Dalla sostenibilità nelle catene del valore secondo Kraft.

1 05 2010

Da dove partire per ridurre gli impatti ambientali sul pianeta delle attività industriali?

Per anni il mondo ha guardato ai politicanti per trovare una soluzione al problema dell’uso spropositato di risorse non rinnovabili e dell’inquinamento di aria, terra, acqua generate dalla produzione e dal consumo di prodotti e servizi, ma i risultati non si sono dimostrati esaltati. Si sta invece facendo invece sempre più strada l’idea di un approccio bottom up, guardando alla spinta innovativa di imprese che possano canalizzare le proprie entrate verso prodotti a basso impatto ambientale. Un ruolo rilevante in questo senso possono giocare le grandi imprese, che forti di grandi volumi di acquisto e di vendita e di potere di mercato, possono generare maggiori impatti, evitando lentezze e compromessi che sono inevitabili componenti dell’attività politica. Ma come possono le aziende diventare “green”?

Qualche risposta da un intervento alla Nicholas School of the Environment a Duke University del vice responsabile della sostenibilità di Kraft Food, multinazionale seconda solo a Nestlè come produttore di prodotti alimentari&C.

Profitable green. La sostenibilità ambientale è una lente attraverso cui leggere l’attività innovativa ma che non può prescindere da obbiettivi di ritorno sugli investimenti e profittabilità. Prodotto per prodotto, problema ambientale per problema ambientale quindi, l’azienda sceglie di investire in progetti che permettono una contemporanea riduzione dei costi produttivi (magari utilizzando propri scarti produttivi) o la realizzazione di maggiori volumi (grazie all’azione congiunta del marketing che valorizza le caratteristiche di sostenibilità del prodotto agli occhi del consumatore).

Be creative: I problemi ambientali non sono semplici nè hanno soluzioni univoche. Piuttosto, implicano spesso dei trade-off, vista anche la mancanza di tecnologie alternative a quelle impattanti che permettano simili costi. è questo quindi il dominio ideale dell’attività innovativa dell’impresa. Qualche esempio per quanto riguarda il packaging. Molti dei materiali utilizzati per confezionare prodotti alimentari non sono riciclabili e non vi sono al momento alternative a minor impatto ambientale che permettano gli stessi bassi costi. Cambiare il materiale impiegato è però solo una delle possibili soluzioni. Per il brand di caffè inglese Kenko, l’azienda ha agito sulle diverse modalità d’uso del prodotto, riducendo del 97% il packaging vendendo, invece che il solito barattolone usa e getta, pacchi di caffè refill, da svuotare a casa in un barattolone multiuso. Un altro approccio utilizzato per evitare il collo di bottiglia tecnologico, è quello dell’ “up-cycling”: insieme all’azienda TerraCycle, Kraft ha realizzato un sistema che incoraggia i consumatori a riciclare le confezioni dei propri prodotti, che saranno poi trasformati da TerraCycle in borsette o giochi per bambini.

Ridurre gli impatti oltre le proprie attività produttive. Il luogo da cui le aziende partono per ridurre il proprio impatto ambientale sono le attività produttive che hanno luogo all’interno delle proprie mura. Riduzione del fabbisogno energetico, dell’inquinamento atmosferico, degli sprechi produttivi, energie rinnovabili sui tetti. Se è vero che questo approccio è più semplice, permettendo un controllo diretto, non permette tuttavia di ridurre i maggiori impatti ambientali, che spesso sono generati dalle attività di fornitori e altri attori a monte della catena del valore, esterni al controllo diretto dell’azienda. Come risolvere questo problema? Anche in questo caso, l’esempio di Kraft punta verso soluzioni case-to-case. Nel caso ci siano delle certificazioni ambientali valide e i prodotti in questione permettano maggiori ritorni, come nel caso del caffè Kenko, l’azienda sceglie di rifornirsi solo da fornitori certificati. In altri casi, invece, l’azienda sceglie di collaborare con i propri fornitori esistenti, esponendo i propri obbiettivi di sostenbilità e lavorando insieme sulle possibili soluzioni. In ogni caso, il modello “d’imposizione” non sembra funzionare: neanche multinazionali della stazza di Kraft riescono ad esercitare sufficiente potere su fornitori indipendenti. Inoltre il richiedere regole precise a volte diventa controproducente, non permettendo la flessibilità necessaria per affrontare al meglio i trade-off legati ai problemi di sostenibilità. L’esempio di Kraft racconta che incentivare l’attività del fornitore, piuttosto che pretendere, si dimostra la soluzione migliore per rendere verde la propria catena del valore.

Valentina



Il mercato non è sempre una strategia fallimentare quando si parla di ambiente: Europa insegna ad America 1 a 0

1 04 2010

è quello che ho imparato  alla conferenza a Duke University per la presentazione del nuovo libro di Ellerman (MIT), Convery (University College Dublin) e De Perthuis (University Paris-Dauphine) sul mercato delle emissioni in Europa.

