potenziale di stravolgere i principali assetti economici ed organizzativi degli ultimi dieci anni. Sicuramente molte delle aziende italiane stanno prendendo in seria considerazione questo cambiamento, pensando magari di spostare le proprie rotte dalla lontana Cina a più vicine ma sempre economiche mete dell’Europa dell’est.
Luci puntate sulle aziende italiane che hanno fatto dell’internazionalizzazione il loro principale vantaggio competitivo, dunque, e in primis su quelle imprese che avevano spedivano e ri-importavano semi-lavorati, per far produrre alcune fasi della produzione nel lontano oriente.
Un’altra sfida che i nostri imprenditori italiani devono trasformare in opportunità.

Valentina