Può sembrare strano aver fatto tanta strada per venire in America, per sentire parlare della situazione di casa. Ma il contributo più interessante del libro non è una mera analisi della funzionalità dello strumento messo a punto dalla comunità Europea per ridurre le emissioni e stimolare le produzioni più green, ma piuttosto l’averlo reso un mezzo di paragone per gli altri stati, USA in primis, che faticano a riconoscere i benefici di un’economia verde.

Il libro e la presentazione, partono giustamente da un’analisi storica, individuando tra le ceneri delle iniziative riguardanti la carbon tax o il raggiungimento degli obbiettivi di Kyoto il punto di partenza di quello che diventerà il più efficiente sistema di riduzione delle emissioni al mondo. La maggiorata attenzione ai cambiamenti climatici, un clima favorevole a livello politico e di industria, forti pressioni da parte di NGO e associazioni di consumatori hanno sostenuto l’approvazione della direttiva che, a partire dal 2005, ha previsto limiti alle emissioni degli stabilimenti europei nei settori dell’energia, industria siderurgica, dei prodotti minerali, ceramica e della carta. Il meccanismo sottostante il sistema ibrida forme di regolazione pura -attraverso l’individuazione dei settori che per legge devono rispettare queste norme – con quelle di mercato – permettendo un mercato dei diritti di emissione con prezzi determinati dal libero mercato, in pieno stile Chicago School.

Gli autori del libro sottolineano l’efficacia del sistema: in 3 anni si è assistito ad una riduzione delle emissioni compresa tra il 2 e il 6% del totale. Cifra molto al di sotto degli obbiettivi del 20% fissati per il 2020, ma che rappresentano il miglior risultato di sempre in termini di politiche atte a ridurre le emissioni. Vantaggi interessanti sono stati rilevati anche dal lato economico, con lo sbocciare di nuovi intermediari e con il coinvolgimento di molti più siti di quelli strettamente previsti dalla legge. Il libro non prende in analisi gli impatti della crisi, ma gli autori sono convincenti nello spiegare che il mercato delle emissioni pur non essendone immune, resiste alla congiuntura negativa, soprattutto grazie alla presenza di reali vantaggi economici di cui hanno beneficiato molti soggetti avvallando le richieste di questo mercato “artificiale”.

Un sistema con difetti e risultati non sempre strabilianti, ma che, a detta degli autori, finora è il migliore esempio di accordo sovra-nazionale in termini di risultati ambientali e impatti a livello economico. Interessante notare il fervore con cui professori americani superavano il tradizionale orgoglio nazionale per documentare un successo d’oltreoceano. L’obbiettivo del libro, e della relativa conferenza, erano proprio quelli di capire per imparare e replicare. In un congresso che ha appena faticato ad approvare la riforma sanitaria non è pensare chiedere in tempi brevi di legiferare su un altrettanto discusso argomento. Tuttavia gli autori sono convinti che applicare in America o in altre zone del mondo un modello simile sia non solo auspicabile ma anche fattibile, seppure con grandi difficoltà. Un modello che come quello europeo possa funzionare nonostante l’eterogeneità degli stati membri e nonostante gli ineludibili svantaggi cui alcune aziende incorreranno nel breve-medio termine, grazie all’azione di un attore centrale che gestisca il sistema e che garantisca anche vantaggi “compensatori” agli stati partecipanti.



E se fosse proprio il territorio il laboratorio di una rivoluzione energetica incentrata sulle rinnovabili?

23 03 2010

Per evitare di essere accusata di plagio, lo dico già nelle prime righe. La frase del titolo non è mia ma è ripresa dall’ interessante introduzione di Edoardo Zanchini an un altrettanto interessante rapporto di Legambiente sul rapporto dei comuni italiani con le fonti di energia alternativa.

Fonti amientaliste e politiche stanno da anni cercando di spingere un modello di produzione di energia distribuita puntando sui singoli individui, nella speranza che un condizionamento culturale e qualche incentivo in ordine sparso possa convincere grandi masse di cittadini a sostenere investimenti a medio lungo termine per installare impianti di energia alternative. Un approccio bottom up che coinvolga il maggior numero di cittadini è sicuramente auspicabile, intendiamoci. Forse però non sempre efficace, visto il ridotto numero di impianti installati dalle famiglie italiane, soprattutto rispetto ai risultati ottenuti in altre nazioni (e.g., Germania) che pure non godono come noi delle fonti di energia rinnovabile, sole in primis. Il problema, è che da un lato lo Stato non può o non riesce a farsi carico di una ristrutturazione completa del sistema di approviggionamento energetico, dall’altro la singola famiglia fatica a superare le logiche di breve termine per installare un impianto che garantirà da subito vantaggi ambientali e sociali in genere, ma economici solo nel medio-lungo termine. Il quadro legislativo ed economico incerto non contribuisce certo a favorire la situazione.

Il recente rapporto “Comuni Rinnovabili 2010” curato da Legambiente ci ricorda che c’è un attore, tra la politica politicante e le scelte del singolo cittadino, che può facilitare il passaggio alle energie pulite: l’ente locale. Un ruolo che non è solo potenziale ma è già realtà in molte zone d’Italia. I dati parlano chiaro; sempre più comuni, un po’ per far cassa in periodi di ridotti finanziamenti nazionali, un po’ per contribuire a rivitalizzare l’economia locale e migliorare le condizioni ambientali, hanno investito in pannelli solari o impianti di energia geotermica, che in alcuni casi riescono a soddisfare interamente il fabbisogno dei loro cittadini. 6.993 hanno già installato almeno un impianto e il trend rispetto agli anni scorsi sembra molti incoraggiante: solo un paio di anni fa erano meno della metà. Il fotovoltaico è quello che va per la maggiore, ma alcuni comuni si sono cimentati anche nell’istallazione di impianti eolici (297), geotermia (181) o idroelettrici (799). Già 15 comuni sono riusciti a coprire l’intero fabbisogno energetico, in termini sia di elettricità che di riscaldamento dei propri cittadini.

Non stupisce che il caso più emblematico sia in provincia di Bolzano, che dispone di più di 960 metri quadri di pannelli solari termici e 512 kW di pannelli fotovoltaici (per 1800 abitanti, ndr) diffusi sui tetti di case e aziende, ma farà piacere sapere che, almeno in questo caso, non sono solo le regioni del Nord ad aver colto la sfida economica ancora prima che ambientale, delle rinnovabili. La mappa della diffusione degli impianti rinnovabili mostra un interessante coinvolgimento di comuni e provincia in tutto il territorio nazionale, pur scontando comprensibili differenze riguardo le singole tecnologie:Biomasse, Idroelettrico e Solare Termico sono più diffuse nel centro-nord, mentre solare ma soprattutto eolico sembrano punti di forza soprattutto del centro-sud.

Al di là dei dati sulle singole tecnologie mi sembra interessante rilevare il ruolo emergente del territorio come attore principale del cambiamento verso un modello ad energia pulita. Gli enti locali possono rappresentare l’anello mancante per implementare questo modello virtuoso, superando i limiti cui incorre il singolo – permettendo vantaggi di scala e una migliore gestione della burocrazia legata ai nuovi impianti – e il regolatore – grazie alle più gestibili dimensioni e alla maggiore conoscenza del territorio, del suo potenziale e delle sue necessità.

Valentina



Electrolux e la sostenibilità attivata: atto primo

17 02 2010

Non servono molte introduzioni per presentare Electrolux. Il gruppo svedese si è guadagnato negli anni una posizione di leadership assoluta nella produzione di elettrodomestici da consumo e professionali, distribuendo ogni anno più di 40 mila aspirapolvere, asciugatrici e forni in più di 150 paesi.

Ma forse meno si sa sulla sua, recente ma non troppo, conversione verde. Conversione forse non è il termine adatto per descrivere un percorso la cui prima tappa risale al 1986, un era geologica fa in termini di consapevolezza del consumatore e di legislazione sul tema, e che si è sviluppato in modo incrementale. All’inizio, fu la normativa. Una serie di provvedimenti restrittivi in termini di materiali cui non era concesso l’utilizzo furono l’occasione per l’azienda per cogliere la necessità di capire il proprio impatto ambientale per prevenire i cambiamenti legislativi, piuttosto che subirli passivamente. Ma ben presto l’approccio ambientale del gruppo è entrato nel vivo della strategia di Electrolux, ben oltre le scrivanie degli uffici qualità o conformità , fino nel vivo dei tavoli decisionali. Si è partito dal rivedere i processi produttivi, in uno sforzo di riduzione degli sprechi di energie e materie prime che ha coniugato i principi dell’eco-efficienza con dei ritorni economici di breve.

Ma le innovazioni più interessanti sono quelle che hanno riguardato da un lato i prodotti. Ogni prodotto è progettato per minimizzare energia, acqua e detersivi impiegati per farlo funzionare, ma anche garantire lo smaltimento e il riciclo alla fine del ciclo di vita. I materiali impiegati sono i più ecologici possibile e non tossici, rispettando standard più rigidi di quelli imposti dalle normative vigenti. Anche il trasporto dei prodotti è stato rivisto secondo principi di sostenibilità: si è cercato di minimizzare l’utilizzo di trasporto su gomma, a favore di rotaia o dell’intermodalità, o almeno di limitarlo ai soli camion a basse emissioni.

Ma quello che è più interessante è che l’azienda ha rivolto i propri sforzi non solo a ridurre gli impatti nel proprio processo produttivo, ma ha coinvolto altri attori, all’esterno dei cancelli aziendali.

I primi sono i consumatori: le più importanti riduzioni degli impatti avvengono infatti in fase di consumo del prodotto, che è progettato perchè il consumatore, nell’uso dello stesso, possa minimizzare i consumi. Il consumatore è quindi coinvolto attivamente:,non è solo soggetto passivo di un comunicazione sulle buone pratiche ambientali del produttore. L’elettrodomestico acquistato lo abilita nel realizzare comportamenti virtuosi ma allo stesso tempo gli dà dei ritorni immediati, non solo in termini etico-valoriali ma soprattutto in termini economici, permettendo risparmi che, specialmente in periodi di crisi, sembrano un argomento più convincente nella scelta d’acquisto del solo contributo alla salvaguardia dell’ambiente.

Gli altri soggetti attivati dall’azienda grazie alla propria politica di sostenibilità sono i fornitori. Il gruppo, infatti, non si è accontentato di garantire la sostenibilità dei processi produttivi che avvengono all’interno dei confini dell’impresa, ma fa un proprio punto di forza l’evidenziare il controllo delle performance ambientali dell’intera catena di produzione che porta alla realizzazione del suo prodotto . Il gruppo ha definito uno stringente codice di condotta, che detta standard in termini di rispetto dell’ambiente, caratteristiche dei prodotti ma anche di salubrità e sicurezza dell’ambiente di lavoro e condizioni salariali che fa rispettare non solo in ognuno dei 54 stabilimenti di proprietà, ma anche in ognuno dei propri fornitori. Come di consueto, enti verificatori terzi sono incaricati di certificare l’efficacia di questo sistema.

Una serie così consistente di innovazioni di prodotto, processo e organizzative, implica investimenti significativi, rivisitazioni del sistema organizzativo, uno sforzo consistente in ricerca e sviluppo. Come sono state realizzate queste innovazioni, e come questo percorso ambientale sia diventato la strategia vincente per Electrolux, tanto da ripagare e oltre gli investimenti realizzati, sarà il contenuto della prossima puntata.

Valentina



I perchè del fallimento del COP15

28 12 2009

Il COP15, da poco conclusosi nella fantastica cornice di Copenaghen, è un summit che ha riunito i capi dei governi mondiali (189 dicono) per creare un protocollo per fronteggiare il cambiamento climatico riducendo la produzione di gas serra. Oggetto delle speranze di chi auspica un intervento legislativo per imporre un modello di produzione e consumo più sostenibili, si è dimostrato un fallimento annunciato.

Per capire le ragioni del fallimento di questo evento tanto atteso, mi affido all’interessante e disincantata analisi del fallimento scritta da Richard Black, corrispondente per gli argomenti ambientali della BBC.

In primis, governi chiave non volevano veramente raggiungere obbiettivi stringenti. I grandi paesi in via di sviluppo, Brasile, Sud Africa, Cina e India, responsabili di una crescente fetta delle emissioni globali preferiscono infatti accordi con regolazioni più informali, in cui obbiettivi sfidanti di riduzione delle emissioni siano fissati ma in cui non sia previsto un sistema di applicazione legalmente vincolante.

Anche la posizione degli Stati Uniti, pecora nera numero nella classifica mondiale degli inquinatori, non ha favorito il raggiungimento di grandi obbiettivi. L’amministrazione Obama ha sicuramente inferto una sterzata alla politica americana in materia dai tempi in cui era guidata dalla famiglia di petrolieri Bush. Tuttavia è chiaro come dietro le buone intenzioni di Obama ci sia un congresso più che recalcitrante ad approvare ogni provvedimento green. Nonostante i positivi segnali dati in primis dalla presenza del presidente americano al summit, dalla legge con cui ha cercato di bypassare il dissenso interno al senato e dalle risorse promesse durante il summit stesso, sembra poco credibile che riesca a trascinare il congresso ad approvare una svolta green. Bad timing, come dice Richard Black ricorda il momento di fragilità del leader americano, che si sta già spendendo, con evidenti difficoltà, su un altro fronte controverso: la riforma della sanità.

Anche la gestione del summit da parte della Danimarca non è stata delle migliori, sollevando più di qualche malumore. Secondo Black, lo staff, a partire da Rasmussen, non si è dimostrato all’altezza né nel gestire la complessa macchina burocratica sottostante incontri delle nazioni unite né di cogliere e gestire il punto politico dell’incontro.

Anche l’Unione Europea, ha le sue colpe, nonostante il pacchetto proposto durante il summit fosse il più stringente tra tutti. Ci si sarebbe infatti aspettati un atteggiamento meno remissivo nei confronti dell’accordo raggiunto dal tandem US-BASIC (Brasile, Sud Africa, India e Cina), che avrebbe potuto trascinare anche altri paesi e soprattutto consacrato il ruolo di leadership per una economia più pulita, che in varie occasioni l’Europa ha dichiarato come proprio obbiettivo strategico.

Anche la politica del just-in-time con cui giornali e TV di tutto il mondo hanno raccontato risulta nella lista dei colpevoli del flop. Black sottolinea infatti l’immiserimento del giornalismo, che ha contribuito a dare una falsa immagine dei risultati raggiunti: si è puntato a riportare gli altisonanti discorsi dei capi di stato più che a verificare cosa sia effettivamente deciso. Maglia nera anche per le NGO e organizzazioni di protesta, bloccati dalla contrapposizione tra il tradizionale appoggio ai paesi in via di sviluppo e la necessità di combatterli in quanto grandi inquinatori.

Insomma, la mappa dei colpevoli del flop è molto ampia. Ora si tratta di capire quale potrà essere nel futuro il ruolo di accordi internazionali, da tutti indicati come fondamentali per evitare le catastrofi annunciate dagli esperti se la questione ambientale continuerà ad essere negletta. O forse di guardare ad altri possibili protagonisti del cambiamento: non più politica e diplomazia ma industria e imprenditorialità.

Valentina



Il verde che c’è ma non si vede

24 11 2009

Qualche settimana fa abbiamo parlato del fatto che l’attenzione all’ambiente stia diventando un trend in alcuni settori tanto che tutte le aziende si stanno volgendo in un modo nell’altro in questa direzione. In particolare vi avevo raccontato delle testimonianze di professori, imprenditori, rappresentanti istituzionali che avevo ascoltato ad una convention sul futuro del settore legno arredo, concludendo che, almeno in quel settore, il raggiungimento di obbiettivi di riduzione degli impatti sull’ambiente sembrava ormai cosa fatta.

Da brava ricercatrice, non mi accontento però delle cose che mi vengono raccontate e mi piace andare a verificare l’arrosto dietro al fumo. La convention, FUTSU, era ospitata all’interno di SICAM, fiera internazionale di componenti, semilavorati e accessori per l’industria del legno-arredo. Quale miglior occasione per verificare se effettivamente portafogli prodotti e processi produttivi delle aziende siano stati modificati per considerare anche gli impatti ambientali?

Munita di taccuino e curiosità mi sono addentrata tra gli stand degli oltre 400 espositori, un viaggio tra i protagonisti del legno arredo italiano che merita raccontare. Oggetto della mia missione in codice era quello di verificare quanti espositori parlassero di sostenibilità ambientale nei loro stand o nelle loro brochure e, nel caso, di cosa effettivamente si trattasse.

Il mio primo avvistamento è un incontro del terzo tipo. Tra le righe della brochure di una piccola azienda di pannelli trovo la menzione “ecologico” tra le caratteristiche di prodotto. Mi avvicino con un gran sorriso al venditore che mi spiega che il loro prodotto è ecologico perchè usa legno e non plastica. Insomma, non è veramente ecologico, ma … cosa non si mette nelle brochure per fare una buona impressione! Comunque, aggiunge il venditore, forse leggendo il mio disappunto, per il futuro stanno cercando di sviluppare nuovi prodotti, questi sì ecologici, utilizzando pellami di riciclo.

Passata oltre, ho cominciato a segnare sul mio taccuino i nomi delle aziende nei cui stand vedevo apparire anche solo un apparenza di verde ed ecologico. Il resoconto è, a prima vista, avvilente. Dei 400 espositori la mia lista non contiene più di dieci aziende. Come interpretare questo dato?

Una prima ipotesi è che quanto ho ascoltato alla convention fosse solo fumo e non ci sia nessun arrosto serio sotto. Che quella della sostenibilità ambientale insomma, sia solo una trovata d’immagine, che tutti dicono di prendere in considerazione se specificatamente interpellati, ma che non gioca poi nessun ruolo concreto nelle scelte di sviluppo di nuovi prodotti o come fattore importante d’acquisto. Ma troppe fonti, dal mercato alla politica alla ricerca indicano nella direzione opposta per poter credere appieno a questa tesi.

La vera chiave interpretativa per capire questa differenza sta secondo me invece nella poca capacità delle nostre PMI di settori tradizionali di comunicare il loro approccio ambientale. Poche delle aziende che hanno intrapreso un percorso di sostenibilità lo comunicano ai propri clienti e consumatori. Se in generale le aziende italiane hanno ancora poche competenze nella comunicazione, questo problema è ancora più sentito quando si tratta di far leva sulle caratteristiche green dei propri prodotti. Alcune aziende usano le certificazioni (come la ISO14001 o l’Ecolabel) come segnale del proprio atteggiamento sostenibile, ma per poter usufruire appieno delle potenzialità di mercato legate alla sostenibilità ambientale un logo stampato sul prodotto non sembra sufficiente e una comunicazione più mirata è sicuramente indispensabile. Come ha fatto la friulana Copat, che da quando ha deciso di controllare la propria impronta sull’ambiente ha deciso di fare di questi aspetti parte integrante del proprio sforzo comunicativo.

Insomma, per poter parlare di strategia vincente, che coniughi ambiente ed economia, non serve parlare solo di azioni di sostenibilità, ma anche di come queste vengano poi comunicate ai propri consumatori in modo che le aziende possano trarne il relativo premium price o comunque ritorno d’immagine.

Valentina



Come sopravvivere a Serge Latouche

5 11 2009

La scorsa settimana a Padova ho avuto l’onore di partecipare ad un seminario di uno dei più conosciuti e influenti pensatori fautori dello sviluppo sostenibile. Serge Latouche, professore, filosofo, autore di bestseller sul tema tra cui L’occidentalizzazione del Mondo, Farewell to Growth e Come Sopravvivere allo Sviluppo, è stato tra i primi a portare alla ribalta a livello internazionale la necessità di perseguire modelli di sviluppo più sostenibili e in particolare di un modello di decrescita felice.

Il punto di partenza delle sua riflessione parte dalla considerazione che il periodo di crisi attuale, che motiva la riflessione sulla sostenibilità di questo modello di sviluppo, affonda le radici ben più lontano delle attuali e pur importanti crisi dei sub prime e dei mercati economico-finanziari.  La crisi che famiglie e imprese stanno affrontando in questo periodo, secondo un interpretazione che mi ha ricordato un po’ un intervento di Enzo Rullani di qualche tempo fa, rappresentano infatti solo la punta di un iceberg di una crisi più ampia, che riguarda l’intero sistema produttivo. Una crisi economica, una crisi culturale, una crisi antropologica. Insomma, una crisi della civiltà della crescita e del consumo, che aveva nel Fordismo il suo cavallo di battaglia.

In relazione a queste diverse anime della crisi nella crisi, Latouche ha guidato il pubblico curioso di studenti e professori nell’analisi di tre diverse prospettive di sviluppo.

La prima prospettiva è quella della società della crescita, protagonista delle economie occidentali a partire dalla rivoluzione industriale, e ben rappresentata dalle demonizzate multinazionali e dall’esasperazione del consumo, che si basa su uno sfruttamento sconsiderato di risorse, considerate illimitate. A questo modello, criticato dai suoi indicatori di benessere (PIL) alla sua considerazione delle risorse fisiche (illimitate) o ai suoi metodi (marketing aggressivo), Latouche, in relazione alla crisi, associa il termine catastrofismo.

La seconda via allo sviluppo è invece quella della crescita negativa, cui Latouche affibbia il termine disperazione , visto che non risolverebbe la crisi e porterebbe a un evidente peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei più.

La terza via, il modello di sviluppo promosso da Latouche, è invece quello della decrescita (felice), un modello di sviluppo tutto da inventare, in rottura con il passato, che si faccia carico di affrontare i problemi della scarsità delle risorse, dell’inquinamento, dell’aumento della popolazione e delle disuguaglianze sociali. Con un linguaggio straordinariamente forbito per uno straniero e con una serie di affascinanti accenti improbabili, Latouche ha infiammato la sala inanellando una serie propositi per raggiungere questo modello di sviluppo. Linee guida che dovrebbero dirottare la società moderna, quella del consumismo sfrenato e della produzione in-consapevole, verso un modello di sviluppo sostenibile in termini ambientali, riducendone l’impronta ecologica, e sociali, sanando le disuguaglianze tra il nord e il sud del mondo. Latouche ha propugnato l’importanza della ri-localizzazione, della ri-distribuzione, di un consumo e una produzione più consapevoli, di orientare la ricerca verso nuovi obbiettivi socio-economici. Salvo poi non specificare come si possano raggiungere questi punti, trasformando completamente una sistema produttivo che è ormai radicato nella società. Il programma di Latouche mi è sembrato un po’ la lista dei buoni propositi: un insieme di punti su cui nessuno può dissentire ma senza alcuna indicazione su come raggiungerli. Lo stesso Latouche, messo alle strette su domande che chiedevano concretezza, ha detto che il suo è più uno slogan che un vero programma.

Apprezzo molto l’opera di Latouche che, coniugando filosofia e spirito rivoluzionario ha portato alla ribalta l’importanza e l’urgenza del cambiare il modello di sviluppo attuale, per evitare che la riduzione di combustibili fossili o gli effetti dell’inquinamento portino presto a una società del catastrofismo o della disperazione.  Tuttavia, credo che lo sforzo vero da fare in questo momento, a livello intellettuale e politico, sia quello di fare un passo in più e, prendendo in considerazione la società e l’economia esistente, pensare a obbiettivi concreti e realizzabili per traghettarle verso un modello di sviluppo.

A.A.A. intellettuali con proposte concretizzabili per una riconversione cercasi.

Valentina



A New York sfila la moda sostenibile

26 10 2009

Dal 10 al 19 settembre si è tenuta a New York la consueta settimana della moda. In quanto appassionata ed impiegata del settore cerco sempre di tenermi aggiornata sulle novità ed i cambiamenti in atto nel sistema ed è così che sono venuta a conoscenza di alcuni eventi sulla moda sostenibile ospitati proprio in occasione della kermesse.  Ho fatto ciò che era nelle mie possibilità per potervi partecipare, ed ora sono qui a trasmettervi le sensazioni che ne ho ricavato.

Attraverso Twitter sono venuta in contatto con il progetto di Tara St. James, una giovane newyorkese che attualmente dirige Study NY, un’agenzia che si occupa di supportare e lanciare stilisti emergenti nel campo della moda sostenibile. Il suo progetto consisteva nel dar vita ad una piccola collezione di capi versatili e modellati a partire dalla forma più semplice di tutte: il quadrato. Pezze di stoffa quadrate cucite, drappeggiate, riprese e attorcigliate, ma mai tagliate. Questo per dimostrare come si possano creare abiti splendidi senza sprecare tessuto in ritagli. Tessuto, peraltro, non convenzionale: cotoni organici, tinti senza utilizzare sostanze inquinanti, e materiali di recupero, a creare splendide gonne e stole intrecciate a mano. La determinazione e la simpatia di Tara hanno fatto sì che lei riuscisse a raccogliere su Internet tramite donazioni spontanee quasi 7.000 dollari, che le hanno permesso di mettere in piedi una piccola sfilata durante la settimana della moda, proprio a New York, dimostrando quanto sia efficace e vincente il connubio eco-chic.

Sono stata, poi, ad una preview di moda etica: uno spazio espositivo, una sorta di fiera in cui numerosi stilisti ed artisti presentano ai visitatori le loro creazioni ad impatto zero: freschi ed eleganti abiti in tessuti naturali (Emesha); gioielli in oro, argento ed acciaio di recupero e pietre dure di scarto o estratte nel rispetto dell’ambiente e della salute dei lavoratori (Moonlight Jewelry by Alluryn, ma anche Castaway Design by Nick Vaverco, Alberto Parada ed Ana Gutierrez); deliziose clutch ricavate da gomma di pneumatici usurati (Passchal) o eleganti borse in pelle rivitalizzata e trattata (Redhanded Bags); caldi pullover ottenuti dalla filatura di …Bottiglie di plastica colorata . Opere d’arte di una moda che è consapevole del suo costo per il pianeta e che, proprio per questo, dall’alto delle passerelle abbassa lo sguardo sulla Terra e si serve di quello che è già stato prodotto, piuttosto che produrre dell’altro costoso Nuovo.

Negli States fioriscono sempre più spesso organizzazioni come quella di Tara St. James: non posso dimenticare di citare Bel Esprit (Debora Pokallus ne è la brillante presidentessa) che insieme a Nolcha ha organizzato gli eventi sulla moda sostenibile e che funge da vera e propria incubatrice per stilisti che vogliano intraprendere una carriera in questo ambito.

La moda che ho visto a New York mi è sembrata divertente, fresca. Sa di nuovo, di adesso, dei problemi dell’oggi e del domani. Soddisfa la necessità di reinvenzione originale propria di questi artisti contemporanei, che dispongono di materiali non convenzionali e di un nuovo stimolo a creare: la sfida dell’era moderna, salvare il pianeta dal riscaldamento globale. Il mercato della moda sostenibile è in costante crescita (stando ad un rilevamento di ICEA, Istituto di Certificazione Etica e Ambientale, esso attualmente genera un fatturato complessivo di 370 milioni di euro) e si auspica che possa prendere  sempre più piede, soprattutto tra le giovani generazioni. Non viene chiesto, tuttavia, a questa moda, di ridurre drasticamente l’impatto ecologico dell’uomo sulla Terra, né di risolvere in toto il problema dei rifiuti o di avere un ruolo chiave nella riduzione delle emissioni inquinanti. Certo, anche il settore tessile fa la sua parte nel quadro generale, ma la moda è moda, fa quello che sa fare: è un veicolo di espressione, di informazione e di cambiamento. Ecco, ci aspettiamo questo, che cambi i comportamenti e introduca una nuova sensibilità. Uno nuovo stile di vita ecocompatibile… Che vada di moda.

Silvia



Sostenibilità: un trend nel settore del legno-arredo

19 10 2009

Venerdì sono stata a FUTSU, convention dedicata agli ultimi aggiornamenti sull’industria del legno-arredo. L’evento, organizzato dal Consorzio Universitario di Pordenone, è stato strategicamente realizzato in concomitanza con il salone internazionale dei componenti e accessori per il mobile, il SICAM, a Pordenone.

Molti i diversi relatori che si sono susseguiti sul palco, provenienti sia dal mondo aziendale che della ricerca o dell’università. L’intenso e pretenzioso programma era stato suddiviso in quattro macro sezioni (ambiente, IT, nuovi materiali, trend globali) che declinassero in modo diverso ma complementare quali siano le nuove sfide e prospettive per gli attori del comparto.

aziendale con il tema del rispetto dell’ambiente.Una rassegna nel nome della sostenibilità ambientale, come è stato chiaro già dalla scelta dello speaker che ha introdotto FUTSU, Gabriele Centazzo, l’imprenditore di Valcucine noto per aver legato il suo successo. Nonostante fosse teoricamente l’argomento solo della prima sessione, l’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono stati in qualche modo il lait motiv dell’intera giornata. Non solo discutendo di strategie di comunicazione e innovazione (con le testimonianze di COPAT e IKEA e i rapporti di Federlegno Arredo) ma anche affrontando i temi dei nuovi materiali, vuoi perchè realizzati a partire da materiali riciclati, vuoi perchè realizzati riducendo l’impiego di energia e materie prime fossili, vuoi perchè implichino processi di produzione meno impattanti sull’ambiente.

La ricorrenza delle tematiche della sostenibilità sembra essere un indice del fatto che essa rappresenta uno dei trend principali che sta motivando l’innovazione nel settore. Un elemento che è emerso da quasi tutte le relazioni che hanno toccato questi temi è che essenziale per lo sviluppo e il successo di innovazioni sostenibili è in primo luogo la conoscenza e poi la consapevolezza, sia da parte dei consumatori che delle aziende stesse. In questo senso le certificazioni ambientali si sono dimostrate un utile strumento, nelle parole delle aziende e dei rappresentanti del distretto o delle associazioni industriali, per monitorare le proprie performance ambientali e per comunicarle ai consumatori. Conoscenza, indispensabile per realizzare le innovazioni sostenibili, che spesso viene costruita insieme a soggetti esterni all’impresa: fornitori o KIBS, come il CATAS, centro ricerche-sviluppo e laboratorio di prove specializzato nel settore legno-arredo.

Altro aspetto importante e complementare sottolineato da molti speakers è quello dell’importanza del considerare tutti gli attori della catena del valore per poter realizzare innovazioni che riducano concretamente l’impatto sull’ambiente, rispettando la legislazione e facendo leva su queste tematiche sul mercato finale. Mi ha stupito molto che soggetti diversi si siano indirizzate nel sottolineare l’importanza del Life Cycle Thinking: per essere sostenibili è importante selezionare, gestire e controllare anche le fasi a monte e a valle del proprio processo produttivo. Indispensabile in questo senso è la funzione del design, che ad esempio può concepire una cucina in cui tutti i componenti siano facilmente separati gli uni dagli altri, per favorire il riciclo alla fine del ciclo di vita, come l’ultima cucine Valcucine.

Anche il ruolo dei nuovi materiali sembra essere una frontiera promettente per l’innovazione sostenibile nel settore del mobile. I bio-polimeri sembrano essere una tecnologia già in grado di sostituire gli equivalenti a base fossile, senza troppi investimenti nei processi produttivi esistenti, per realizzare prodotti quali le schiume o le vernici.

Insomma, non è sempre vero che le tecnologie alternative non sono già disponibili. Piuttosto forse, esiste un problema di comunicazione e di mancanza di informazioni. Quello che è sicuro, invece, è che in un settore importante per l’economia italiana come quello del legno-arredo innovazione fa sempre più spesso rima con sostenibilità ambientale.

Valentina



Ma quanto valgono le tecnologie rinnovabili?

9 10 2009

Si parla molto del valore di impianti per la produzione di energia rinnovabile: ma come valutarlo?

I favorevoli alle installazioni di pannelli solari e impianti eolici suggeriscono di considerarli come investimenti di lungo termine, sottolineando i risparmi in bolletta e gli eventuali guadagni per la rivendita dell’energia al sistema centrale. I puristi dell’ecologia ne sottolineano soprattutto il valore in termini di tonnellate di emissioni risparmiate, in centimetri di buco dell’ozono evitati, in milligradi centigradi di surriscaldamento terrestre in meno. Imprenditori e privati attenti al portafoglio ne considerano soprattutto il prezzo di listino, scoraggiandosi di fronte agli elevati costi di acquisto di impianti fotovoltaici e al lontano break-even-point dei pannelli solari.

Tutti sono interessati a capirne il vero valore, per avere un mezzo per promuovere queste forme di produzione di energia più sostenibile ma anche per comprenderne il potenziale economico, d’investimento, lo sviluppo futuro. Ma quanto valgono veramente queste tecnologie?

A quanto pare, un nuovo interessante indicatore può aggiungersi alla lista di cui sopra. Sembra infatti esserci una nuova categoria di appassionati del pannello: i ladri. E a guardare l’ammontare della refurtiva, cento milioni di euro nel solo 2008 e il trend in crescita per il 2009 si direbbe che il prodotto il valore del prodotto non sia da poco. A leggere le cronache locali, il furto di strutture destinate alla produzione di energia rinnovabile è diventato un tormentone in tutta italia, un degno avversario di Rolex e dei gioielli della nonna per il premio miglior refurtiva dell’anno, soprattutto nelle zone più isolate dove gli eco-ladri possono agire indisturbati.

Sembra che le gang dei ladri di pannelli stiano diventando più temibili dei ladri delle ville. O che i pannelli siano diventati più redditizi delle cassaforti dei signorotti locali. Tanto che è stato messo a punto un dispositivo antifurto apposta per proteggere i panneli solari, con tanto di localizzatore Gps incorporato.

Al termine dell’operazione chiamata, con gran fantasia, Operazione Kyoto, la squadra mobile di Matera ha inchiodato una banda che operava con gran efficienza, riuscendo a smontare in una sola notte un centinaio di moduli. Niente male per un bottino che non si può certo trasportare nelle tradizionali sacche da ginnastica. La banda del pannello (che con un nome così potrebbe diventare un indimenticabile soggetto cinematografico…) che per mesi ha terrorizzato gli eco-investitori del Sud Italia aveva trovato anche gli acquirenti: i pannelli venivano infatti spediti via furgone nel Nord Africa, a un terzo del prezzo italiano. Dei Robin Hood moderni, insomma.

Chi l’ha detto che i paesi più poveri non sono eco-sensibili?

Valentina